L’attenzione degli elettori si sposta verso gli affari interni.

Anthony M. Quattrone

Un sondaggio condotto per l’AP/Yahoo! News, pubblicato il 28 dicembre, indica che nell’ultimo mese l’attenzione maggiore degli elettori americani si è spostato dalla guerra in Iraq e la situazione internazionale ai temi connessi all’economia americana.  Oltre la metà degli elettori intervistati nel corso del sondaggio hanno affermato che in questo momento l’andamento dell’economia e l’assetto del sistema sanitario nazionale sono i temi più importanti per loro.  Molti elettori sono preoccupati per il costo della benzina, che la loro casa di proprietà può perdere valore, di non riuscire a pagare debiti contratti attraverso i mutui o le carte di credito, e per la possibilità di dover affrontare spese mediche eccessive.

Sessanta percento degli intervistati sono convinti che gli USA stanno andando incontro ad una recessione nel prossimo anno.  Il 55 percento è preoccupato per il valore dei loro investimenti in borsa, incluso quello dei fondi pensione, temendo un calo nell’immediato futuro.  Il 44 percento è preoccupato per la possibilità che nei prossimi sei mesi il valore delle loro proprietà scenderà drasticamente.  Il 48 percento degli intervistati considera il problema del Social Security, il sistema di sicurezza sociale americano, molto importante.  Secondo il sondaggio, gli elettori considerano più affidabili i democratici sui temi di economia interna, dando una preferenza del 34 percento a questi ultimi contro il 22 per i repubblicani.

Secondo il sondaggio, due terzi degli intervistati vorrebbero che gli Stati Uniti adottassero un sistema sanitario nazionale sotto il controllo del governo, finanziato attraverso l’erario, e che prevedesse la copertura per tutti i cittadini.  Il 64 percento degli intervistati è preoccupato di dover affrontare una grossa spesa medica nell’immediato futuro.  Il tema della copertura sanitaria è particolarmente dibattuto in casa democratica, mentre è praticamente assente fra i repubblicani.  Secondo il sondaggio, il 41 percento degli elettori ha fiducia nei democratici a riguardo di questo tema, contro il 17 che preferiscono i repubblicani.  Fra i democratici, la senatrice di New York, Hillary Clinton, il senatore dell’Illinois, Barack Obama, e l’ex senatore del Nord Carolina, John Edwards, hanno messo al centro dei loro programmi elettorali la creazione di un sistema nazionale per allargare la copertura sanitaria in America, dibattendo a lungo su come finanziare il programma, quali servizi dovrebbe fornire, e chi dovrebbe usufruire del sistema. Leggi tutto l’articolo

USA 2008, si gioca il “Superbowl” presidenziale

A meno di un anno dalle primarie gli States sognano la sfida stellare tra Hillary Clinton e Rudi Giuliani

Anthony M. Quattrone

Le elezioni presidenziali americane non sono solo la procedura istituzionale per decidere chi dovrà governare il paese per quattro anni, ma forse sono anche l’evento di più grossa rilevanza mediatica, che, negli USA, forse supera anche il Superbowl, la finale di football americano.  Il Superbowl è così importante e seguito, che anche il presidente degli Stati Uniti non esita a spostare di qualche giorno il discorso sullo Stato dell’Unione, che si tiene proprio a fine gennaio come il Superbowl, per evitare sovrapposizioni di palinsesto televisivo, che lo vedrebbe sicuramente perdente, in termini di audience, rispetto alla partita dell’anno.

Le elezioni Presidenziali del 2008 si stanno già presentando come il “Superbowl” delle elezioni americane di tutti i tempi.  Secondo il presidente della Commissione Elettorale Federale, Michael Toner, queste elezioni saranno le più costose in assoluto della storia americana.  Toner stima che costeranno almeno un miliardo di dollari e se un candidato per le primarie vuole essere seriamente preso in considerazione, dovrà raccogliere almeno 100 milioni di dollari entro la fine del 2007, per condurre la battaglia per la nomination del suo partito.  Secondo Toner, i costi per le presidenziali americane sono più che raddoppiati nell’arco di otto anni.

Manca poco meno di un anno dall’inizio delle primarie per scegliere i candidati per i due partiti.  Volendo continuare una comparazione fra elezioni e Superbowl, l’immaginazione porta subito ad una sfida fra due stelle nel firmamento politico americano – Hillary Clinton, per i democratici e Rudi Giuliani, per i repubblicani – una sfida che non si è potuta consumare nel 2000 per il seggio di senatore dello Stato di New York, a causa di una grave malattia che aveva colpito Giuliani, costringendolo al ritiro durante le primarie.  Hillary stravinse per 12 punti contro un candidato dell’ultima ora, Rick Lazio, per i repubblicani.

Hillary Clinton, ex first lady dal 1992 al 2000, e moglie del popolarissimo presidente Bill Clinton, è dal 2000 senatore per lo stato di New York; Rudi Giuliani, due volte sindaco di New York, dal 1993 al 2001, e l’indiscusso leader morale della nazione dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.  Hillary contro Rudi, fantapolitica?  Forse non tanto.  Secondo i maggiori sondaggi dell’ultima settimana, Hillary Clinton batterebbe tutti i candidati democratici per la nomination, staccando addirittura il secondo, il senatore Barack Obama, di ben 20 punti.  In campo repubblicano, la corsa è più vicina, con la maggioranza dei sondaggi che danno Giuliani favorito sul senatore John McCain per 6 o 7 punti, staccando tutti gli altri candidati per margini molto alti.  Nei sondaggi che raffrontano potenziali candidati democratici contro i repubblicani, Clinton contro Giuliani sortisce un sostanziale pareggio.  In breve, non sembrerebbe fantapolitica ipotizzare un “Superbowl” fra questi due giganti.

