L’assalto al Congresso non impedisce la conferma di Biden

Il 6 gennaio 2021 rimarrà nella storia americana non solo come la data dell’assalto al Congresso ma anche per la epica vittoria dei democratici nelle votazioni suppletive svolte in Georgia per l’elezione di due senatori; due seggi, acquisiti dai democratici, che valgono il controllo del Senato.  La vittoria democratica delle elezioni svoltesi a novembre è ora completa. I democratici hanno conquistato la maggioranza al Senato, in aggiunta a quella già acquisita alla Camera.

L’assalto al Congresso

L’ultima volta che il Congresso americano ha subito un assalto è stato il 24 agosto 1814; i Britannici lo misero a ferro e fuoco nel corso della “Guerra Anglo-Americana”.

L’assalto del 6 gennaio 2021, non è stato condotto da forze militari o da terroristi stranieri, ma da cittadini americani, più precisamente dai supporter di Donald Trump.

Per loro le autorità USA hanno coniato il termine “terroristi domestici”. Questi ultimi hanno accolto pienamente l’invito rivolto loro dal Presidente Trump, poco prima, durante il comizio dello stesso giorno, di marciare sul Congresso per bloccare la prevista certificazione dell’esito elettorale, e cioè della vittoria di Joe Biden.

Trascorse alcune ore, dopo le inaudite violenze che sono state trasmesse in diretta dai media di tutto il mondo, quando le forze di sicurezza hanno ripreso il controllo del “Capitol”, i parlamentari hanno potuto riprendere la sessione, certificando il processo elettorale assegnando la vittoria a Joe Biden.

Il fallimento della sicurezza

Come è stato possibile per i manifestanti riuscire ad entrare al Congresso? Di chi sono le responsabilità operative?  Una indagine chiarirà cosa non abbia funzionato.  È necessario ricordare che la giurisdizione sulle diverse forze di polizia presenti a Washington, le loro competenze e la gestione delle tematiche sulla sicurezza sono articolate e complesse, e quindi richiedono un elevato livello di coordinamento fra autorità locali e federali, che è venuto a mancare.

Le responsabilità di Donald Trump

L’assalto rappresenta il culmine di una strategia attuata già prima dell’elezione di Trump. Strategia fondata sulla manipolazione e falsificazione della realtà, ciò che i suoi collaboratori chiamavano candidamente: un altro punto di vista, un’altra verità’.  Trump ha saputo sfruttare la propensione, di una parte della popolazione americana, seppur minoritaria, a credere a notizie sensazionalmente false.  Per esempio, nel 2010 abbracciò e rilanciò come cavallo di battaglia, la bufala che Barack Obama non fosse nato in America e, pertanto, seconda la Costituzione, la sua elezione alla presidenza fosse illegittima.  Nel 2016, quando diventò presidente perché aveva ottenuto più voti dei grandi elettori rispetto a Hillary Clinton, nonostante quattro milioni di voti popolari in meno, dette vita alla bufala che avevano votato milioni di immigrati illegali. Rilevante, e più recente, in ordine temporale, la bufala concernente i presunti brogli elettorali a suo danno nelle elezioni dello scorso novembre.

Finalmente, ieri 7 Gennaio, per quanto solo a seguito delle enormi pressioni ricevute anche dall’interno del suo partito, Trump ha ammesso pubblicamente che il 20 gennaio gli USA avranno un “nuovo governo”. Non ha mai citato il nome Joe Biden e a continuato a ritenersi vincitore delle elezioni. Anche in questo momento così drammatico per la Nazione, ha trovato modo di somministrare l’ultima bufala (speriamo) del suo mandato. Ha dichiarato di aver inviato personalmente la Guardia Nazionale a respingere l’assalto e disperdere la folla. Tutto il mondo ha visto che ciò non è accaduto. Ovviamente, ha negato anche che questi estremisti fossero suoi sostenitori. 

A pochi giorni dalla fine del suo mandato, di fronte alla evidenza che Trump sia da considerare il mandante politico dell’assalto al Congresso, anche un numero crescente di parlamentari repubblicani sta chiedendo la testa del Presidente.  Mancano, però, i tempi tecnici sia per impostare la procedura di impeachment volta a rimuovere il presidente Trump sia per attivare la procedura prevista dal XXV emendamento alla Costituzione che prevede la possibilità di rimuovere il Presidente in carica con un provvedimento approvato dalla maggioranza dei ministri del governo. 

Qualora Trump dovesse rimanere in carica fino al termine previsto, si pensa di sanzionare il suo operato con una censura formale del Congresso; probabilmente da decretare anche dopo la sua uscita dalla Casa Bianca, per garantire una traccia storica del provvedimento.

La vittoria dei democratici in Georgia

La vittoria dei democratici Jon Ossoff e del reverendo Raphael Warnock sui repubblicani Kelly Loeffler e David Perdue nelle elezioni suppletive in Georgia ha garantito ai Democratici due seggi al Senato, acquisendone così la maggioranza.

Ora, infatti, i democratici possono contare su 48 senatori, più 2 indipendenti in coalizione, e sul voto decisivo della Vice Presidente USA e Presidente del Senato Kamala Harris raggiungendo così, quota 51, uno in più dei 50 senatori a disposizione dei repubblicani.

