Si è appena concluso il Democratic National Convention che si è svolto dal 19 al 22 agosto 2024 a Chicago e l’entusiamso dei democratici è alle stelle. Per molti osservatori, non si vedevo questo tipo di entusiasmo dai tempi delle campagne elettorali di Bob Kennedy nel 1968 e di Barack Obama nel 2008. Kamala Harris va avanti nei sondaggi nazionali e recupera in quelli nei cosiddetti “stati ballerini”, che alternano il voto tra democratici e repubblicani nei diversi turni elettorali nel corso degli anni. La grande domanda è se l’entusiamo è temporaneo o se fungerà da spinta per portare Harris alla Casa Bianca il 5 novembre 2024.
Nella quarta puntata del podcast, Tony Quattrone, responsabile dei democratici USA in Italia dal marzo 2015 al marzo 2017 e attivista democratico a Houston, Texas, racconta gli eventi che stanno caratterizzando le elezioni presidenziali USA. Sono successe molte nell’ultimo mese, dal 27 giugno 2024, quando si è svolto il dibattito tra Joe Biden e Donald Trump, ad oggi, 26 luglio 2024 — eventi e decisioni che hanno dato una svolta decisiva alla campagna elettorale presidenziale USA. La nomina di Donald Trump come candidato presidenziale repubblicano è stata formalizzata nella Convention Repubblicana che si è svolta a Milwaukee dal 15 al 18 luglio, immediatamente dopo l’attentato del 14 luglio 2024 contro l’ex presidente. Il 21 luglio 2024, il presidente Joe Biden si è ritirato dalla campagna elettorale, spianando la via al suo vice, Kamala Harris, per diventare la candidata democratica alla presidenza. I repubblicani stanno ora ricalibrando la loro campagna elettorale che era totalmente concentrata su come sconfiggere Joe Biden. I democratici lavorano, invece, per ricostruire la grande coalizione che aveva dato la vittoria a Biden nel 2020.
La vittoria di Donald Trump è già materia di studio per analisti e commentatori in tutto il mondo. Le dinamiche che hanno permesso ad un imprenditore senza alcuna esperienza né politica né di governo di diventare il candidato repubblicano e poi di vincere le elezioni americane sconfiggendo l’establishment di entrambi partiti, possono essere comprese anche attraverso un’attenta analisi delle promesse messe in campo da Trump. Le stesse promesse che lo hanno portato alla vittoria sono quelle che potrebbero causargli i più grandi problemi nel corso dei prossimi quattro anni.
Mentre nel marzo 2016 Trump valutava addirittura la possibilità di aprire un albergo a Cuba, ragionando come un qualsiasi imprenditore americano, oggi le sue dichiarazioni da presidente in pectore hanno e avranno una valenza diversa. La comunità cubana della Florida ha probabilmente contribuito in modo significativo alla sua elezione, dandogli la possibilità di vincere in uno degli stati più determinanti nella corsa verso la Casa Bianca, con i suoi 29 voti elettorali. Cosa farà ora? Ragionerà con il cappello dell’imprenditore, spinto dalle tante imprese americane interessate a riaprire i rapporti commerciali con Cuba, o farà il politico alla vecchia maniera, come qualsiasi membro dell’establishment che lui stesso ha sconfitto, pagando il “debito” con la comunità cubana-americana?
La comunità cubana di Miami è influente e non permetterà a Trump di ribaltare in modo indolore la sua “nuova” posizione su Cuba, ovvero quella del settembre 2016, quella che gli è servita per essere eletto. Ogni parola che dirà, ogni azione che porterà avanti, specialmente durante i primi 100 giorni della sua amministrazione, sarà valutata con la lente di ingrandimento non solo da chi lo ha votato, ma anche da chi ha perso, pronto a rinfacciargli ogni promessa non mantenuta. Se Trump vorrà mantenere la promessa elettorale fatta alla comunità cubana della Florida, dovrà prendere una posizione estremamente dura con Raul Castro, legando la sopravvivenza degli accordi alla concessione di ampie libertà civili, politiche e religiose nel isola caraibica.
Ovviamente, se Trump decidesse di cancellare gli ordini esecutivi del presidente Obama, dovrà scontrarsi con le tante imprese che hanno già intrapreso rapporti commerciali con Cuba, a partire dai colossi del trasporto aereo e dell’industria alberghiera, la stessa industria di cui fa parte lo stesso presidente-eletto.