Il percorso per arrivare alle presidenziali è ancora molto lungo.  Clinton e Giuliani hanno annunciato le loro candidature da poco e sono nella delicatissima fase per la raccolta di fondi.  Qualche giorno fa, Hillary Clinton ha ospitato a cena a casa sua 70 sostenitori che hanno promesso di raccogliere fra i 250 mila e un milione di dollari a testa per sostenere la sua campagna elettorale.  La Clinton sta ora organizzando anche la raccolta di fondi fra sostenitori “medi” che promettono di raccogliere almeno $25.000 a testa.  Nel frattempo, secondo il “New York daily news”, Rudi Giuliani sembrerebbe intenzionato a raccogliere fra i 100 e i 125 milioni di dollari attraverso l’aiuto di 250 sostenitori.  Giuliani, che ha potuto contare finora sul forte appoggio dei più importanti studi legali e finanziari degli stati di New York, New Jersey, e Connecticut, per la maggior parte dei contributi economici, ha anche iniziato ad “esplorare le miniere d’oro della California”, attraverso un lavoro capillare di contatti con sostenitori pronti a contribuire grosse cifre.  Giuliani è, infatti, in California in questi giorni, conducendo un secondo viaggio nel giro di poche settimane.

L’elezione della Clinton o di Giuliani sarebbe un evento storico per l’America perchè entrambi rappresentano una “prima volta”: la Clinton sarebbe la prima donna presidente e Giuliani il primo italo-americano.  Nel 2004, ben 54% dell’elettorato era composto da donne, ed attualmente il 51% delle donne americane sono single.  Nel censimento del 2000, gli italian-americans erano 15,6 milioni, pari al 5,6% della popolazione.  Clinton e Giuliani dovranno sviluppare strategie adeguate per catturare il voto di questi due gruppi, o almeno neutralizzare il potenziale vantaggio che l’altro avrebbe dall’appartenere a uno di questi due gruppi.

Una vittoria della Clinton potrebbe dare un impulso definitivo alla lotta per le pari opportunità e l’uguaglianza fra uomo e donna.  I sondaggi indicano che l’80% degli americani non è contrario ad una donna nel ruolo di presidente e “comandante-in-capo” delle forze armate.  La vittoria di Giuliani, invece, vedrebbe la rivalsa della comunità degli italiani d’America contro decenni di discriminazioni e di insinuazioni, dove, secondo un sondaggio, il 74% degli americani pensano che la maggior parte degli italo-americani sono associati in qualche modo alla mafia.

Nelle primarie che inizieranno in Iowa agli inizi del prossimo anno, Clinton e Giuliani, se vorranno vincere, dovranno arrivare già con delle alleanze ben consolidate all’interno dei rispettivi partiti democratico e repubblicano.  Entrambi candidati sono dei centristi in campo sociale e conservatori in quello economico.  Non hanno posizioni molto diverse in politica estera, e, in genere non sembrerebbero molto distanti sui temi etici.  La Clinton deve tentare di non perdere la sinistra del proprio partito, così come Giuliani deve tentare di non perdere la destra religiosa.  Hillary sembra spostarsi troppo su posizioni care alla destra religiosa, alienando il movimento per i diritti civili.  Rudi ha dato dimostrazione di essere tollerante della diversità e aperto al cambiamento sociale, sulla questione gay e sulla ricerca scientifica, alienando così la destra religiosa.

Se vinceranno le nomination per i rispettivi partiti, il Superbowl della politica americana si giocherà probabilmente non sulla politica, ma su chi è considerato più capace di implementarla, su chi è più affidabile.  Mancano 11 mesi all’inizio delle primarie.  Tanto potrà cambiare nei sondaggi, e l’incognita della guerra in Iraq avrà sicuramente il suo peso sulle preferenze dell’elettorato, così come hanno dimostrato le elezioni del mid-term dello scorso novembre.  Ma il Superbowl arriverà, e la scommessa su Hillary Clinton contro Rudi Giuliani è d’obbligo.

Pubblicato sull’Avanti! dell’11 febbraio 2007

La campagna più costosa della storia USA

Anthony M. Quattrone

“Saranno le elezioni più costose della storia degli Stati Uniti”, ha dichiarato a gennaio Michael Toner, il presidente della Commissione Elettorale Federale.  Secondo Toner, le presidenziali del 2008 costeranno almeno un miliardo di dollari, e se un candidato “vuole essere preso sul serio, dovrà raccogliere almeno 100 milioni di dollari entro la fine del 2007.”  La campagna del 2008 costerà più del doppio di quella del 1996.

Hillary Clinton è già al lavoro per racimolare la cifra necessaria per battersi prima per la nomination del partito democratico, e poi contro il candidato repubblicano per la presidenza.  Pochi giorni fa, ha organizzato una cena milionaria presso casa sua, dove ha ospitato 70 sostenitori che hanno promesso di raccogliere fra i 250 mila e un milione di dollari a testa.  I collaboratori di Hillary hanno anche organizzato altre iniziative indirizzate ai sostenitori “medi”, vale a dire quelli che possono raccogliere almeno $25 mila dollari a testa.