Le preoccupazioni delle autorità istituzionali

I massimi esponenti delle istituzioni degli Stati Uniti sono ora molto preoccupati per eventuali ulteriori colpi di testa che Trump potrebbe intentare nei giorni che mancano alla fine del suo mandato. Temono che possa far correre seri rischi alla sicurezza degli Stati Uniti. Da quando è stato nominato Presidente, le sue iniziative estemporanee da imbarazzanti sono divenute sempre più gravi e pericolose per la Nazione, fino al punto di mirare chiaramente alla destabilizzazione dello stato di diritto e della democrazia degli USA. L’obiettivo dei vertici istituzionali, ormai consapevoli della sua pericolosità, è quantomeno contenerlo con una “camicia di forza costituzionale” per impedirgli di fare ulteriori danni.  Sicuramente la tensione rimarrà alta fino a mezzogiorno del 20 gennaio 2021.

Articolo pubblicato da “Il Denaro” l’8 gennaio 2021.

Trump minaccia i funzionari repubblicani della Georgia

In un maldestro tentativo di ribaltare i risultati delle elezioni presidenziali dello scorso novembre, Donald Trump ha praticamente ordinato al Segretario di Stato della Georgia, il repubblicano Brad Raffensperger, di sovvertire i risultati “trovando 11.780 voti”.  Si ricorda che il democratico Joe Biden ha vinto per 11.799 voti. 

In una registrazione di una telefonata del 2 gennaio 2021, pubblicata online dal Washington Post oggi, si può ascoltare Trump “ordinare” a Raffensperger e al suo consigliere Ryan Germany di “trovare” i voti necessari per sovvertire il risultato ufficiale.

Si ricorda che Trump e i suoi consiglieri avevano già contestato più volte i risultati della Georgia, così come quelli di altri stati, uscendo sconfitti in ogni occasione.  Hanno perso sia nei tribunali sia nella riconta dei voti, come è successo proprio in Georgia, uno Stato amministrato dai repubblicani.

Le minacce di Trump potrebbero avere delle conseguenze legali di notevole portata.  Nella registrazione si sente un irato Trump che allude a possibili conseguenze nel caso in cui il Segretario di Stato della Georgia rifiuti di sostenere le infondate accuse di brogli elettorali.  La minaccia più grave è arrivata quando Trump chiaramente avverte Raffensperger che se non avesse ribaltato i risultati delle elezioni, avrebbe corso “un grande rischio”. Era in linea anche il Capo dello Staff del presidente, Mark Meadows.

Raffensperger e Germany non hanno esitato a contrastare ogni accusa di Trump, ribadendo la correttezza della consultazione georgiana, non cedendo alle accuse, alle lusinghe, ai rimproveri o alle minacce.  Hanno più volte ribadito che le informazioni in possesso del Presidente non erano corrette.

Il 5 gennaio 2021 si terranno in Georgia il ballottaggio per due seggi al Senato.  Ai repubblicani basterà vincere uno dei due seggi per tenere un’esigua maggioranza di 51 a 49 voti. Se i democratici riuscissero a vincere entrambi seggi, si avrebbe un pareggio di 50 a 50, con il voto decisivo che passerebbe al vice presidente Kamala Harris.

Versione aggiornata pubblicata da “Il Denaro” il 5 gennaio 2021

E se Trump rifiutasse di andarsene?

A mezzogiorno del 20 gennaio 2021, scadrà il mandato di Donald Trump e del vicepresidente Mike Pence. “Nello stesso momento”, come cita il ventesimo emendamento alla Costituzione Americana, inizierà il mandato di Joe Biden e del suo vice, Kamala Harris.

Regola semplice — non c’è nulla da interpretare e non sono previste eccezioni.

La durata del mandato presidenziale è di quattro anni ed è stabilito chiaramente dall’articolo 2 della Costituzione.

Tuttavia, non sembra che il dettato costituzionale possa scalfire in alcun modo la determinazione di Trump di rimanere alla Casa Bianca.  La sua logica è semplicissima: la consultazione elettorale dello scorso novembre non è valida perché fraudolenta, cioè lesiva dei diritti degli americani. Lui si sente l’unico in grado di tutelarli e quindi accusa tutti di fare parte di un colossale complotto per rimuoverlo; non risparmia nessuno, dai membri del suo partito e i ministri del suo governo, ai giudici costituzionali che lui stesso ha nominato. 

Voi potreste chiedermi: cosa succederebbe se a mezzogiorno del prossimo 20 gennaio Trump rimanesse nella Casa Bianca? Probabilmente non succederebbe nulla di eclatante da un punto di vista istituzionale. Lo stato di diritto prevarrebbe sul populismo, sul caos e sulla destabilizzazione. 

Infatti, in quel preciso momento, le Forze Armate passerebbero sotto il comando di Joe Biden, i codici nucleari scadrebbero e quelli nuovi verrebbero messi a disposizione del nuovo presidente, anche tutto l’apparato esecutivo del governo USA risponderebbe a lui.  A Trump rimarrebbe la scorta, a cura dei Servizi Segreti, prevista per gli ex presidenti e una pensione.  Nella remotissima ipotesi che non volesse uscire fisicamente dalla Casa Bianca, rischierebbe l’arresto e l’incriminazione per violazione di domicilio. 

E’ gravissimo, invece, il tentativo perpretato da Trump per impedire a Joe Biden di iniziare il suo mandato senza compromettere la continuità dell’attività di governo del Paese.    