Il tasso di disoccupazione americano è sceso al 7,5% per il mese di aprile 2013, registrando il livello più basso in quattro anni. Il dato, annunciato il 3 maggio 2013 dal Dipartimento del Lavoro USA, ha avuto un effetto positivo immediato sui mercati americani e internazionali, portando la Media Industriale Dow Jones sopra quota 15.000 per la prima volta nella sua storia. Secondo i dati annunciati dal governo USA, i nuovi posti di lavoro, nei settori non agricoli, sono aumentati di 165 mila unità, superando di 20 mila quelli già previsti. Il dato di aprile è anche superiore alla rilevazione di marzo, che, dopo varie correzioni, si è attestato ad un aumento di circa 138 mila posti di lavoro rispetto al mese precedente.
La traiettoria positiva sicuramente avvantaggia il presidente Barack Obama e suggerisce che l’economia americana si stia avviando verso la risoluzione di una lunga crisi, beneficiando di un mercato immobiliare in netta ripresa, un aumento della fiducia dei consumatori, e di una serie di iniziative da parte della Federal Reserve, che hanno aiutato a far diminuire i costi del credito e aumentare il valore del mercato azionario. La Fed ha indicato che intende tenere il costo del denaro il più basso possibile, almeno sino a quando la disoccupazione non sarà scesa fino al 6,5 percento.
Obama, nel discorso che tenne il 7 novembre 2012, in occasione della vittoria nelle elezioni presidenziali per il suo secondo mandato, disse che “Possiamo continuare a lottare per nuovi posti di lavoro, per nuove opportunità e per una sicurezza nuova a favore della classe media . . . Credo che siamo in grado di mantenere le promesse dei nostri padri fondatori, l’idea che se vuoi lavorare sodo . . . allora puoi farlo qui, in America”. Oggi la promessa di Obama sembra prendere forma mentre gli Stati Uniti continuano a immettere posti di lavoro nell’economia.
Tuttavia, non tutti gli analisti concordano sulla bontà dei dati sulla discesa della disoccupazione, perché la metodologia del calcolo della percentuale di disoccupazione non da un quadro completo della situazione del lavoro negli USA.
Secondo alcuni analisti, sarebbe importante controllare nelle statistiche pubblicate dal governo USA il dato percentuale generato dal rapporto fra il numero di persone impiegate e la popolazione “non instituzionale”, vale a dire, la somma di tutte le persone dai 16 anni in su, non arruolate nelle forze armate, non rinchiuse in un ospizio o in una prigione. Questa percentuale è importante perché da una visione più precisa dello stato dell’economia rispetto al dato pubblicato sulla disoccupazione, che invece è un rapporto fra i disoccupati in cerca di lavoro e la forza lavoro (cioè, la somma degli impiegati e i disoccupati in cerca di lavoro). In breve, un disoccupato che si è scoraggiato e non cerca più lavoro non conta più come parte della forza lavoro e pertanto le statistiche non lo conteggiano più. Pertanto è fondamentale conoscere tre dati per capire l’andamento dell’occupazione negli USA. Il primo è il totale della popolazione non istituzionale. Il secondo è il totale della forza lavoro (occupati più disoccupati in cerca di lavoro). Il terzo è il numero degli occupati.
Utilizzando questi tre dati si può raffrontare i dati dell’aprile 2012 con quelli dell’aprile 2013 e si possono trarre alcune interessanti conclusioni. La popolazione “non istituzionale” americana è passata da 242,784 milioni di persone a 245,175 milioni, con un aumento di 2,391 milioni di persone. A fronte di questo aumento della popolazione potenzialmente lavorativa, la forza lavoro è cresciuta da 154,451 milioni dell’aprile 2012 ai 155,238 milioni dell’aprile 2013, pari a un aumento di sole 787 mila unità, ovvero, un terzo dell’aumento della popolazione “non istituzionale”. Gli occupati sono andati dai 141,934 milioni di lavoratori dell’aprile 2012, ai 143,579 milioni dell’aprile 2013, con un aumento di 1,645 milioni di lavoratori. La lettura di questi dati, indica che addizionando i disoccupati in cerca di lavoro dell’apile 2012, (cioè 12,517 milioni di persone) con l’aumento della popolazione non istituzionale (cioè 2,391 milioni di persone), si arriva a un totale di 14,908 milioni di persone. Da questo totale si può sottrarre l’aumento del numero degli occupati fra l’aprle 2012 e quello del 2013 (cioè 1,645 milioni di lavoratori). Pertanto, i disoccupati dovrebbero essere 13,263 milioni di persone. I dati pubblicati dal governo USA registrano 11,659 milioni disoccupati ancora in cerca di lavoro. La differenza fra i due dati dimostra che 1,604 milioni di americani che non lavorano non sono più considerati “disoccupati” secondo le statistiche.