Sul fronte repubblicano, Rudi Giuliani mira a raccogliere fra i 100 e i 125 milioni di dollari attraverso l’aiuto di 250 sostenitori, secondo il “New York Daily News”.  Giuliani, che riceve massicci finanziamenti dai più importanti studi legali e finanziari degli stati di New York, New Jersey, e Connecticut, ha anche iniziato ad “esplorare le miniere d’oro della California”, sviluppando contatti con sostenitori pronti a contribuire grosse cifre – sta infatti conducendo un secondo viaggio sulla costa ovest nel giro di poche settimane.

Tutti gli altri candidati, come i democratici Barack Obama e John Edwards, ed il repubblicano John McCain, in questa fase sono al lavoro per racimolare fondi.  La legge federale obbliga i candidati a dichiarare tutti i contributi privati che ricevono e che accettano.  I candidati che accettano contributi privati non possono ricevere i fondi pubblici previsti dalla legge sul finanziamento delle campagne elettorali.  Gli avvocati di Barack Obama hanno presentato una richiesta urgente, datata 1 febbraio 2007, alla Commissione Elettorale Federale per sapere se un candidato che “riceve” fondi privati, ma che decide in un secondo momento di non “accettarli”, lasciandoli in un conto speciale presso terzi prima di restituirli, se questo candidato rimane idoneo a ricevere un finanziamento pubblico per la campagna elettorale.  I collaboratori di Obama pongono questa domanda perchè il loro candidato vuole tenere aperta l’opzione del finanziamento pubblico, che negli Stati Uniti viene collegata al concetto di “clean money, clean elections” (soldi puliti, elezioni pulite), dove l’influenza delle grosse lobby dovrebbe scomparire, almeno teoricamente. Obama, assieme a McCain e altri candidati hanno posto al centro della loro campagna elettorale anche la questione etica che riguarda il rapporto fra grandi finanziatori e politici.

La campagna elettorale del 2008 costerà molto di più di quelle del passato anche perchè diversi stati stanno cercando di anticipare le date delle primarie.  Tradizionalmente, il piccolo stato del New Hampshire è dal 1952 il primo a condurre le primarie per entrambi i partiti, alla fine di gennaio o nel febbraio dell’anno delle elezioni.  Nel 2008, Iowa ha dichiarato che anticiperà le primarie al 14 gennaio 2008, causando un rush di anticipi da parte di altri stati.  Le spese per tutti i candidati saliranno vertiginosamente se diversi grossi stati decideranno di anticipare le primarie a gennaio e febbraio.  La tabella di marcia attuale vede Iowa il 14 gennaio, Nevada il 19, New Hampshire il 22 ed il Sud Carolina il 29.  Tuttavia, New Hampshire potrebbe decidere di anticipare la data delle sue primarie addirittura al dicembre 2007, perchè una sua legge statale prevede che debba essere il primo stato a condurre le primarie.  Il danno più grosso per i budget dei diversi candidati è la possibile decisione da parte di California, Michigan, Pennsylvania e Illinois di anticipare la data delle loro primarie al 5 febbraio.

I sostenitori della riforma del sistema per il finanziamento elettorale credono che sia indispensabile creare un meccanismo che permetta ai candidati di partecipare alle elezioni senza doversi “vendere” ai finanziatori.  La Corte Costituzionale americana, tuttavia, ha stroncato il tentativo di mettere un limite sull’ammontare che un candidato o un sostenitore può spendere per la campagna elettorale perchè sarebbe una limitazione del diritto d’espressione garantito dal primo emendamento della Costituzione.  Sarà necessario trovare al più presto un equilibrio fra libertà d’espressione e pari opportunità nel processo democratico, specialmente di fronte ad una campagna elettorale che costerà oltre un miliardo di dollari.

Obama con o contro Clinton? Forse il 10 febbraio si saprà

Anthony M. Quattrone

Si concluderà domani, nella capitale americana, la riunione invernale di circa 400 delegati della Democratic National Convention (DNC), l’organo direttivo del Partito Democratico americano, iniziata oggi con gli interventi dei maggiori esponenti del partito.  La riunione offre al governatore Howard Dean, presidente del partito dell’asinello, l’occasione per fare il punto sulla vittoria democratica nelle elezioni mid-term dello scorso novembre, e la possibilità agli aspiranti candidati democratici per le presidenziali del 2008 di confrontarsi pubblicamente.

Secondo i media americani, Hillary Clinton e Barack Obama, rispettivamente senatori dello Stato di New York e dell’Illinois, sono, al momento, i due candidati più accreditati per la leadership democratica, seguiti da John Edwards, già candidato alla vice presidenza nella sfortunata campagna del senatore John Kerry nel 2004. Edwards è particolarmente popolare fra gli elettori democratici degli stati del Sud e fra l’elettorato nero: l’appoggio di entrambi i gruppi è necessario sia per la nomination democratica, sia per vincere le presidenziali del 2008.

La Clinton ha annunciato che è intenzionata a ottenere la nomination democratica e si dichiara certa di vincere le elezioni presidenziali del 2008. Obama si è mostrato più prudente e ha semplicemente annunciato la formazione del comitato esploratore, che, negli USA, è il primo atto formale che un aspirante candidato presidenziale deve affrontare.  Questo comitato ha il compito di assolvere alcune pratiche burocratiche, e di valutare se sussistono le condizioni finanziarie e il sostegno politico per condurre la campagna elettorale.

I maggiori giornali americani hanno speso fiumi d’inchiostro negli ultimi giorni nel produrre raffronti fra Hillary Clinton e Barack Obama. Entrambi sono considerati parte dell’elite intellettuale liberal americana, hanno eccellenti capacità comunicative, e possono attrarre i voti sia dei moderati, sia degli elettori non legati a particolari posizioni ideologiche.