Biden ha denunciato, in un discorso del 28 dicembre 2020 trasmesso dai maggiori canali televisivi USA e dai social, l’assenza di collaborazione da parte di Trump e dei suoi più fedeli collaboratori nel passaggio delle consegne.  Per Biden, per esempio, è inaccettabile che Trump abbia impedito al Dipartimento della Difesa e all’intelligence di collaborare con lui e il suo governo.  Biden dovrà contare sull’efficienza, la fedeltà e il patriottismo di migliaia di dipendenti federali, civili e militari, per colmare il vuoto creato da Trump e riguadagnare il terreno perso in questi mesi, per quanto riguarda la transizione, ma anche quello perso nel corso degli ultimi quattro anni nei rapporti con i maggiori alleati internazionali.

Nonostante Trump, Il 20 gennaio si svolterà pagina.

Lo stato di diritto prevarrà. L’America tornerà ad avere un Presidente che non utilizza il suo tempo su Twitter e sui social in genere, offendendo minoranze, giornalisti, donne, avversari.

L’azione di Trump, ha probabilmente rafforzato il senso civico e la fiducia nella Costituzione dei funzionari dello Stato che hanno resistito a ogni tipo di pressione ed hanno dimostrato lealtà verso le istituzioni e quindi verso il popolo americano.

Il giornalista Chris Cuomo, durante il suo “talk show” trasmesso dalla CNN il 23 dicembre 2020, ha descritto Trump come un virus iniettato nel sistema per infettarlo, per renderlo debole.  Come un corpo che sviluppa gli anticorpi quando viene a contatto con un virus, lo stato di diritto negli USA si è difeso. Ha vinto ed è più forte. Il 20 gennaio 2021 ci sarà la pacifica transizione dei poteri a Joe Biden.

Pubblicato da “Il Denaro” il 30 dicembre 2020.

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Didascalia della foto:
John Fitzgerald Kennedy presta il giuramento come 35mo Presidente alla presenza del Presidente della Corte Suprema. Earl Warren. sulle scale del Congresso, Washington, il 20 gennaio 1961. (foto: STF/AFP/Getty)

Gli indiani d’America al centro dell’attenzione del Governo Biden

Joe Biden e Kamala Harris hanno coinvolto i vertici dei nativi americani durante la campagna elettorale. È interessante notare infatti che, nell’affrontare temi legati alle istituzioni locali, quindi che richiedevano un coinvolgimento dei governatori dei 50 Stati americani, entrambi hanno sempre incluso tra questi i leader delle tribù e delle nazioni indiane.  Si appellavano a loro mettendoli alla pari dei governatori. I nativi americani sono oltre cinque milioni, di cui 78% vive fuori dalle riserve.

Le 574 tribù indiane, riconosciute ufficialmente dal governo federale americano, avranno, quindi, in Joe Biden e Kamala Harris dei riferimenti istituzionali attenti ai loro bisogni e rispettosi della loro storia, identità e tradizioni.  Più di 374 trattati, stipulati ad oggi, in oltre duecento anni, definiscono il livello di sovranità garantito alle diverse tribù e nazioni native, regolamentano la gestione dei territori, e declinano i diritti dei nativi all’interno della più vasta Nazione americana.  Purtroppo, molto spesso i trattati non sono stati rispettati completamente dal Governo Americano.

Biden e Harris hanno promesso durante la campagna elettorale di far tornare la questione indiana al centro dell’attenzione del nuovo governo. La nomina a Ministro degli Interni della deputata nativa americana, Deb Haaland, è un chiaro segnale della loro determinazione.

Inoltre, qualora confermata dal Senato, questa nomina rappresenterà la prima opportunità per un esponente di una tribù o nazione nativa di partecipare attivamente nel governo degli USA, e per di più alla direzione di un Ministero.

L’Interior Department, si occupa della gestione dei parchi nazionali, delle riserve, delle risorse naturali e di tutto il patrimonio forestale, nonché dei programmi per le minoranze etniche. Il Ministro degli Interni in America, contrariamente a quanto avviene in quasi tutti gli altri Stati del Mondo, non gestisce la sicurezza pubblica e non ha alle sue dipendenze le forze dell’ordine.  Negli USA, queste responsabilità sono assegnate al Department of Homeland Security (dipartimento della sicurezza della nazione).

Deb Haaland è stata eletta deputato in una circoscrizione del New Mexico e appartiene ad una antica tribù nativa, riconosciuta dal governo federale con il nome “Pueblo of Laguna”.  La sua nomina a Ministro del governo federale, tuttavia, espone a dei possibili rischi la maggioranza alla Camera, confermata dai democratici nelle votazioni dello scorso novembre.  Vediamo perché: i democratici hanno 222 deputati, quindi, solo 4 oltre quota 218, che rappresenta il numero necessario per controllare la Camera.  Poiché Biden ha prelevato dalla Camera anche i deputati Cedric Richmond della Louisiana e Marcia Fudge dell’Ohio oltre alla nativa americana Deb Haaland e poiché la legge Americana non prevede la loro sostituzione immediata, i democratici alla Camera saranno ridotti a 219, cioè solo uno in più rispetto alla quota che serve per avere la maggioranza. 