Lo stesso Dipartimento del Lavoro, nel suo rapporto ufficiale del 3 maggio 2013, definisce “discouraged” (scoraggiati) almeno 835 mila americani che non sono più considerati “disoccupati” in questo momento perché si sono arresi nella ricerca di un posto di lavoro.
Nella migliore delle ipotesi, volendo vedere “rosa”, si può utilizzare il rapporto fra popolazione impiegata e popolazione “non istituzionale”, e arrivare alla conclusione che negli USA la situazione è piuttosto stabile nell’ultimo anno: nell’aprile 2013 il 58,56% della popolazione “non istituzionale” è impiegata, contro il 58,46% dell’aprile 2012, con un aumento dello 0,10%.
Il Senato a maggioranza democratica, la Camera ai repubblicani
Anthony M. Quattrone
I dati oggettivi che emergono dalle elezioni americane del 6 novembre 2012 sono la riconferma di Barack Obama come presidente degli Stati Uniti, il controllo del Senato da parte dei democratici, quello della Camera da parte dei repubblicani, la vittoria dei democratici per 6 incarichi di governatore e dei repubblicani per 4.
Barack Obama ha ottenuto 51,25% del voto popolare e 332 voti del collegio elettorale, vincendo in 26 stati e nel Distretto di Columbia, mentre il candidato repubblicano, Mitt Romney, ha ricevuto il 48,75 del voto popolare e 206 voti elettorali, vincendo in 24 stati. La vittoria di Obama è netta sia per quanto riguarda il voto popolare, con quasi tre milioni di preferenze in più, sia nel collegio elettorale con uno scarto di 126 punti.
Sembrerebbe che i giovani, le donne, le minoranze e gli operai delle zone industriali del Paese formino la base della nuova “coalizione vincente” che ha permesso a Obama di vincere negli stati “ballerini” come Ohio e Virginia. L’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, non è riuscito ad allargare la base elettorale tradizionale dei repubblicani, formata dalle popolazioni bianche del sud, dalla destra religiosa, e dai conservatori moderati – una base che oggi è sempre più minoritaria rispetto ai nuovi gruppi che emergono da un’America in piena transizione demografica. Paul Krugman, premio Nobel per l’economia e giornalista del NY Times, ha scritto sul giornale newyorchese all’indomani delle elezioni che “Per molto tempo, quelli di destra – e alcuni opinionisti- hanno sostenuto l’idea che la ‘vera America’, cioè tutto quello che contava davvero, fosse quella delle popolazioni bianche non urbane, cui entrambe partiti avevano l’obbligo di sottomettersi. Nel frattempo, la vera America stava diventando diversa da un punto di vista etnica e razziale, e anche maggiormente tollerante. La coalizione di Obama del 2008 non è stato un caso, era il paese che stiamo diventando.”
Al Senato erano in palio 33 dei 100 seggi che formano l’assemblea. In questa tornata, i democratici hanno raggiunto quota 53, mentre i repubblicani sono scesi a 45. Sono stati eletti due senatori indipendenti che molto probabilmente entreranno nel “caucus” democratico al Senato. Alla Camera, dove erano in palio tutti i 435 seggi che formano l’assemblea, i repubblicani hanno ottenuto di nuovo la maggioranza, superando ampiamente la soglia di 218 deputati. Per il momento, i repubblicani avrebbero 234 deputati, contro i 195 per i democratici, con sei seggi ancora da attribuire. E’ interessante notare, tuttavia, che mentre i democratici hanno ottenuto un voto popolare più alto dei repubblicani, questi ultimi hanno guadagnato più seggi. Il sistema elettorale americano non si basa sulla proporzione del voto popolare per la determinazione dei seggi da assegnare alla Camera, bensì sulla competizione diretta fra i diversi candidati in ciascuno dei 435 distretti elettorali. Pertanto, la Camera USA vedrà una maggioranza di deputati repubblicani a fronte di una maggioranza di voto popolare ottenuto dai democratici.
Nelle undici competizioni elettorali per la carica di governatore, i democratici hanno vinto di nuovo in Delaware, Missouri, Montana, New Hampshire, Vermont, Washington e West Virginia, mentre hanno ceduto ai repubblicani l’incarico in Nord Carolina. I repubblicani hanno vinto di nuovo in Indiana, Nord Dakota, e Utah.