Pur ispirandosi alla politica centrista del presidente Bill Clinton, i due candidati mostrano delle differenze sostanziali. La loro storia politica ne è un esempio. La Clinton ha lavorato con il marito Bill nella trasformazione del Partito democratico negli anni Ottanta, quando alla Casa Bianca regnava il conservatore repubblicano Ronald Reagan, il quale era riuscito a conquistare i voti dei democratici del sud, conosciuti come i “Reagan democrats”. Nel ricostruire il Partito democratico attraverso una politica “top-down”, di vertice, i Clinton hanno lavorato sulla trasformazione delle idee guida del partito, rendendole più accettabili alla base conservatrice democratica, composta dal Sud “bianco” e dalle classi lavoratrici del Nord, riaffermando la centralità dei valori tradizionali nel campo sociale, e una politica liberista in quello economico. In breve, una sterzata al centro, se non addirittura verso destra, ha gettato le basi per la vittoria di Bill Clinton nelle elezioni del 1992.

Barack Obama è legato, invece, alla politica movimentista dei ghetti neri di Chicago, dove le popolazioni povere preferiscono il Partito democratico, il quale ha rappresentato storicamente gli interessi dei ceti più deboli e delle popolazioni marginalizzate. Obama è laureato in legge alla prestigiosa università di Harvard, ma ha sviluppato la sua iniziativa politica proprio a Chicago, lottando per i diritti dei più poveri. La sua politica di trasformazione del partito democratico è vista in termini di “bottom-up”, dal basso in alto.

È sulla guerra in Iraq che le posizioni dei due democratici si contrappongono nettamente. Hillary Clinton votò nell’ottobre 2002 a favore della risoluzione del Senato che dava al presidente Bush l’autorizzazione a intervenire in Iraq, mentre Obama, allora membro del Senato dello Stato dell’Illinois, si è espresse, e continua a farlo, contro l’intervento. Anche sulla continuazione della presenza americana in Iraq, e sulla politica estera in generale, gli orientamenti dei due candidati sono molto diversi: da una parte c’è Hillary, che vorrebbe convincere l’elettorato che, nel caso fosse eletta, sarebbe una “comandante-in-capo” forte e decisa; pronta a ricorrere all’uso della forza se necessario; dall’altra parte c’è Obama, che non nasconde le sue perplessità sull’uso della forza e sulla permanenza in Iraq.

Hillary Clinton e Barack Obama si differenziano anche nella concezione della campagna elettorale. La Clinton può contare su un’organizzazione a livello nazionale ben finanziata, disciplinata ed efficiente. Obama considera la sua organizzazione elettorale come un “movimento” nazionale, basato sulla passione dei sostenitori. Tuttavia, entrambi hanno già dimostrato di saper utilizzare Internet e i nuovi media in modo efficace. Obama si avvale normalmente del sistema podcast per mettere in rete i suoi discorsi e gli interventi al Senato.

Anche sulla necessità di unire un Paese che è uscito molto diviso dalle elezioni presidenziali del 2004, i candidati hanno diversità di vedute. Obama non è stato coinvolto nella lunga battaglia “partigiana” fra democratici e repubblicani degli ultimi quindici anni, e può proporsi come un candidato bipartisan; la candidatura Clinton, invece, è fortemente di parte, come confermato dalla stessa candidata, la quale afferma che è già pronta allo scontro frontale con i repubblicani. Obama, invece, sembrerebbe capace di trascendere le differenze fra destra e sinistra, quelle razziali e generazionali. Il “New York Times” ha scritto che per alcuni sostenitori Obama sembrerebbe un politico di una nuova specie “post-partisan, post-razziale, e post-baby boom”.

Nel rapporto con gli elettori neri, il pendolo sembrerebbe oscillare verso la Clinton. Obama è nero, ma forse non lo è “abbastanza” per essere considerato il candidato di fiducia dell’elettorato nero, specialmente nel Sud degli Stati Uniti. Obama è figlio di un immigrato keniota nero e di una donna bianca del Kansas. È nato nelle Hawaii ed è cresciuto in Indonesia. Ha frequentato le migliori università americane del Nord-Est. Non è un figlio della diaspora africana in America e non proviene dalla storia della schiavitù. Non ha particolari legami con il mondo della lotta per i diritti civili in America e non è mai stato povero. In breve, anche se lui si considera un “African-American”, non è certo che la popolazione nera americana si possa identificare con lui. Un sondaggio pubblicato dal “Washington Post” il 25 gennaio 2007, riporta che fra gli elettori democratici neri, tre su quattro preferiscono Hillary a Barack. Nei sondaggi sul gradimento dei diversi candidati, gli elettori democratici neri si sono espressi con un 84% a favore di Hillary Clinton, contro un debole 54% per Barack Obama. D’altro canto, la Clinton può contare sulle vaste alleanze create dal marito Bill con i maggiori leader della comunità nera in tutto il Paese, sia religiosi, che politici.

Obama ha dichiarato che entro il 10 febbraio annuncerà le conclusioni del suo comitato esploratore e deciderà se gareggiare per la nomination. Non ci sarebbe da stupirsi se Obama decidesse di rinunciare alle presidenziali del 2008, lasciando il campo libero alla Clinton. Obama ha soli 45 anni, e può sicuramente partecipare a molte altre elezioni presidenziali. Potrebbe anche aspirare a un riconoscimento significativo in un governo Clinton, se non addirittura alla vice presidenza.  Ed è proprio dalla due giorni della DNC, attualmente in corso, che potrebbero emergere indicazioni per come sviluppare alleanze capaci di unire il variegato elettorato democratico.