L’attuale presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi, è sicura che i democratici riusciranno a sostituire i tre deputati in occasione delle elezioni suppletive, le cui date non sono ancora state stabilite. Tuttavia, è preoccupata per quanto potrebbe accadere fra il 20 gennaio 2021, data in cui i tre deputati diventeranno ufficialmente parte del governo Biden, e quando si svolgeranno le elezioni suppletive.

Biden e Harris hanno promesso ai nativi americani di rafforzare il rapporto diretto fra il Governo Federale e le Nazioni indiane, con un approccio “Nation-to-Nation”.  Si propongono di ridurre la disparità di trattamento che affligge i nativi rispetto agli altri cittadini soprattutto in materia di assistenza sanitaria. Si prefiggono di restituire ai nativi la competenza sui territori da loro occupati, con particolare attenzione al cambiamento climatico e alla salvaguardia dei beni naturali e culturali delle diverse tribù e nazioni.  Intendono attuare tutte le iniziative necessarie per aumentare la sicurezza delle comunità native, specialmente la tutela delle donne, dei bambini e degli anziani.  Specifiche iniziative saranno adottate per aumentare lo sviluppo economico nelle comunità native e assicureranno maggiore tutela al loro diritto al voto. I veterani nativi saranno commemorati per i servizi resi nelle forze armate USA.

Sicuramente la nomina di Deb Haaland al Ministero degli Interni rappresenterà una decisa inversione di tendenza rispetto alle politiche attuate dal governo di Donald Trump nella gestione dell’ambiente e del patrimonio naturale americano. I nativi d’America sono stati protagonisti di numerose proteste e durissimi confronti nei territori indiani contro il passaggio di oleodotti irrispettosi dell’ambiente, contro lo sfruttamento indiscriminato e irragionevole delle risorse idriche e contro il fracking.

La maggioranza dei nativi americani ha sostenuto e votato Joe Biden e Kamala Harris, ora si aspettano una risposta leale, in controtendenza rispetto alla slealtà ricevuta negli ultimi due secoli. Si aspettano provvedimenti per la salvaguardia dei loro diritti che siano sostanziali e duraturi. 

Pubblicato da “Il Denaro” il 20 dicembre 2020

Lo Stato di Diritto regge all’urto di Donald Trump

La Corte Suprema americana, bocciando venerdì 11 dicembre 2020 il tentativo dei fedelissimi di Donald Trump di sovvertire il risultato delle presidenziali dello scorso novembre, ha ribadito la supremazia della Costituzione e dello Stato di Diritto rispetto agli interessi personali o di partito.   

La Corte ha rigettato in toto la richiesta presentata dal procuratore generale dello Stato del Texas, appoggiato da 17 altri Stati (tutti governati dai repubblicani) e da 100 deputati repubblicani, di annullare il risultato del voto popolare negli Stati della Georgia, della Pennsylvania, del Michigan e del Wisconsin per presunte irregolarità. La mozione texana proponeva, inoltre, di lasciar decidere alle camere legislative, a maggioranza repubblicana nei succitati quattro stati, se sostenere Donald Trump o Joe Biden. 

Se fossero state accettate le argomentazioni texane, Biden avrebbe sicuramente perso un totale di 62 grandi elettori, scendendo da 306 a 244, dando a Trump la maggioranza con 294 voti, rispetto agli attuali 232.  Un vero e proprio ribaltone!

La massima corte americana ha, quindi, rispedito al mittente la richiesta giudicandola completamente irregolare e in violazione del disposto della Costituzione Americana che prevede che ogni Stato possa gestire le elezioni secondo leggi proprie (statali), le quali, a loro volta, devono essere in sintonia con i diritti inalienabili dei cittadini americani, previsti dalla stessa Costituzione Americana.  La Corte aveva già bocciato un tentativo dei repubblicani di sospendere la certificazione dei risultati elettorali in Pennsylvania martedì, 8 dicembre 2020.

Trump contava sulla fedeltà o la riconoscenza dei tre giudici che ha nominato alla Corte Suprema nel corso degli ultimi anni.  La massima corte americana è formata da nove giudici, di cui, attualmente, sei sono di estrazione conservatrice (repubblicani), mentre tre sono di matrice liberal-progressista (democratici).  Quando si crea una vacanza nell’organico della Corte Suprema, il presidente degli USA nomina un candidato e il Senato lo conferma.  Il mandato dei giudici è a vita.  

Trump ha un’enorme difficoltà nell’accettare che sia i giudici, come i militari e i dirigenti di agenzie federali, posti all’apice delle rispettive organizzazioni ed uffici, sia attraverso nomine politiche o normali progressioni di carriera, si dimostrino, così come previsto dalla legge, fedeli alla Costituzione e non al Presidente.  Anche il Presidente stesso giura fedeltà alla Costituzione e da lui ci si aspetterebbe lo stesso comportamento.  Trump, tuttavia, antepone la fedeltà a se stesso rispetto a quella verso la Costituzione, alla Nazione, e al popolo sovrano.

Durante l’attuale mandato presidenziale, Trump ha rimosso chiunque manifestasse anche una minima indecisione fra la fedeltà verso di lui e quella dovuta alla Costituzione.  Il 91% dei membri della sua amministrazione è stato sostituito nell’arco di quasi quattro anni. Si tratta di 59 incarichi su 65.  Trump non è riuscito, tuttavia, a rimuovere dirigenti di carriera come il famoso immunologo, il dottor Anthony S. Fauci, presidente della National Institute of Allergy and Infectious Diseases, o militari come il generale Mark A. Milley, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate americane, che lo hanno contraddetto in pubblico in più occasioni.