Per valutare quanto spazio di manovra abbia Obama nel portare avanti la sua politica di riforme, sarà necessario comprendere il rapporto di forza fra progressisti e conservatori nel nuovo Congresso – un rapporto che non segue necessariamente la divisione fra democratici e repubblicani. Già nel 2008, quando sembrava che Obama avesse una solida maggioranza al Congresso, si comprese subito che i conservatori eletti nel partito democratico avrebbero formato un unico blocco con i loro colleghi repubblicani, per sbarrare la strada a qualsiasi progetto di riforma, anche leggermente progressista. La riforma sanitaria fortemente voluta dal Presidente non è altro che il frutto di un compromesso fra la minoranza formata dai democratici liberal e progressisti e la maggioranza conservatrice formata da repubblicani e democratici di destra.
Ora sarà interessante vedere come si comporterà il 113mo Congresso quando sarà inaugurato il prossimo 3 gennaio. Fra meno di due anni, si svolgeranno le elezioni di mid-term e saranno di nuovo messe in palio i 435 seggi alla Camera e un terzo dei 100 seggi al Senato. Oggi il Congresso ha un gradimento sotto di sotto al 20% e molti cittadini incolpano senatori e deputati per le divisioni politiche e l’incapacità di portare a termine le riforme. Il presidente Obama ha il vantaggio che non dovrà più prestare attenzione agli indici di gradimento, perché non è possibile un terzo mandato, e, pertanto, avrà le mani libere che potrà usare per mettere una forte pressione sui senatori e sui deputati per raggiungere accordi necessari per rilanciare l’America.
President Barack Obama with New Jersey Governor Chris Christie
Photo of Christie/Obama – @Chris_Moody, via Twitter
Mancano solo cinque giorni alle elezioni americane e la competizione per la Casa Bianca vede il presidente in carica, Barack Obama, e lo sfidante repubblicano, Mitt Romney, battersi per conquistare il voto dei cittadini negli undici stati “ballerini”, quelli che determineranno chi sarà il prossimo presidente americano. Alla fine dei giochi, non importerà chi avrà la maggioranza del voto popolare, ma chi avrà superato 270 voti elettorali dei 538 in palio, assegnati a ciascuno stato in base alla popolazione. Nei diversi stati, chi ottiene la maggioranza del voto popolare vince tutti i voti elettorali assegnati a quello stato. Obama avrebbe, secondo la media dei sondaggi nazionali, 201 voti elettorali “sicuri” contro i 191 per Romney. Dei 146 voti rimanenti, i sondaggi darebbero 89 a Obama, portandolo a quota 290, e 57 a Romney, il quale raggiungerebbe quota 248.
Il margine di vittoria di Obama nei sondaggi degli otto stati dove sarebbe vincente, tuttavia, è ben all’interno del margine d’errore dichiarato dai sondaggisti. In breve, il presidente deve continuare un’intensa campagna specialmente in Ohio, con i suoi 18 voti, in Pennsylvania, con 20, Wisconsin con 10, Nevada con 6, e Michigan con 16. Con la vittoria in questi cinque stati, Obama raggiungerebbe quota 271. Ma Obama deve essere anche pronto in caso che Romney riuscisse nel conquistare l’Ohio, togliendo 18 voti al presidente, nel rimpiazzare quei voti con quelli del Colorado (9), Iowa (6) e New Hampshire (4), per un totale di 19 voti, che lo porterebbero oltre l’asticella di 270.
Molti commentatori americani, analizzando il potenziale effetto dell’uragano Sandy sul risultato delle elezioni americane, hanno notato che se da un lato Obama ha sicuramente guadagnato punti fra gli elettori per la sua impeccabile gestione dell’emergenza, con tanti complimenti ricevuti anche da acerrimi avversari politici del calibro del governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, dall’altro lato sembra che il presidente rischi di perdere le elezioni in Ohio e Virginia perché le contee maggiormente colpite dal maltempo, dove la popolazione potrebbe non riuscire ad andare a votare, sono quelle che hanno una maggioranza elettorale democratica. L’Ohio e la Virginia potrebbero passare da un candidato all’altro, determinando chi sarà il futuro presidente, per pochi voti.