Hillary e Obama, una poltrona per due

Usa: La Clinton e il senatore nero dell’Illinois si contendono la nomination democratica

Anthony M. Quattrone

È ufficialmente iniziata la corsa per la candidatura democratica alle presidenziali Usa del 2008 con la creazione di diversi “exploratory committees”. Negli States, il primo atto formale che il candidato di un partito politico aspirante a partecipare alla campagna presidenziale deve affrontare è la costituzione di un comitato esploratore. Questo comitato ha il compito di assolvere alcune pratiche burocratiche, e di valutare se sussistono le condizioni finanziarie e il sostegno politico per condurre la campagna elettorale.

Due candidati democratici sono attualmente sotto i riflettori dei media americani: Hillary Rodham Clinton e Barack Hussein Obama, rispettivamente senatori dello Stato di New York e dell’Illinois. La Clinton ha annunciato che è intenzionata a ottenere la nomination democratica e si dichiara certa di vincere le elezioni presidenziali del 2008. Obama si è mostrato più prudente e ha semplicemente annunciato la formazione del comitato esploratore.

Gli osservatori d’oltreoceano concordano che Clinton e Obama sono probabilmente i due candidati più accreditati per la leadership democratica, ma non escludono la possibilità che altri, come il senatore John Edwards del Sud Carolina, possano aspirare seriamente all’investitura. Edwards, già candidato alla vice presidenza nella sfortunata campagna del senatore John Kerry nel 2004, è particolarmente popolare proprio fra gli elettori democratici degli Stati del Sud e fra l’elettorato nero: l’appoggio di entrambi i gruppi è necessario sia per la nomination democratica, sia per vincere le presidenziali del 2008.

I maggiori giornali americani hanno speso fiumi d’inchiostro negli ultimi giorni nel produrre raffronti fra Hillary Clinton e Barack Obama. Entrambi sono considerati parte dell’elite intellettuale liberal americana, hanno eccellenti capacità comunicative, e possono attrarre i voti sia dei moderati, sia degli elettori non legati a particolari posizioni ideologiche.

Pur ispirandosi alla politica centrista del presidente Bill Clinton, i due candidati mostrano delle differenze sostanziali. La loro storia politica ne è un esempio. La Clinton ha lavorato con il marito Bill nella trasformazione del Partito democratico negli anni Ottanta, quando alla Casa Bianca regnava il conservatore repubblicano Ronald Reagan, il quale era riuscito a conquistare i voti dei democratici del sud, conosciuti come i “Reagan democrats”. Nel ricostruire il Partito democratico attraverso una politica “top-down”, di vertice, i Clinton hanno lavorato sulla trasformazione delle idee guida del partito, rendendole più accettabili alla base conservatrice democratica, composta dal Sud “bianco” e dalle classi lavoratrici del Nord, riaffermando la centralità dei valori tradizionali nel campo sociale, e una politica liberista in quello economico. In breve, una sterzata al centro, se non addirittura verso destra, ha gettato le basi per la vittoria di Bill Clinton nelle elezioni del 1992.

Barack Obama è legato, invece, alla politica movimentista dei ghetti neri di Chicago, dove le popolazioni povere preferiscono il Partito democratico, il quale ha rappresentato storicamente gli interessi dei ceti più deboli e delle popolazioni marginalizzate. Obama è laureato in legge alla prestigiosa università di Harvard, ma ha sviluppato la sua iniziativa politica proprio a Chicago, lottando per i diritti dei più poveri. La sua politica di trasformazione del partito democratico è vista in termini di “bottom-up”, dal basso in alto.

È sulla guerra in Iraq che le posizioni dei due democratici si contrappongono nettamente. Hillary Clinton votò nell’ottobre 2002 a favore della risoluzione del Senato che dava al presidente Bush l’autorizzazione a intervenire in Iraq, mentre Obama, allora membro del Senato dello Stato dell’Illinois, si è espresse, e continua a farlo, contro l’intervento. Anche sulla continuazione della presenza americana in Iraq, e sulla politica estera in generale, gli orientamenti dei due candidati sono molto diversi: da una parte c’è Hillary, che vorrebbe convincere l’elettorato che, nel caso fosse eletta, sarebbe una “comandante-in-capo” forte e decisa; pronta a ricorrere all’uso della forza se necessario; dall’altra parte c’è Obama, che non nasconde le sue perplessità sull’uso della forza e sulla permanenza in Iraq.

Hillary Clinton e Barack Obama si differenziano anche nella concezione della campagna elettorale. La Clinton può contare su un’organizzazione a livello nazionale ben finanziata, disciplinata ed efficiente. Obama considera la sua organizzazione elettorale come un “movimento” nazionale, basato sulla passione dei sostenitori. Tuttavia, entrambi hanno già dimostrato di saper utilizzare Internet e i nuovi media in modo efficace. Obama si avvale normalmente del sistema podcast per mettere in rete i suoi discorsi e gli interventi al Senato.

Anche sulla necessità di unire un Paese che è uscito molto diviso dalle elezioni presidenziali del 2004, i candidati hanno diversità di vedute. Obama non è stato coinvolto nella lunga battaglia “partigiana” fra democratici e repubblicani degli ultimi quindici anni, e può proporsi come un candidato bipartisan; la candidatura Clinton, invece, è fortemente di parte, come confermato dalla stessa candidata, la quale afferma che è già pronta allo scontro frontale con i repubblicani. Obama, invece, sembrerebbe capace di trascendere le differenze fra destra e sinistra, quelle razziali e generazionali. Il “New York Times” ha scritto che per alcuni sostenitori Obama sembrerebbe un politico di una nuova specie “post-partisan, post-razziale, e post-baby boom”.

