Per il Wall Street Journal, test elettorale in Iowa non è rappresentativo della nazione.

Anthony M. Quattrone

Le primarie che si svolgeranno fra due giorni in Iowa sono il primo test elettorale ufficiale per le presidenziali USA del 2008. I risultati che saranno dichiarati alla fine degli scrutini del 3 gennaio dovranno essere analizzati con estrema attenzione sia dagli strategisti dei candidati dei due partiti, sia dagli osservatori, perchè i risultati che saranno pubblicizzati, specialmente da parte democratica, potrebbero non riflettere in alcun modo il risultato reale e finale né della consultazione, né saranno necessariamente rappresentativi dell’umore del paese.

Andiamo in ordine. Il sistema delle primarie in Iowa è chiamato caucus, cioè “riunione”. I due partiti adottano due metodi diversi nello svolgimento dei caucus. L’unico elemento in comune fra i due partiti è che gli elettori sono obbligati a presentarsi di persona ad un appuntamento, una “riunione”, al seggio elettorale di quartiere, durante la serata del 3 gennaio, dove possono esprimere il voto. Nel caso dei repubblicani, gli elettori che si presentano al caucus devono solamente scrivere, in privato, il nome del candidato prescelto su di un foglio di carta. I voti sono contati e il partito repubblicano dello stato dell’Iowa dichiara i risultati, con le relative assegnazioni dei delegati che voteranno alla convenzione nazionale il prossimo agosto.

Nel caso dei democratici, il tutto è molto più complesso. Gli elettori si presentano all’appuntamento del 3 gennaio, al caucus di quartiere, per una prima tornata in cui gli elettori si raggruppano, letteralmente, in una parte della sala in cui si svolge la consultazione, assieme agli altri sostenitori del candidato per il quale vogliono votare. Alla fine della prima operazione che dura circa 30 minuti, i candidati che non raggiungono il 15% dei voti dei presenti sono esclusi dalla seconda tornata. Durante la seconda tornata di 30 minuti, si riformano i gruppi, e alla fine del tempo prestabilito, il rappresentante del partito stila un rapporto con le percentuali di voti ottenuti da ciascun candidato nel caucus, determinando il numero di delegati per ciascun candidato da mandare alle votazioni della contea, che si terranno a marzo. I delegati delle contee voteranno in seguito per i delegati statali da mandare alla convenzione nazionale del partito democratico il prossimo agosto. In breve, il risultato del 3 gennaio per i democratici non è necessariamente il risultato finale della consultazione in Iowa.

Un editoriale di John Fund del Wall Street Journal del 31 dicembre critica aspramente la procedura dei caucus in Iowa, e in particolare, il sistema adottato dai democratici, definendolo un sistema poco democratico e poco trasparente, per diversi motivi. Il giornale lamenta che, nel caso dei democratici, il voto non è nemmeno segreto. Quando si deve essere fisicamente presenti in un lato di una sala per dichiarare di appoggiare un candidato, e gli amici e parenti sono da qualche altra parte della sala, si può essere facilmente influenzati, o messi sotto pressione, per cambiare preferenza, molto di più che nel caso delle votazioni segrete.

Il giornale lamenta anche che, nel caso dei caucus, a differenze delle primarie in altri stati, i seggi non sono aperti per l’intera giornata, ma solo per il breve periodo stabilito per la “riunione”. Mentre nelle primarie che si volgono con il voto segreto, l’elettore può presentarsi al seggio durante l’arco di un’intera giornata, e in pochi minuti può esprimere il suo voto e andare via, nel caso dei caucus, la presenza al seggio può richiedere anche due ore, come per le due tornate richieste per i democratici. Il Wall Street Journal critica la mancanza di una procedura che prevedi anche la possibilità di votare in absentia, attraverso la posta o usando altri metodi previsti per le elezioni federali, perchè con i caucus si limita il diritto di voto dei malati e di coloro che per un motivo o per un altro non possono essere presenti.

La procedura per l’identificazione di chi ha il diritto a votare nel caucus lascia molto a desiderare, perchè, secondo il Wall Street Journal, chiunque può presentarsi al seggio, senza un documento di identità, e partecipare al voto, lasciando aperta la possibilità che voteranno in Iowa anche i sostenitori, non residenti, che lavorano per le campagne elettorali dei diversi candidati in gara.