Inoltre, il concetto di sovranità popolare per Trump non è mediato dal rapporto fra cittadino e Costituzione, la quale investe le cariche elettive e professionali di autorità.  Per Trump il rapporto è fra lui e quella parte di popolo che lo ha votato. Nella sua visione, è lui ad investire di autorità ministri, giudici, generali e dirigenti di agenzie federali e non la Costituzione. Pertanto, Trump si aspetta, di conseguenza, che chi occupa una carica istituzionale sia fedele a lui “in primis” e non alla Costituzione.

L’uscita di Trump il prossimo 20 gennaio, consentirà allo Stato di Diritto di ritornare centrale nelle dinamiche all’interno della Casa Bianca. È un bene per gli Stati Uniti e per tutto il mondo. Ma forse è anche un bene per tutti quegli americani di fede repubblicana che vorranno ritornare alla politica delle proposte programmatiche e delle normali diversità di vedute fra conservatori e progressisti, abbandonando una volta per tutte il culto imposto della personalità, proprio di monarchie assolutiste e regimi dittatoriali che devono essere confinati nell’oblio della storia.

Pubblicato su “Il Denaro” online il 13 dicembre 2020

Trump crea confusione fra i repubblicani

Le continue accuse di brogli e irregolarità che il Presidente Donald Trump rivolge al sistema elettorale americano rischiano di far perdere ai repubblicani la maggioranza al Senato.

Trump crea confusione fra i repubblicani insinuando che anche le elezioni del 5 gennaio 2021 saranno irregolari, in linea con le accuse che ha rivolto per le elezioni presidenziali che ha perso a novembre.


Il 5 gennaio 2021 si svolgerà il ballottaggio per due seggi di senatore in rappresentanza della Georgia, che determinerà quale partito controllerà il Senato americano. Lo scrutinio si terrà perché nessun candidato ha superato il 50% dei voti nelle elezioni del 3 novembre 2020, traguardo stabilito dalle leggi della Georgia per l’elezione al primo turno.


La campagna elettorale è in pieno svolgimento e i sondaggi confermano una sostanziale parità fra i concorrenti in gara. Nella prima competizione georgiana, il confronto è fra il democratico Jon Ossoff e il senatore uscente, il repubblicano David Perdue. Nella seconda, è fra il reverendo democratico Raphael Warnock e la senatrice uscente, la repubblicana Kelly Loeffler.


È chiaro che se Trump continua, in modo illogico, a scoraggiare i repubblicani dall’andare a votare mentre i democratici mirano a portare più persone alle urne, il risultato sarebbe scontato e devastante per i candidati repubblicani. Senza il voto dei sostenitori di Trump, è impossibile che Perdue e Loeffler possano essere riconfermati al Senato.


Si ricorda che in Georgia, uno stato a gestione repubblicana, Joe Biden ha vinto principalmente perché i democratici sono riusciti ad ottenere il sostegno delle minoranze, e in particolare sono stati premiati dal voto degli americani di origine asiatica e delle isole del Pacifico.


È ironico che Trump accusi di brogli e d’inefficienze il sistema elettorale in Georgia retto da repubblicani. Trump accusa il governatore repubblicano della Georgia, Brian Kemp, e i suoi assistenti di essere, di fatto, strumenti di poteri occulti che si annidano all’interno delle strutture pubbliche americane, il cosiddetto “deep state”, una specie di stato clandestino parallelo, teoria sostenuta dai complottisti della estrema destra di oltreoceano.


Ma vediamo perché la gara in Georgia è così importante. Ricordiamo in primo luogo che oltre ad aver vinto la Presidenza degli USA, i democratici hanno anche riconfermato la maggioranza alla Camera, dove possono contare su 222 deputati contro i 213 dei Repubblicani. Ora tocca al Senato dove, con le elezioni del 5 gennaio, se ne determinerà la maggioranza.


Facciamo qualche conto. Il Senato americano è composto da 100 senatori, ovvero due per ognuno dei 50 Stati dell’Unione. Il vice presidente degli Stati Uniti funge da presidente del Senato e, quando non si raggiunge una decisione a maggioranza, prevale il suo voto. Al momento, il nuovo Senato americano, risultante dalle elezioni dello scorso novembre, vede i repubblicani in vantaggio con 50 seggi, a seguire i democratici che, con 46 senatori propri e 2 senatori indipendenti, formano un’alleanza che al momento conta su 48 senatori. I senatori rimangono in carica per sei anni e ogni due anni si rinnova un terzo dei seggi.

Nella foto: i candidati democratici Raphael Warnock e Jon Ossoff durante un comizio a Marietta, Georgia, il 15 novembre 2020
(foto: Brynn Anderson – AP)


I due senatori che mancano all’appello saranno eletti, appunto, con il ballottaggio che si svolgerà in Georgia il 5 gennaio. Per ottenere la maggioranza, ai repubblicani basterà vincere uno solo dei due seggi in palio. Invece, i democratici dovranno vincere entrambi i seggi per raggiungere quota 50 e poi avvalersi del voto del vice presidente Kamala Harris per avere la maggioranza.