Mentre i candidati continuano a fare comizi e raduni in particolare negli stati ballerini, i commentatori sono attenti alle notizie che provengono dall’economia. Ogni notizia positiva può spingere l’ago della bilancia a favore di Obama, mentre quelle negative possono aumentare le possibilità dello sfidante. Pochi giorni fa sono stati diramati dall’Università del Michigan i dati che indicano l’ aumento della fiducia dei consumatori rispetto al mese precedente, raggiungendo la quota più alta degli ultimi cinque anni. Ora si aspettano i dati sull’occupazione, che saranno diramati venerdì, 2 novembre 2012.
Con la chiusura della Convention repubblicana il 30 agosto 2012 a Tampa, in Florida, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, e il deputato del Wisconsin, Paul Ryan, sono diventati gli sfidanti ufficiali per la presidenza e la vice presidenza degli Stati Uniti nelle prossime elezioni che si svolgeranno il 6 novembre 2012. Il presidente Barack Obama e il suo vice Joe Biden hanno dieci settimane a disposizione per convincere gli elettori che meritano di rimanere al comando del Paese per completare il cambiamento della società americana proposto quattro anni fa.
Nei tre giorni della kermesse repubblicana, Romney e Ryan hanno cercato di presentare agli americani una visione dell’America che mette in risalto i valori del libero mercato, dell’individualismo, della meritocrazia, e dello spirito dell’avventura accusando Obama e i democratici di sostenere una visione statalista, assistenzialista, dove l’impresa è soffocata dalle troppe tasse legate a un mercato sociale di tipo Europeo. La ricetta repubblicana per uscire dalla crisi ricalca fondamentalmente principi liberisti basati sulla riduzione delle tasse, quella della spesa pubblica e un generale allentamento dei controlli sull’economia da parte del governo federale. Romney, nel suo discorso del 30 agosto 2012 ha confermato la promessa fatta da Ryan due giorni prima, il quale si è sbilanciato nel promettere la creazione di dodici milioni di posti di lavoro nei prossimi quattro anni. Romney ha anche promesso ai giovani la creazione di scuole che potranno offrire un futuro brillante e che “nessun anziano dovrà temere di non ricevere la pensione”, senza entrare nel dettaglio della copertura delle relative spese.
Un articolo di Jim Rutenberg pubblicato dal New York Times il 30 agosto 2012 nota che uno dei maggiori ostacoli che Romney deve superare è il legame emotivo che gli elettori che hanno votato per Obama nel 2008 mostrano ancora nei confronti del presidente. Romney, conscio del fattore emotivo, ha toccato l’argomento nel suo discorso alla convention repubblicana: “Non abbiate perplessità ad abbandonare Obama anche se quattro anni fa siete stati fieri di votare per il primo presidente nero della nostra storia: sapete bene che ha sbagliato. Da americano speravo avesse successo, ma ci ha deluso.” Secondo Rutenberg, gli strateghi democratici e repubblicani concordano sull’importanza del legame emotivo fra gli elettori di Obama e il presidente. Rutemberg cita Mark McKinnon, un ex strategista per la campagna di George W. Bush, “Sarà difficile rompere il legame che molti elettori hanno nei confronti di Obama, anche se si sentono delusi. Il legame può essere considerato un matrimonio andato male, ma si vuole tentare di salvarlo”.
La battaglia per la Casa Bianca si deciderà probabilmente nei dieci stati “indecisi” perché è qui dove lo sfidante Romney può attingere i 79 voti che gli servono per arrivare a 270: Colorado con 9 voti, Florida con 29, Iowa con 6, Michigan con 16, Nevada con 6, New Hampshire con 4, North Carolina con 15, Ohio con 18, Virginia con 13 e Wisconsin con 10. Per vincere, Obama deve assolutamente tenere duro negli stati tradizionalmente democratici e puntare il tutto per tutto in quegli stati indecisi che hanno un maggior numero di rappresentanti, per racimolare 49 voti che, secondo i calcoli di realclearpolitics, gli servirebbero per la rielezione.
Gli strateghi della comunicazione dei due maggiori partiti americani sono al lavoro per capire come e dove sia meglio indirizzare i messaggi agli elettori per le elezioni del prossimo novembre, quando si gareggerà per la presidenza degli Stati Uniti, per l’intera Camera, per un terzo del Congresso e per le cariche di governatore di undici stati e di due territori. La strategia per la campagna elettorale presidenziale è molto diversa da quelle per il Congresso e per le cariche di governatore, perché nelle presidenziali il meccanismo elettorale premia, in quasi tutti gli stati, solo il candidato vincente assegnando tutti i delegati previsti per quello stato e non dando nulla altri altri, e questo potrebbe incidere in modo decisivo sul tipo di campagna elettorale che democratici e repubblicani condurranno in ogni stato.