Alcuni analisti fanno osservare che i risultati dei caucus dell’Iowa sono forse più importanti da un punto di vista giornalistico, come primo evento elettorale, più che per la rappresentatività a livello nazionale dei risultati. Dal 1972, da quando si svolgono i caucus in Iowa, solo due volte i vincitori delle consultazioni in Iowa hanno determinato il vincitore delle presidenziali, come nel caso del democratico Jimmy Carter nel 1976 e del repubblicano e attuale presidente, George W. Bush nel 2000.

Nei caucus dell’Iowa tradizionalmente votano solo il 6% di tutti gli elettori. Quest’anno dovrebbero votare circa 125 mila democratici e 90 mila repubblicani. I delegati espressi dallo stato dell’Iowa rappresentano solo il 3% di quelli necessari per vincere le nomine presidenziali nei due partiti. Steven Thomma della McLatchy Newspapers scrive che l’Iowa è uno stato contadino, dove non ci sono minoranze, la popolazione è più bianca della neve, gli studenti completano le scuole superiori in gran numero, la popolazione vive a lungo, e “dove la massima attrattiva epicurea alla fiera statale è lo spiedino di maiale fritto.” Per Thomma, il “campione Iowa” non rappresenta affatto l’America.

Un altro motivo per il quale i primi risultati “ufficiali” che saranno resi noti la sera del 3 gennaio devono essere valutati con estrema prudenza è che i risultati che arriveranno in serata saranno probabilmente solo quelle provenienti dalle zone urbane, mentre per le zone extra urbane, che hanno un numero di delegati significativo, i risultati potrebbero arrivare con notevole ritardo. I seggi sono 1.781 in 99 contee. I candidati che hanno speso più energie nelle zone rurali, come l’ex senatore democratico del Nord Carolina, John Edwards, l’ex governatore repubblicano dell’Arkansas, Mike Huckabee, e l’ex senatore repubblicano del Tennessee, Fred Thompson, potrebbero ricevere consensi tali da stravolgere i primi risultati ufficiali, nonché le prime proiezioni.

Nel frattempo, la maggioranza dei sondaggi continuano a dare un sostanziale pareggio fra la senatrice di New York, Hillary Clinton, il senatore dell’Illinois, Barack Obama, e John Edwards, fra i democratici, e un pareggio fra Mike Huckabee e l’ex governatore del Massachussets, Mitt Romney fra i repubblicani. Solo un sondaggio, condotto fra il 27 e il 30 dicembre per il Des Moines Register, uno dei maggiori giornali dello stato, da un chiaro vantaggio a Obama con il 32 percento, contro il 25 per Clinton, e il 23 per Edwards, fra i democratici. Il giornale da anche un chiaro vantaggio per Huckabee con il 32 percento, contro il 26 per Romney, e il 13 per il senatore dell’Arizona, John McCain.

Pubblicato su Agenzia Radicale il 1 gennaio 2008.

L’assassinio di Benazir Bhutto: Idealisti e pragmatici a confronto in USA.

Anthony M. Quattrone

L’assassinio di Benazir Bhutto potrebbe rimettere in discussione la strategia americana nei confronti del Pakistan. L’America, che affronta da sempre il dibattito al suo interno su come bilanciare il realismo in affari esteri, strettamente basato sugli interessi nazionali americani, e l’idealismo, collegato all’avanzamento della libertà e della democrazia nel mondo, aveva deciso da qualche tempo di fare pressione sul generale Pervez Musharraf affinché quest’ultimo riportasse le libertà democratiche in Pakistan. Il governo americano, spinto sia da parte degli idealisti neoconservatori, sia dai loro cugini idealisti progressisti, ha iniziato diversi anni fa una politica di avvicinamento nei confronti di Benazir Bhutto e di altri membri dell’opposizione pachistana. Il cambio di strategia politica aveva preoccupato non poco gli analisi che aderiscono alla scuola del realismo pragmatico, legato in particolare ad Henry Kissinger, l’ex segretario di stato repubblicano dei governi di Richard Nixon e Gerald Ford. I pragmatici hanno premuto affinché gli Stati Uniti continuassero ad appoggiare il generale Musharraf, per impedire che un vuoto di potere in Pakistan creasse un rifugio per il terrorismo mondiale, e che le armi nucleari pachistane potessero finire in mano ai nemici dell’America. E’ indubbio che l’assassinio della Bhutto ora getta scompiglio fra gli strategisti della politica estera americana, ridando ai realisti pragmatici il vantaggio, preoccupati che il Pakistan possa cadere nell’anarchia.