La strategia governativa di Joe Biden e Kamala Harris sarà fortemente influenzata da chi avrà il controllo del Senato. Se vincono i repubblicani, Biden e Harris dovranno governare nell’ottica del compromesso e sarebbe estremamente difficile mettere in atto molti dei programmi sociali proposti durante la campagna elettorale. Con la vittoria in Georgia, invece, si avrebbe il controllo dell’intero Congresso con la conseguente attuazione di larga parte del programma elettorale.


Cosa farà Trump durante il mese che manca all’appuntamento elettorale? Cercherà di aiutare il suo partito nel conservare il controllo del Senato, oppure continuerà a sparlare delle elezioni e divulgare maldicenze sul sistema elettorale americano, con il rischio di scoraggiare gli elettori repubblicani della Georgia dal partecipare al voto del prossimo 5 gennaio?


Per il momento, l’unica certezza è che Trump sta seminando confusione fra gli elettori repubblicani e un misto di rabbia e rassegnazione fra i dirigenti del suo partito.

Articolo pubblicato da “Il Denaro” il 7 dicembre 2020

La brutta figura di Trump

Il presidente Donald Trump sta facendo una pessima figura nel continuare a contestare i risultati delle elezioni presidenziali del 3 novembre 2020.  È stato sconfitto nel conteggio del voto popolare con una differenza di oltre 6 milioni di voti e dalle preferenze espresse dai grandi elettori per 306 a 232. Accusa i democratici di avergli rubato l’elezione. Rincara la dose con racconti fantasiosi di morti che avrebbero votato, di schede elettorali a suo favore gettate via e sostituite da quelle per Joe Biden.  Ma, nessuna delle accuse ha sortito gli effetti desiderati.  Ha perso!

Per comprendere in che modo la squadra di Trump ha inteso ed intende sovvertire il risultato elettorale, è necessario un approfondimento sul funzionamento del sistema elettorale americano e delle formalità che porteranno all’investitura del nuovo presidente il 20 gennaio 2021.

Nel sistema federale americano ogni Stato gestisce le elezioni presidenziali in linea con le leggi federali integrate da quelle statali: esiste il voto popolare (espresso dai cittadini aventi diritto) ed il voto dei grandi elettori (designati dagli Stati). I grandi elettori rappresentano il valore elettorale di uno Stato. Ognuno dei 50 Stati esprime un valore elettorale, cioè un numero di grandi elettori, diverso.

Infatti, il numero di grandi elettori di cui ogni Stato dispone è uguale al numero dato dalla somma dei senatori e dei deputati che sono eletti in quello stesso Stato.

I senatori, a loro volta, sono 2 per ogni Stato a prescindere dal numero di abitanti e dalla superfice di ogni Stato; mentre il numero dei deputati è stabilito in base alla popolazione.  Per esempio, lo Stato del Montana vale solo 3 voti elettorali (cioè può designare 3 grandi elettori), pari alla somma dei 2 senatori più 1 deputato assegnato allo Stato in base alla popolazione (scarsa in questo caso) nonostante le considerevoli dimensioni geografiche.  Lo Stato del New Jersey, invece, più piccolo geograficamente del Montana, vale 14 voti elettorali (cioè 14 grandi elettori), pari alla somma di 2 senatori più 12 deputati assegnati grazie alla elevata densità di popolazione.

Come votano i grandi elettori è determinante ai fini della elezione del Presidente. In 48 dei 50 stati, vige la regola dell’asso piglia tutto. Cioè, al candidato Presidente che ottiene il maggior numero di voti popolari in uno degli Stati, vengono attribuiti tutti i voti elettorali (cioè quelli pari alla somma dei senatori e dei deputati di quello Stato); non importa se la differenza sia un voto solo o centinaia di migliaia di voti. Solo in due Stati, il Nebraska e il Maine, è possibile dividere i voti elettorali fra i diversi candidati a presidente, in base ai conteggi locali, nei distretti elettorali e non attraverso il conteggio nell’intero Stato. 

L’intero “Collegio Elettorale” nazionale è composto da 538 “grandi elettori”. Il candidato Presidente che ottiene 270 voti vince.  Al momento, Joe Biden ha raggiunto quota 306 mentre Trump è a 232.

La tabella di marcia della procedura elettorale americana prevede che ogni Stato risolva entro l’8 dicembre 2020 qualsiasi controversia riguardo i risultati elettorali.  Entro il 14 dicembre, ogni Stato nominerà i grandi elettori, i quali entro il 23 dicembre 2020, voteranno per il presidente e il vicepresidente, secondo la scelta elettorale espressa dallo Stato di appartenenza.  L’archivista di ogni Stato comunicherà al Congresso i risultati delle elezioni entro il 3 gennaio 2021.  Il Presidente del Senato leggerà e confermerà i risultati durante la convocazione plenaria delle due camere.  Il 20 gennaio 2021, a mezzogiorno, Joe Biden sarà in nuovo presidente americano.