Nel rapporto con gli elettori neri, il pendolo sembrerebbe oscillare verso la Clinton. Obama è nero, ma forse non lo è “abbastanza” per essere considerato il candidato di fiducia dell’elettorato nero, specialmente nel Sud degli Stati Uniti. Obama è figlio di un immigrato keniota nero e di una donna bianca del Kansas. È nato nelle Hawaii ed è cresciuto in Indonesia. Ha frequentato le migliori università americane del Nord-Est. Non è un figlio della diaspora africana in America e non proviene dalla storia della schiavitù. Non ha particolari legami con il mondo della lotta per i diritti civili in America e non è mai stato povero. In breve, anche se lui si considera un “African-American”, non è certo che la popolazione nera americana si possa identificare con lui. Un sondaggio pubblicato dal “Washington Post” il 25 gennaio 2007, riporta che fra gli elettori democratici neri, tre su quattro preferiscono Hillary a Barack. Nei sondaggi sul gradimento dei diversi candidati, gli elettori democratici neri si sono espressi con un 84% a favore di Hillary Clinton, contro un debole 54% per Barack Obama. D’altro canto, la Clinton può contare sulle vaste alleanze create dal marito Bill con i maggiori leader della comunità nera in tutto il Paese, sia religiosi, che politici.

Obama ha dichiarato che entro il 10 febbraio annuncerà le conclusioni del suo comitato esploratore e deciderà se gareggiare per la nomination. Non ci sarebbe da sorprendersi se Obama decidesse di non candidarsi per le elezioni del 2008, lasciando il campo libero alla Clinton. Obama ha soli 45 anni, e può sicuramente partecipare a molte altre elezioni presidenziali. Potrebbe anche aspirare a un riconoscimento significativo in un governo Clinton, se non addirittura alla vice presidenza.

Pubblicato sull’Avanti! il 30 gennaio 2007.

La buona lezione di Robert McNamara

Anthony M. Quattrone

L’esecuzione di Saddam Hussein, i dubbi sulla legittimità e l’opportunità dell’intervento in Iraq, l’apparente trattamento irregolare di prigionieri da parte delle forze militari statunitensi, e la generale confusione dell’amministrazione Bush su come uscire dal pantano iracheno, rendono attuali gli insegnamenti di Robert McNamara, catturati nel documentario, premiato con l’Oscar nel 2004, The Fog of War (Quella nebbia di guerra).

Robert McNamara è stato fra i più brillanti assistenti del presidente John Fitzgerald Kennedy, per il quale lavorò come ministro della difesa dal 1961 fino all’assassinio di quest’ultimo nel 1963.  Dopo la morte di Kennedy, McNamara servì il presidente Lyndon B. Johnson, fino al 1968, quando si dimise dinnanzi al fallimento della guerra in Vietnam, di cui era stato uno dei maggiori pianificatori.  Dopo l’esperienza governativa, McNamara diventò il presidente della Banca Mondiale dal 1968 fino al 1981.

Nel documentario girato da Errol Morris, McNamara commenta e criticamente valuta alcune decisioni prese, con il suo aiuto, dal Generale Curtis LeMay nella seconda guerra mondiale, e dai presidenti Kennedy e Johnson negli anni sessanta, soffermandosi sulla moralità e l’efficienza di tali decisioni. McNamara nota con freddezza che se gli Stati Uniti avessero perso la seconda guerra mondiale, lui sarebbe stato incriminato assieme al generale LeMay per crimini di guerra contro le popolazioni giapponesi.  LeMay ordinò il bombardamento incendiario di diverse città giapponesi nel marzo del 1945.  In una sola notte, furono uccisi 100 mila civili.  Nel documentario McNamara racconta: “Perché era così necessario lanciare una bomba nucleare se LeMay stava bruciando tutto il Giappone? E da Tokyo proseguì a lanciare bombe incendiare su altre città. Il 58% di Yokohama. Yokohama è pressappoco come Cleveland. Il 58% di Cleveland distrutto. Tokyo ha più o meno le dimensioni di New York. Il 51% di New York distrutto. Il 99% di Chatanooga, che era Toyama. Il 40% di Los Angeles, che era Nagoya. Tutto questo ancor prima di lanciare la bomba nucleare, che, a proposito, è stata lanciata su ordine di LeMay.”  McNamara prosegue: “LeMay disse, ‘Se avessimo perso la guerra, saremmo stati tutti penalmente perseguibili per crimini di guerra ’. E penso che abbia ragione. Lui, e direi anch’io, ci comportavamo da criminali di guerra. LeMay si rendeva conto che ciò che stava facendo sarebbe stato considerato immorale se avesse perso. Ma che cos’è che rende una cosa immorale se perdi e non immorale se vinci?”

L’esecuzione di Saddam è avvenuta a seguito di una condanna formulata da un legittimo tribunale di uno Stato sovrano, in conformità a prove inconfutabili sui crimini commessi contro l’umanità, in occasione del massacro di 148 sciiti nel 1982.  Saddam ha commesso altri crimini contro l’umanità, come il massacro di 182 mila curdi fra il 1987 e il 1988 usando armi di distruzione di massa, e crimini di guerra contro gli iraniani durante il conflitto fra Iraq e Iran dal 1980 al 1988, con un milione di morti.  Non c’è dubbio che Saddam era meritevole di essere condannato alla massima pena vigente nel suo paese, anche se, per quest’autore, così come per milioni di occidentali, la moralità e la legittimità della pena di morte non sono mai, in nessun caso, giustificabili.