Secondo il Boston Globe del 28 dicembre, “gli analisti americani speravano che una coalizione che includesse Musharraf ed i partiti dell’opposizione, ed in particolare Benazir Bhutto, potesse garantire al Pakistan una via nuova e moderata, unendo i militari e l’opposizione laica contro l’estremismo islamico, che minaccia gli Stati Uniti e gli interessi occidentali, e che tenta di trascinare il paese nel caos.” L’uccisione della Bhutto mette in dubbio l’attuazione di questo proposito che poteva soddisfare le intenzioni sia dei realisti, sei degli idealisti nel Dipartimento di Stato americano.

La dichiarazione ufficiale del Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, rilasciato il 27 dicembre, si chiude con un appello “idealista” al popolo pachistano, “Ci appelliamo al popolo pachistano, ai leader politici, alla società civile di rimanere calma e lavorare insieme per costruire un futuro più moderato, pacifico, e democratico”. Gli Stati Uniti hanno fornito al Pakistan circa dieci miliardi di dollari in aiuti per combattere il terrorismo dal 2001 ad oggi. Recentemente, il governo americano ha impegnato altri 300 milioni di dollari per assistere il governo di Musharraf per il 2008. Tuttavia, alcune recenti iniziative di Musharraf, fra cui una tregua che ha negoziato con alcune tribù del nordovest, presumibilmente legate ad attività terroristiche antiamericane, la repressione dell’opposizione e del sistema giudiziario, e la recente attuazione dello stato d’emergenza in autunno, hanno creato grosse preoccupazioni nel Congresso americano, inducendo molti legislatori a richiedere porre condizioni su tutti i finanziamenti al governo pachistano.

L’assassinio della Bhutto ha fornito agli elettori americani la possibilità di valutare le opinioni e la preparazione in politica estera dei candidati per le primarie presidenziali americane. Secondo il Washington Post del 29 dicembre, l’ex senatore democratico del Nord Carolina, John Edwards, è risultato il migliore fra i candidati, mentre l’ex governatore repubblicano dell’Arkansas, Mike Huckabee è stato il peggiore. Edwards è riuscito a parlare con Musharraf il 27 dicembre, e lo ha incoraggiato a “continuare sulla strada della democratizzazione, e a permettere ad investigatori internazionali di venire a determinare cosa sia successo, e quali sono i fatti”. Secondo il Washington Post, Edwards ha dato al dittatore pachistano un messaggio chiaro e forte, un tipo di messaggio che dovrebbe ricevere da tutti gli americani.

La senatrice democratica di New York, Hillary Clinton, e il senatore repubblicano dell’Arizona, John McCain, hanno entrambi offerto delle persuasive e convincenti analisi sulla situazione pachistana, esprimendo l’ appoggiato per la democratizzazione del paese. La Clinton, tuttavia, ha citato “il fallimento del regime di Musharraf nel combattere il terrorismo e nel costruire la democrazia” aggiungendo che “è venuta l’ora che gli Stati Uniti si mettano dalla parte della società civile in Pakistan”. McCain ha invece dichiarato che Musharraf può ancora fare molto nella lotta al terrorismo, e va sostenuto, anche se ha fatto alcune cose su cui il senatore dell’Arizona non concorda, come la tregua con le tribù del nordovest e la dichiarazione dello stato d’emergenza.

Secondo il Washington Post, l’ex sindaco repubblicano di New York, Rudi Giuliani, e l’ex governatore repubblicano del Massachusetts, Mitt Romney, si sono limitati a rigurgitare i soliti slogan sul terrorismo ed il “jihadismo”, evitando di fare delle serie considerazioni sulla situazione pachistana.