Prendiamo per esempio lo stato del West Virginia. Se l’attuale presidente americano, Barack Obama, pensasse che non ci fosse alcuna possibilità di vincere in West Virginia, che vale solo 5 delegati dei 538 in palio, e dove, secondo i sondaggi, il probabile candidato repubblicano, l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, vincerebbe per 54 a 33 punti percentuali, allora non varrebbe la pena di spendere nemmeno un dollaro per ottenere un risultato migliore, perché i 5 delegati andranno al vincitore, indipendentemente dalla proporzionalità del voto popolare. Ovviamente, perché i democratici in West Virginia vogliono conservare il seggio del loro senatore uscente, Joe Manchin, vogliono vincere il più alto numero dei tre seggi per la Camera in palio, e vorranno conservare la carica di governatore, dovranno decidere che tipo di campagna elettorale condurre. Il West Virginia è uno stato conservatore e potrebbe convenire ai candidati democratici prendere le distanze da Obama su questioni come il matrimonio fra le persone dello stesso sesso e, pertanto, non invitarlo durante la campagna elettorale del prossimo autunno. Attualmente in West Virginia i sondaggi indicano che i democratici potrebbero conservare il seggio al Senato, difendere il seggio che hanno alla Camera e forse conservare anche la carica di governatore dello Stato. Pertanto, Obama non andrebbe in West Virginia perché sa che non ce la farebbe a rimontare su Romney e eviterebbe di “danneggiare” i candidati democratici in gara con la sua presenza.
Per un candidato presidenziale democratico progressista come Obama, i deputati e i senatori eletti negli stati conservatori come il West Virginia, pongono seri problemi anche dopo le elezioni perché non sono sempre in linea con le proposte del Presidente e, alla fine, finiscono per allearsi con i repubblicani specialmente sui temi sociali. Nel 2008, quando Obama vinse le presidenziali e sia il Senato, sia la Camera ebbero delle maggioranze democratiche, il nuovo presidente non poté mai contare su una vera maggioranza perché un cospicuo numero di senatori e deputati democratici erano conservatori su questioni sociali ed economiche, allineati sulle posizioni tipiche del partito repubblicano. Nel 2008, con i democratici che avevano 235 deputati contro 198 repubblicani alla Camera, il Presidente Obama era di fatto in minoranza perché ben 54 democratici erano dichiaratamente conservatori e avevano apertamente indicato che non lo avrebbero appoggiato nel fare riforme progressiste. Nelle elezioni del 2010, ventotto dei 54 deputati democratici conservatori hanno perso il seggio contro repubblicani conservatori e l’attuale Camera rappresenta con più trasparenza il rapporto di forza fra conservatori e progressisti, con 256 repubblicani e venticinque democratici nel campo conservatore, e 153 democratici nel campo progressista.
Gli ultimi principali sondaggi con rilevazioni del 21 maggio 2012, danno, in media, un vantaggio di Obama su Romney di 1,6 punti percentuali. Secondo il sito RealClearPolitics.com, che effettua un monitoraggio costante di tutti i sondaggi nazionali e locali, Obama può contare su 227 delegati contro 170 per Romney. Secondo il sito, c’è incertezza per 141 delegati che appartengono a undici stati perché lo scarto a favore dell’uno o dell’altro candidato è minimo. E’ molto probabile che in questi stati si svolgerà la battaglia per la presidenza ed e qui che i due candidati dovranno puntare il tutto per tutto. Per Obama si tratta di racimolare 43 delegati, mirando in particolare a cinque stati: Ohio (con 18), Michigan (con 16), Wisconsin (con 10), New Hampshire (con 4) e Virginia (con 13). La battaglia per conquistare la Florida, che conta 29 delegati, è particolarmente avvincente, perché il voto della comunità ispanica è influenzabile sia dal carisma di Obama, sia da quello del senatore repubblicano Marco Rubio che è di origine cubane.
Ora gli strateghi della comunicazione dei due maggiori partiti americani stanno mettendo a punto le armi per mirare con precisione agli obiettivi da raggiungere, stato per stato, per raggiungere la quota dei 270 delegati necessari per l’elezione del presidente, senza tralasciare tutto quello che c’è da fare per vincere anche al Congresso e nelle gare per le cariche di governatore. Un lavoro che è già costato milioni di dollari e che, probabilmente, raggiungerà quote record, con Obama che ha già raccolto 220 milioni di dollari e con Romney che ha raggiunto quota 100.