Tuttavia, la costanza della formulazione vae victis (guai ai vinti) non sembrerebbe trovare contrasto nella politica internazionale.  La giustizia dei vincitori porta alle impiccagioni dei tedeschi a Norimberga e dei giapponesi a Tokyo, alle esposizioni dei cadaveri appesi a Piazzale Loreto, e, qualche volta, di recente, anche alla condanna all’ergastolo per crimini di guerra o contro l’umanità all’Aja.

Affinché la morte di Saddam non sia percepita come una mera vendetta di parte, sarà necessario affrontare tutte le violazioni del diritto internazionale nella conduzione della guerra irachena, senza esclusioni alcune, prendendo spunto proprio dagli insegnamenti di McNamara.

Pubblicato sull’Avanti! il 3 gennaio 2007.

New York più forte di prima

Anthony M. Quattrone
Nella strategia dei terroristi, l’attacco dell’11 settembre doveva sortire un effetto devastante sugli Stati Uniti e sul mondo occidentale nel suo complesso. Doveva creare un effetto a catena mirante a destabilizzare il modo di vivere in occidente, le alleanze internazionali, l’economia, in breve, doveva fungere da principale tassello in una guerra non lineare e asimmetrica contro il mondo occidentale.  La reazione a catena non c’è stata.  Il mondo occidentale, 5 anni dopo gli attacchi, è vivo ed è forse più forte di prima nell’affrontare il buio del fondamentalismo islamico.

E’ la mia città, New York, non Washington, la capitale della riscossa occidentale all’attacco di 5 anni fa.  New York è rimasta multietnica, multinazionale, multireligiosa, e multilinguistica, come prima del settembre 2001, e forse ancora più di prima. E’ la città dove, passeggiando per pochi isolati si incontrano tutte le razze, tutte le nazionalità, tutte le lingue, e si sentono gli odori delle cucine etniche di tutto il mondo.  E’ la città dove portare un turbante, o un fez, o un semplice cappello da baseball è la normalità più assoluta.  E’ la città dove oltre il 36% degli abitanti sono nati all’estero.  Così come 26% dei 2.752 morti nell’attacco al World Trade Center erano nati all’estero, provenendo da 91 paesi.  New York era e rimane la città più cosmopolita, internazionale, tollerante ed aperta alla diversità.  Questa è la migliore risposta al terrorismo islamico.

Il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, pochi giorni dopo l’attacco, rispondendo alle domande di cosa si poteva fare per New York, rispose “venite a spendere i vostri soldi qui, venite come turisti”, e la gente è venuta, rispondendo in massa all’appello, da tutti gli Stati Uniti e da tutto il mondo.  L’attuale sindaco, Michael Bloomberg, nel comunicato stampa per le celebrazioni del quinto anniversario, riassume magistralmente che “cinque anni fa, la parte migliore dell’umanità, alimentata dalla nostra riverenza per la libertà e in difesa dell’umanità, la civiltà, e la libertà, si erse contro la parte peggiore.  Ricorderemo, ricostruiremo, e andremo avanti con la fiducia di un popolo libero”.  Questa è New York.

Pubblicato sull’Avanti! del 10 settembre 2006

Gli Stati Uniti si preparano alle elezioni di mezzo termine

Anthony M. Quattrone
Le elezioni americane di mezzo termine, che si terranno il 7 novembre di quest’anno, vengono definite così perché si svolgono a metà del mandato presidenziale, ovvero, a due anni dalla sua naturale scadenza, e coinvolgono l’intera Camera dei Rappresentanti (435 seggi), parte del Senato (34 seggi su 100), e moltissime cariche statali e locali (fra cui 36 governatori su 50).  In breve, queste elezioni potranno divenire un referendum popolare sull’operato del presidente Bush e finiranno per influenzare significativamente la campagna presidenziale del 2008.  I democratici mirano a guadagnare 15 seggi in più alla Camera e 6 al Senato per poter riconquistare la maggioranza in entrambe le camere del Congresso, e secondo gli strateghi Repubblicani e Democratici, questo risultato non è fuori dalla loro portata. La festività del Labor Day, che si celebra il primo lunedì di settembre, è la tradizionale apertura della campagna elettorale che durerà circa 10 settimane.
Quattro temi predominanti marcano la contesa fra candidati: la guerra contro il terrorismo, le tasse, i valori tradizionali, e l’andamento dell’economia.  La peculiarità dei quattro temi è la loro trasversalità, caratterizzata da una generale concordanza sui principi fondamentali nei due schieramenti politici, Repubblicano e Democratico, dove la differenza fra le posizioni si manifesta più nell’attuazione dei programmi, in termini di efficienza ed etica, che nei contenuti dei programmi stessi.  Negli ultimi anni gli strateghi conservatori, raggruppati principalmente nel partito Repubblicano, ma non completamente assenti in quello Democratico, sono riusciti a creare una serie di parametri e criteri che vengono adottati dai gruppi di pressione e dai media nel valutare le posizioni e i comportamenti dei candidati.  In generale, tutti i candidati si cimentano nel dimostrare che appoggiano la guerra al terrorismo, la difesa dei valori tradizionali americani di “dio, patria e famiglia”, la riduzione delle tasse, e l’impresa privata come colonna fondamentale dell’economia americana.  Sono pochissimi i candidati che offrono una reale alternativa politica di fondo o di contenuto.
La trasversalità di alcuni temi rende difficile una chiara demarcazione fra Democratici e Repubblicani, come anche quella fra conservatori e progressisti all’interno dei due partiti.  Nella guerra al terrorismo, l’elettorato sembra preferire i Repubblicani ai Democratici, i quali vengono puntualmente definiti “mollicci” nell’affrontare tutti i temi relativi alla difesa del paese.  Ai Democratici viene anche attribuita una loro apparente incoerenza, puntualmente sollevata dai commentatori conservatori, per l’appoggio che hanno dato all’inizio delle operazioni in Iraq al “comandante in capo”, come viene definito il presidente in tempo di guerra, quando non volevano sembrare “mollicci”, mentre ora, cavalcando il risentimento popolare per la lunghezza della guerra e per la mancata “vittoria”, fanno a gara nel dimostrarsi oppositori della strategia di Bush.  La stragrande maggioranza dei candidati democratici che si ripresentano davanti agli elettori questo novembre non solo hanno votato a favore dei poteri di guerra del presidente, ma hanno anche votato per il Patriot Act che limita in modo non del tutto trascurabile i diritti degli americani, dando al governo molti più poteri di quelli che i padri fondatori degli States avrebbero mai potuto immaginare.
Sul tema della guerra al terrorismo la battaglia elettorale fra Democratici e Repubblicani si svolge senza mai discutere la strategia generale contro il terrore o se la guerra a Saddam fosse giusta o almeno utile, bensì si discute sull’efficienza della transizione dei poteri alle autorità irachene, come uscire dal pantano iracheno, e, nel campo etico, si critica i presunti legami fra dirigenti di mega imprese committenti del Dipartimento della Difesa con alcuni membri dell’amministrazione Bush.  Discorsi alternativi sulla necessità di rimettere in piedi strategie di alleanze globali, dare impulso alle organizzazioni internazionali, con l’ONU al primo posto, e mettere al lavoro “the best and the brightest” (i migliori e i più brillanti) delle università per tentare di capire il nuovo mondo globalizzato, non fa parte del programma politico dei Democratici.  La dottrina della guerra preventiva e la definizione del mondo in termini di buoni e cattivi, portata avanti in modo relativamente semplicistico dall’amministrazione Bush, come nel definire alcuni paesi, non necessariamente assimilabili fra di loro, “asse del male”, non trova nei Democratici una visione alternativa.