Il senatore democratico dell’Illinois, Barack Obama, ha fatto, secondo il Post, un grave errore tentando di collegare l’assassinio della Bhutto al voto che la senatrice Clinton ha dato nell’ottobre del 2002 a favore dell’intervento militare americano in Iraq. Il portavoce di Obama, David Axelrod, ha dichiarato che la Clinton “era una forte sostenitrice della guerra in Iraq, si può ipotizzare che questo è uno dei motivi per cui siamo stati dirottati dall’Afghanistan, dal Pakistan, e dalla lotta ad al-Qaeda, la quale potrebbe essere stata coinvolta negli eventi di oggi”. Obama ha confermato le dichiarazioni del suo portavoce.

Secondo il Washington Post, il peggiore degli aspiranti presidenti americani è stato Mike Huckabee, il quale ha dimostrato di non essere a conoscenza che la legge marziale in Pakistan era stata già tolta da ben due settimane, e ha tentato cinicamente di collegare l’assassinio della Bhutto al tema dell’immigrazione clandestina in America. Huckabee ha dichiarato che gli Stati Uniti dovevano reagire all’assassinio della Bhutto “controllando le frontiere, per assicurarci che non ci sia un’attività inusuale da parte di Pachistani che tentato di entrare nel nostro paese”. Il Washington Post e altri giornali americani hanno stigmatizzato il maldestro tentativo di Huckabbe di collegare gli eventi in Pakistan con la questione dell’immigrazione clandestina in America, bollandolo come un modo cinico di fare politica, basato su informazioni insensate.

Pubblicato su Agenzia Radicale il 30 dicembre 2007.

L’attenzione degli elettori si sposta verso gli affari interni.

Anthony M. Quattrone

Un sondaggio condotto per l’AP/Yahoo! News, pubblicato il 28 dicembre, indica che nell’ultimo mese l’attenzione maggiore degli elettori americani si è spostato dalla guerra in Iraq e la situazione internazionale ai temi connessi all’economia americana.  Oltre la metà degli elettori intervistati nel corso del sondaggio hanno affermato che in questo momento l’andamento dell’economia e l’assetto del sistema sanitario nazionale sono i temi più importanti per loro.  Molti elettori sono preoccupati per il costo della benzina, che la loro casa di proprietà può perdere valore, di non riuscire a pagare debiti contratti attraverso i mutui o le carte di credito, e per la possibilità di dover affrontare spese mediche eccessive.

Sessanta percento degli intervistati sono convinti che gli USA stanno andando incontro ad una recessione nel prossimo anno.  Il 55 percento è preoccupato per il valore dei loro investimenti in borsa, incluso quello dei fondi pensione, temendo un calo nell’immediato futuro.  Il 44 percento è preoccupato per la possibilità che nei prossimi sei mesi il valore delle loro proprietà scenderà drasticamente.  Il 48 percento degli intervistati considera il problema del Social Security, il sistema di sicurezza sociale americano, molto importante.  Secondo il sondaggio, gli elettori considerano più affidabili i democratici sui temi di economia interna, dando una preferenza del 34 percento a questi ultimi contro il 22 per i repubblicani.

Secondo il sondaggio, due terzi degli intervistati vorrebbero che gli Stati Uniti adottassero un sistema sanitario nazionale sotto il controllo del governo, finanziato attraverso l’erario, e che prevedesse la copertura per tutti i cittadini.  Il 64 percento degli intervistati è preoccupato di dover affrontare una grossa spesa medica nell’immediato futuro.  Il tema della copertura sanitaria è particolarmente dibattuto in casa democratica, mentre è praticamente assente fra i repubblicani.  Secondo il sondaggio, il 41 percento degli elettori ha fiducia nei democratici a riguardo di questo tema, contro il 17 che preferiscono i repubblicani.  Fra i democratici, la senatrice di New York, Hillary Clinton, il senatore dell’Illinois, Barack Obama, e l’ex senatore del Nord Carolina, John Edwards, hanno messo al centro dei loro programmi elettorali la creazione di un sistema nazionale per allargare la copertura sanitaria in America, dibattendo a lungo su come finanziare il programma, quali servizi dovrebbe fornire, e chi dovrebbe usufruire del sistema. Leggi tutto l’articolo

USA 2008, si gioca il “Superbowl” presidenziale

A meno di un anno dalle primarie gli States sognano la sfida stellare tra Hillary Clinton e Rudi Giuliani

Anthony M. Quattrone

Le elezioni presidenziali americane non sono solo la procedura istituzionale per decidere chi dovrà governare il paese per quattro anni, ma forse sono anche l’evento di più grossa rilevanza mediatica, che, negli USA, forse supera anche il Superbowl, la finale di football americano.  Il Superbowl è così importante e seguito, che anche il presidente degli Stati Uniti non esita a spostare di qualche giorno il discorso sullo Stato dell’Unione, che si tiene proprio a fine gennaio come il Superbowl, per evitare sovrapposizioni di palinsesto televisivo, che lo vedrebbe sicuramente perdente, in termini di audience, rispetto alla partita dell’anno.