Divulgato in rete il video-documentario “La strada che abbiamo percorso”
Anthony M. Quattrone
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=2POembdArVo]Il titolo più rincorrente che accompagna le analisi e gli articoli sulle primarie repubblicane del 2012 è “Romney vince ma non sfonda”, oppure “Romney vince ma non convince”. L’ex governatore del Massachussets, Mitt Romney, ha un saldo vantaggio sugli altri tre contendenti ancora rimasti in gara, eppure non riesce a conquistare il gradimento della maggioranza dell’elettorato repubblicano. A destra si sente la mancanza di un personaggio carismatico che possa competere seriamente contro Barack Obama nelle presidenziali Usa del prossimo novembre. Dopo trentuno competizioni per le primarie, Romney ha conquistato 516 dei 1.144 delegati che servono per vincere la nomination durante la Convention Repubblicana del 27 agosto 2012 a Tampa, in Florida, contro 236 per l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, 141 per l’ex presidente della Camera americana, Newt Gingrich, e 66 per il deputato del Texas, Ron Paul. Facendo la somma dei delegati, Romney batte gli altri per 516 a 433, mentre se si calcola il voto popolare, Romney è in grande difficoltà. Fino ad ora, Romney ha ottenuto 3.584.782 voti contro 5.518.768 espressi per gli altri tre candidati. Anche nei sondaggi per la nomination, Romney non riesce a sfondare. L’ex governatore del Massachusetts ha 35,1 percento, contro 29,3 per Santorum, 14,3 per Gingrich e 11,1 per Ron Paul.
Intano, dai sondaggi è palese che Romney è l’unico candidato repubblicano che possa competere con Obama. La media dei sondaggi svolti la scorsa settimana rileva Obama in vantaggio su Romney per 48,4 a 43,8 percento. Obama è in vantaggio su Santorum per 50,5 a 41,9 percento, su Gingrich per 51,3 a 37,5 percento e su Ron Paul per 46,6 a 39,4 percento.
Gli analisti e gli strateghi democratici e repubblicani utilizzano tre dati per tentare di capire come andranno le elezioni del prossimo novembre. Questi sono gli indici di popolarità del presidente Obama, il tasso di disoccupazione, e la fiducia dei consumatori. La media dei sondaggi condotti durante la settimana scorsa mostra una certa stabilità del consenso degli americani nei confronti di Obama con 47,1 percento a favore e 46,9 contrari. E’ più preoccupante l’indice che rileva la fiducia degli americani riguardo la direzione del Paese, con solo 31,3 percento che pensa che il Paese vada nella direzione giusta e 61,3 percento che pensa di no. Obama, tuttavia, rimane più popolare degli eletti al Congresso a maggioranza repubblicana, i quali, complessivamente hanno un gradimento di solo 11,3 percento.
Il tasso di disoccupazione in America per febbraio 2012 è rimasto inalterato a 8,3 percento, pari al mese precedente, ma con l’aggiunta di ben 227 mila posti di lavoro. Secondo un rapporto pubblicato dal ministero del lavoro, è il terzo mese di fila che sono stati creati oltre 200mila posti di lavoro. Se la tendenza continuasse, Obama potrebbe trovarsi entro la fine dell’estate con l’aggiunta di quasi un milione di posti di lavoro, che inciderebbe non poco sulle elezioni di novembre.
La fiducia dei consumatori Usa, misurata dall’University of Michigan, è leggermente sotto le attese degli specialisti, attestandosi a 74,3 punti invece di 76, forse a causa della preoccupazione degli americani che il prezzo della benzina possa avvicinarsi sempre di più a $5 al gallone (pari a circa un euro al litro). L’indice che misura l’opinione degli intervistati rispetto alla loro situazione finanziaria al momento dell’intervista, la loro opinione sullo stato dell’economia a breve, e la loro opinione sullo stato dell’economia a lungo termine, è tarato su quota 100 stabilita nel 1964 ed è calcolato attraverso le interviste telefoniche fatte a un campione di 500 persone. Anche se l’indice è più basso di quanto previsto, non è necessariamente sfavorevole a Obama, se confrontato ai risultati degli ultimi mesi, con il suo progressivo innalzamento rispetto al punto più basso raggiunto lo scorso agosto, quando scese a 55,7.