Torniamo alla strategia di Trump per sovvertire il risultato elettorale. I suoi legali hanno provato a mettere in dubbio i risultati in Michigan, Arizona, Pennsylvania e Georgia.  Hanno contestato la legittimità dei voti effettuati per posta, la data di ricezione delle schede votate, il metodo per identificare chi votava di persona, e infine il sistema del software usato per conteggiare i voti.  Fallite queste contestazioni hanno tentato, negli stessi quattro Stati, di influenzare i parlamentari e le autorità di orientamento repubblicano a scegliere grandi elettori a lui favorevoli, e quindi istigando alla violazione della regola elettorale “dell’asso piglia tutto”.  Successivamente, Trump ha invitato membri repubblicani della legislatura del Michigan alla Casa Bianca per convincerli in questo senso. Ma ha fallito.  I repubblicani del Michigan non prenderanno alcuna iniziativa per sovvertire il voto espresso a favore di Biden dalla maggioranza dei cittadini di quello Stato – si limiteranno a rallentare la procedura, giusto per soddisfare il Presidente in carica. Analogamente, Trump ha fallito in Georgia, uno Stato amministrato dal Partito Repubblicano. Dopo un riconteggio manuale di oltre 5 milioni di voti, la vittoria di Joe Biden è stata già certificata dal governatore repubblicano Brian Kemp.

Gli avvocati di Trump non hanno più nulla da tentare. La procedura elettorale è risultata trasparente e l’esito delle elezioni sarà confermato nelle prossime settimane, come stabilito per legge e, il 20 gennaio 2021, Joe Biden sarà il 46mo presidente degli Stati Uniti.

Nel frattempo Trump ostacola una fattiva collaborazione fra i componenti della sua “squadra di governo” e quella di Joe Biden rischiando di compromettere la sicurezza e l’economia degli USA.  Ironicamente, e nonostante Trump, solo la battaglia contro la pandemia non subirà alcun rallentamento a causa della assenza di collaborazione fra il governo in carica e la squadra di Biden. Trump, infatti, ha sempre considerato il COVID-19 come una bufala creata dai democratici e, pertanto, la sua amministrazione non ha iniziative o programmi da consegnare agli uomini e alle donne di Biden: è difficile consegnare il nulla.

 

Versione aggiornata dell’articolo pubblicata il 29 novembre 2020 da “Il Denaro”

Elezioni pulite e il ritorno alla normalità

Il presidente Donald Trump ha perso le elezioni. Le ha perse in modo pulito. Non ci sono stati brogli e non ci sono stati grandi errori da parte degli addetti alle operazioni di voto in nessuno dei 50 stati o nei diversi distretti elettorali. Le poche irregolarità, abbastanza fisiologiche quando votano oltre 140 milioni di cittadini, non hanno favorito né una parte né l’altra. Ci sono state contestazioni legali e procedurali rispetto alle date cui accettare il voto per posta, al tipo di documento d’identità richiesto per chi votava di persona, su come contare i voti espressi con schede che gli scanner non riuscivano a leggere. Niente di più. Tutte le accuse, le esagerazioni, i video virali e le tante parole dette e messe in giro da complottisti di ogni specie, sono state rispedite al mittente. Non dai democratici, non da chi ha votato contro Trump, ma dagli stessi governatori repubblicani, dagli amministratori elettorali repubblicani, dai giudici nominati dai politici repubblicani, dalla stampa repubblicana. Insomma, Trump è sconfitto ed è isolato.


Le attuali accuse di brogli e di errori grossolani portate avanti da alcuni sostenitori di Donald Trump rientrano nella più ampia battaglia in corso negli USA sulla rappresentazione della realtà. Prima dell’ascesa di Trump, democratici e repubblicani potevano interpretare diversamente un evento, un accadimento, ma erano d’accordo che erano cose effettivamente accadute. Durante il corso del mandato del Presidente Trump, la CNN ha più volte messo in onda una pubblicità mostrando una mela, indicando che non importava quante volte la si volesse chiamare una banana, anche urlando ad alta voce, sarebbe sempre rimasta una mela. In America, con l’elezione di Joe Biden e Kamala Harris, è stato fatto un grande passo verso la normalità della realtà. Una banana è una banana e non è e non sarà mai una mela. Così come una mascherina da indossare durante la pandemia è sempre e solo una mascherina e non una dichiarazione politica. Trump accusava i democratici di usare il mantra “Covid-Covid-Covid” per motivi elettorali, e che la pandemia sarebbe miracolosamente scomparsa dopo le elezioni. Invece, continua ad esistere e i 244 mila morti sono reali. Così come lo sono i 181 mila nuovi casi registrati il 13 novembre. I morti e i contagiati sono democratici e repubblicani, cittadini e immigrati, giovani e anziani, imprenditori e operai, bianchi e neri.


È innegabile che una parte dell’opinione pubblica negli USA, così come altrove, è affascinata dalle interpretazioni fantasiose della realtà. Le teorie complottiste sono all’ordine del giorno. Colpiscono intellettuali e persone meno colte, ricche e meno abbienti, forse con pari frequenza. Il dubbio, non quello sano, scientifico, si è insinuato dovunque. E così si leggono commenti sui social che lasciano senza parole. Si nega l’esistenza del COVID-19, così come si nega che Biden abbia vinto in modo pulito le elezioni.


Tornando alla realtà, Joe Biden sarà il 46mo presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 2021. Senza una politica atta a contenere la pandemia, si stima che per quella data moriranno negli USA almeno altre 100 mila persone. Ed è per questo che Biden ha deciso, come primo atto formale da “president-elect”, di nominare una commissione sanitaria composta dai migliori specialisti attualmente disponibili negli USA, per affrontare la pandemia in modo decisivo, sistematico e scientifico. È il ritorno alla normalità della realtà.