Le elezioni Presidenziali del 2008 si stanno già presentando come il “Superbowl” delle elezioni americane di tutti i tempi.  Secondo il presidente della Commissione Elettorale Federale, Michael Toner, queste elezioni saranno le più costose in assoluto della storia americana.  Toner stima che costeranno almeno un miliardo di dollari e se un candidato per le primarie vuole essere seriamente preso in considerazione, dovrà raccogliere almeno 100 milioni di dollari entro la fine del 2007, per condurre la battaglia per la nomination del suo partito.  Secondo Toner, i costi per le presidenziali americane sono più che raddoppiati nell’arco di otto anni.

Manca poco meno di un anno dall’inizio delle primarie per scegliere i candidati per i due partiti.  Volendo continuare una comparazione fra elezioni e Superbowl, l’immaginazione porta subito ad una sfida fra due stelle nel firmamento politico americano – Hillary Clinton, per i democratici e Rudi Giuliani, per i repubblicani – una sfida che non si è potuta consumare nel 2000 per il seggio di senatore dello Stato di New York, a causa di una grave malattia che aveva colpito Giuliani, costringendolo al ritiro durante le primarie.  Hillary stravinse per 12 punti contro un candidato dell’ultima ora, Rick Lazio, per i repubblicani.

Hillary Clinton, ex first lady dal 1992 al 2000, e moglie del popolarissimo presidente Bill Clinton, è dal 2000 senatore per lo stato di New York; Rudi Giuliani, due volte sindaco di New York, dal 1993 al 2001, e l’indiscusso leader morale della nazione dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.  Hillary contro Rudi, fantapolitica?  Forse non tanto.  Secondo i maggiori sondaggi dell’ultima settimana, Hillary Clinton batterebbe tutti i candidati democratici per la nomination, staccando addirittura il secondo, il senatore Barack Obama, di ben 20 punti.  In campo repubblicano, la corsa è più vicina, con la maggioranza dei sondaggi che danno Giuliani favorito sul senatore John McCain per 6 o 7 punti, staccando tutti gli altri candidati per margini molto alti.  Nei sondaggi che raffrontano potenziali candidati democratici contro i repubblicani, Clinton contro Giuliani sortisce un sostanziale pareggio.  In breve, non sembrerebbe fantapolitica ipotizzare un “Superbowl” fra questi due giganti.

Il percorso per arrivare alle presidenziali è ancora molto lungo.  Clinton e Giuliani hanno annunciato le loro candidature da poco e sono nella delicatissima fase per la raccolta di fondi.  Qualche giorno fa, Hillary Clinton ha ospitato a cena a casa sua 70 sostenitori che hanno promesso di raccogliere fra i 250 mila e un milione di dollari a testa per sostenere la sua campagna elettorale.  La Clinton sta ora organizzando anche la raccolta di fondi fra sostenitori “medi” che promettono di raccogliere almeno $25.000 a testa.  Nel frattempo, secondo il “New York daily news”, Rudi Giuliani sembrerebbe intenzionato a raccogliere fra i 100 e i 125 milioni di dollari attraverso l’aiuto di 250 sostenitori.  Giuliani, che ha potuto contare finora sul forte appoggio dei più importanti studi legali e finanziari degli stati di New York, New Jersey, e Connecticut, per la maggior parte dei contributi economici, ha anche iniziato ad “esplorare le miniere d’oro della California”, attraverso un lavoro capillare di contatti con sostenitori pronti a contribuire grosse cifre.  Giuliani è, infatti, in California in questi giorni, conducendo un secondo viaggio nel giro di poche settimane.