Il management della campagna elettorale di Obama, approfittando del momento favorevole per il presidente, ha divulgato in rete il 15 marzo 2012 un video- documentario di poco più di un quarto d’ora, che s’intitola “The Road We’ve Traveled” (“La strada che abbiamo percorso”), girato dal vincitore dell’Oscar, Davis Guggenheim, e narrato da Tom Hanks, in cui sono riassunti tutti i momenti più importanti dei primi tre anni della presidenza Obama e le maggiori decisioni che il Presidente ha dovuto prendere. Il video, su youtube, è stato già visto da oltre 1,2 milioni di persone.
La tattica dell’attesa adottata dagli strateghi della campagna elettorale di Barack Obama è sempre più influenzata da due circostanze: il miglioramento dei dati dell’economia Usa in generale e della disoccupazione in particolare, e lo scontro sempre più fratricida fra i candidati repubblicani nelle primarie in corso. Obama ha raccolto un’immensa potenza di fuoco, fatta da 125 milioni di dollari, che ha ricevuto dai suoi sostenitori fino al 31 dicembre 2011, e che, fino ad oggi, non ha dovuto impegnare il modo rilevante per la sua campagna elettorale. Come nella campagna del 2008, Obama sta raccogliendo molti contributi di sostenitori che possono permettersi piccole cifre: ha raccolto settantaquattro milioni di dollari da sostenitori che hanno contribuito fino a duecento dollari a testa, e poco oltre nove milioni fra chi ha potuto contribuire fra duecento e i cinquecento dollari.
In casa repubblicana, i quattro contendenti rimasti in gara continuano a darsi battaglia senza alcuna esclusione di colpi, quasi fossero iscritti a partiti diversi. Le schiaccianti vittorie dell’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, in Florida il 31 gennaio 2012 e in Nevada il 4 febbraio 2012, avevano creato la sensazione che i giochi fossero fatti, dando al milionario mormone un impulso decisivo verso la nomination. Invece, il 7 febbraio 2012, l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, ha vinto in Minnesota, Missouri, e Colorado, raccogliendo il voto della parte più conservatrice del Paese e della stessa base repubblicana, che continua a non essere convinta che Romney sia abbastanza conservatore e che questi potesse realmente rappresentare le posizioni della destra religiosa americana. In Minnesota, un altro beniamino della destra repubblicana, il deputato del Texas, Ron Paul, ispiratore del movimento “Tea Party”, è arrivato secondo, battendo anche lui Romney. L’ex presidente della Camera americana, Newt Gingrich, forte della convincente vittoria nel Sud Carolina, non è riuscito a brillare nemmeno lui con gli elettori della destra oltranzista, forse perché il suo stile di vita non è esattamente in linea con i precetti della destra religiosa. Nelle gare svolte fino ad ora, Romney potrà contare su 90 delegati, Santorum su 44, Gingrich su 32 e Paul su 13 dei .1.144 che servono per vincere la nomination durante la Convention Repubblicana il 27 agosto 2012 a Tampa, in Florida. E’ interessante notare, tuttavia, che, indipendentemente dall’assegnazione dei delegati fino ad ora, Romney ha ottenuto 40,2 percento del voto popolare, contro 30,1 per Gingrich, 15,5 per Santorum e 11 per Ron Paul.
Secondo i sondaggi, Obama è vincente contro di ognuno dei quattro candidati repubblicani. Contro Romney, Obama ha un vantaggio di 48,1 a 44,3. Contro Gingrich, Obama ha un vantaggio di 51 a 40,4. Contro Santorum, il vantaggio è di 49,8 a 41,2. E, infine, contro Ron Paul, il vantaggio è di 48,2 a 42. Gli strateghi democratici preferirebbero che Obama affrontasse a novembre uno dei candidati repubblicani più conservatori, come Santorum, Gingrich o Paul, sperando così di poter conquistare il voto indipendente e moderato, che difficilmente potrebbe concentrarsi su uno dei candidati della destra conservatrice. Mitt Romney, pertanto, rimane il candidato più temibile per Obama perché è l’unico che potrebbe attrarre il voto degli indipendenti e di quelli che nel 2008 hanno votato per Obama ma oggi non lo appoggiano più.
Se l’economia continuasse a migliorare e i dati della disoccupazione continuassero a scendere, Obama potrà proseguire nel godersi lo spettacolo dei repubblicani che si fanno la guerra, aspettando il momento più opportuno per finalmente iniziare la campagna elettorale.