Nelle elezioni presidenziali del 2004, gli strateghi repubblicani. facendo leva sulla difesa delle “traditional values”, riuscirono a conquistare il voto di alcune grosse comunità cristiane protestanti in quegli stati dove queste comunità avevano storicamente appoggiato candidati democratici.  Nel 2004, Carl Rove, l’ormai famoso stratega elettorale di Bush, ha saputo far leva, per esempio, sull’opposizione manifestata dalle comunità cristiane più conservatrici alla liberalizzazione del matrimonio fra partner dello stesso sesso, associando una vittoria Democratica a questa “aberrazione”.  Nella campagna elettorale di quest’anno, sono pochissimi i candidati che si presentano con un programma che contraddice, anche in modo marginale, le “traditional values” americane.  Quei candidati che sono apertamente a favore dei matrimoni gay, della ricerca scientifica sulle cellule staminali, dell’aborto, e di altri temi che caratterizzano l’area liberal americana rischiano sonore bocciature.
Anche sul tema della tassazione, non ci sono grosse differenze fra candidati Democratici e Repubblicani.  I Repubblicani accusano i Democratici di voler alzare le tasse, e i Democratici rispondono ribadendo di volerle abbassare per tutti e non solo per i ricchi.  Nessuno spiega come e dove trovare i soldi per finanziare la macchina statale, gli impegni militari a livello globale, la previdenza sociale, e gli investimenti infrastrutturali del paese.  Nei dibattiti politici in televisione raramente si sentono candidati che propongono di aumentare le tasse, ridurre le spese per la difesa, ridurre gli investimenti infrastrutturali, o il tagliare la previdenza sociale, ognuno di questi temi è sotto la particolare osservazione di gruppi di pressione alquanto potenti.
Infine, nel campo economico la distinzione fra Democratici e Repubblicani tende a scomparire del tutto.  I candidati dei due partiti si pronunciano contro l’inflazione, contro l’aumento del salario minimo, a favore dell’incentivazione degli investimenti attraverso la riduzione delle tasse, e per la liberalizzazione del commercio mondiale.  I candidati di entrambi schieramenti, con rarissime eccezioni, sono favorevoli alla libertà d’impresa, aderendo alla vecchia massima “what’s good for business, is good for America” (quello che è buono per le imprese, è buono per l’America), e preferiscono non confrontarsi su temi impegnativi come il ruolo dello stato nella gestione dell’economia, ma scontrarsi su questioni contingenti come i motivi dell’aumento del prezzo del prezzo del carburante.  Alcuni commentatori politici di entrambi gli schieramenti hanno ipotizzato che il risultato delle elezioni di novembre potrebbe essere significativamente influenzato proprio dal prezzo del carburante alla pompa nei giorni precedenti l’elezioni, accoppiato a qualsiasi avvenimento di rilievo riguardante la guerra al terrorismo (per esempio la cattura di Bin Landen, o altri eventi collegati al terrorismo).
Le elezioni americane di mezzo termine dovrebbero far riflettere coloro che in Italia spingono per un bipolarismo all’americana.  La mancanza di alternativa di programma negli Stati Uniti, la generale omogenizzazione degli schieramenti politici sui temi della sicurezza, i valori tradizionali, le tasse, e l’economia penalizzano il dibattito politico americano creando una “mainstream” che ingloba e reprime il nuovo a scapito della diversità che tradizionalmente caratterizza la ricchezza politica dei paesi occidentali.

Pubblicato il 7 settembre 2006 sull’Avanti!