Articolo pubblicato il 14 novembre 2020 su “Il Denaro” online.

Dieci settimane alle presidenziali USA

Conclusa la Convention Repubblicana

Republican presidential nominee Mitt Romney waves to the crowd with vice presidential runningmate Rep. Paul Ryan (L) after accepting the nomination during the final session of the Republican National Convention in Tampa, Florida, August 30, 2012 REUTERS/Mike Segar

Anthony M. Quattrone

 

Con la chiusura della Convention repubblicana il 30 agosto 2012 a Tampa, in Florida, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, e il deputato del Wisconsin, Paul Ryan, sono diventati gli sfidanti ufficiali per la presidenza e la vice presidenza degli Stati Uniti nelle prossime elezioni che si svolgeranno il 6 novembre 2012.  Il presidente Barack Obama e il suo vice Joe Biden hanno dieci settimane a disposizione per convincere gli elettori che meritano di rimanere al comando del Paese per completare il cambiamento della società americana proposto quattro anni fa.

Nei tre giorni della kermesse repubblicana, Romney e Ryan hanno cercato di presentare agli americani una visione dell’America che mette in risalto i valori del libero mercato, dell’individualismo, della meritocrazia, e dello spirito dell’avventura accusando Obama e i democratici di sostenere una visione statalista, assistenzialista, dove l’impresa è soffocata dalle troppe tasse legate a un mercato sociale di tipo Europeo.  La ricetta repubblicana per uscire dalla crisi ricalca fondamentalmente principi liberisti basati sulla riduzione delle tasse, quella della spesa pubblica e un generale allentamento dei controlli sull’economia da parte del governo federale.  Romney, nel suo discorso del 30 agosto 2012 ha confermato la promessa fatta da Ryan due giorni prima, il quale si è sbilanciato nel promettere la creazione di dodici milioni di posti di lavoro nei prossimi quattro anni.  Romney ha anche promesso ai giovani la creazione di scuole che potranno offrire un futuro brillante e che “nessun anziano dovrà temere di non ricevere la pensione”, senza entrare nel dettaglio della copertura delle relative spese.

Un articolo di Jim Rutenberg pubblicato dal New York Times il 30 agosto 2012 nota che uno dei maggiori ostacoli che Romney deve superare è il legame emotivo che gli elettori che hanno votato per Obama nel 2008 mostrano ancora nei confronti del presidente.  Romney, conscio del fattore emotivo, ha toccato l’argomento nel suo discorso alla convention repubblicana: “Non abbiate perplessità ad abbandonare Obama anche se quattro anni fa siete stati fieri di votare per il primo presidente nero della nostra storia: sapete bene che ha sbagliato. Da americano speravo avesse successo, ma ci ha deluso.”  Secondo Rutenberg, gli strateghi democratici e repubblicani concordano sull’importanza del legame emotivo fra gli elettori di Obama e il presidente.  Rutemberg cita Mark McKinnon, un ex strategista per la campagna di George W. Bush, “Sarà difficile rompere il legame che molti elettori hanno nei confronti di Obama, anche se si sentono delusi. Il legame può essere considerato un matrimonio andato male, ma si vuole tentare di salvarlo”.

I sondaggi nazionali rilevano un fondamentale pareggio fra Obama e Romney per quanto riguarda il voto popolare.  Rasmussen indica Romney in vantaggio per 45 a 44 percento fra le persone che più probabilmente andranno a votare, mentre Gallup da Obama in vantaggio per 47 a 46 percento fra le persone iscritte alle liste elettorali.  Mentre i sondaggi nazionali danno una visione abbastanza generale sul gradimento dei candidati presidenziali, i sondaggi condotti in ogni stato sono più indicativi perché il sistema elettorale americano per la presidenza si basa sul conto dei 538 “voti elettorali” assegnati ad ogni stato e non sul voto popolare a livello nazionale. In quasi tutti gli stati, tutti i voti elettorali assegnati a uno stato vanno al candidato che ottiene più voti.  Diventa presidente il candidato che raggiunge 270 voti elettorali.  Secondo la media dei sondaggi monitorati da realclearpolitics.com, Obama avrebbe un vantaggio di 221 voti contro 191 per Romney, con 126 voti, appartenenti a dieci stati, che sono ancora indecisi.  Secondo i sondaggi, Obama è in vantaggio in nove dei dieci stati “indecisi”.  Il risultato finale del conteggio dei “voti elettorali” darebbe, pertanto, Obama vincente con 320 a 206.

La battaglia per la Casa Bianca si deciderà probabilmente nei dieci stati “indecisi” perché è qui dove lo sfidante Romney può attingere i 79 voti che gli servono per arrivare a 270: Colorado con 9 voti, Florida con 29, Iowa con 6, Michigan con 16, Nevada con 6, New Hampshire con 4, North Carolina con 15, Ohio con 18, Virginia con 13 e Wisconsin con 10.  Per vincere, Obama deve assolutamente tenere duro negli stati tradizionalmente democratici e puntare il tutto per tutto in quegli stati indecisi che hanno un maggior numero di rappresentanti, per racimolare 49 voti che, secondo i calcoli di realclearpolitics, gli servirebbero per la rielezione.