L’elezione della Clinton o di Giuliani sarebbe un evento storico per l’America perchè entrambi rappresentano una “prima volta”: la Clinton sarebbe la prima donna presidente e Giuliani il primo italo-americano.  Nel 2004, ben 54% dell’elettorato era composto da donne, ed attualmente il 51% delle donne americane sono single.  Nel censimento del 2000, gli italian-americans erano 15,6 milioni, pari al 5,6% della popolazione.  Clinton e Giuliani dovranno sviluppare strategie adeguate per catturare il voto di questi due gruppi, o almeno neutralizzare il potenziale vantaggio che l’altro avrebbe dall’appartenere a uno di questi due gruppi.

Una vittoria della Clinton potrebbe dare un impulso definitivo alla lotta per le pari opportunità e l’uguaglianza fra uomo e donna.  I sondaggi indicano che l’80% degli americani non è contrario ad una donna nel ruolo di presidente e “comandante-in-capo” delle forze armate.  La vittoria di Giuliani, invece, vedrebbe la rivalsa della comunità degli italiani d’America contro decenni di discriminazioni e di insinuazioni, dove, secondo un sondaggio, il 74% degli americani pensano che la maggior parte degli italo-americani sono associati in qualche modo alla mafia.

Nelle primarie che inizieranno in Iowa agli inizi del prossimo anno, Clinton e Giuliani, se vorranno vincere, dovranno arrivare già con delle alleanze ben consolidate all’interno dei rispettivi partiti democratico e repubblicano.  Entrambi candidati sono dei centristi in campo sociale e conservatori in quello economico.  Non hanno posizioni molto diverse in politica estera, e, in genere non sembrerebbero molto distanti sui temi etici.  La Clinton deve tentare di non perdere la sinistra del proprio partito, così come Giuliani deve tentare di non perdere la destra religiosa.  Hillary sembra spostarsi troppo su posizioni care alla destra religiosa, alienando il movimento per i diritti civili.  Rudi ha dato dimostrazione di essere tollerante della diversità e aperto al cambiamento sociale, sulla questione gay e sulla ricerca scientifica, alienando così la destra religiosa.

Se vinceranno le nomination per i rispettivi partiti, il Superbowl della politica americana si giocherà probabilmente non sulla politica, ma su chi è considerato più capace di implementarla, su chi è più affidabile.  Mancano 11 mesi all’inizio delle primarie.  Tanto potrà cambiare nei sondaggi, e l’incognita della guerra in Iraq avrà sicuramente il suo peso sulle preferenze dell’elettorato, così come hanno dimostrato le elezioni del mid-term dello scorso novembre.  Ma il Superbowl arriverà, e la scommessa su Hillary Clinton contro Rudi Giuliani è d’obbligo.

Pubblicato sull’Avanti! dell’11 febbraio 2007

Obama con o contro Clinton? Forse il 10 febbraio si saprà

Anthony M. Quattrone

Si concluderà domani, nella capitale americana, la riunione invernale di circa 400 delegati della Democratic National Convention (DNC), l’organo direttivo del Partito Democratico americano, iniziata oggi con gli interventi dei maggiori esponenti del partito.  La riunione offre al governatore Howard Dean, presidente del partito dell’asinello, l’occasione per fare il punto sulla vittoria democratica nelle elezioni mid-term dello scorso novembre, e la possibilità agli aspiranti candidati democratici per le presidenziali del 2008 di confrontarsi pubblicamente.

Secondo i media americani, Hillary Clinton e Barack Obama, rispettivamente senatori dello Stato di New York e dell’Illinois, sono, al momento, i due candidati più accreditati per la leadership democratica, seguiti da John Edwards, già candidato alla vice presidenza nella sfortunata campagna del senatore John Kerry nel 2004. Edwards è particolarmente popolare fra gli elettori democratici degli stati del Sud e fra l’elettorato nero: l’appoggio di entrambi i gruppi è necessario sia per la nomination democratica, sia per vincere le presidenziali del 2008.

La Clinton ha annunciato che è intenzionata a ottenere la nomination democratica e si dichiara certa di vincere le elezioni presidenziali del 2008. Obama si è mostrato più prudente e ha semplicemente annunciato la formazione del comitato esploratore, che, negli USA, è il primo atto formale che un aspirante candidato presidenziale deve affrontare.  Questo comitato ha il compito di assolvere alcune pratiche burocratiche, e di valutare se sussistono le condizioni finanziarie e il sostegno politico per condurre la campagna elettorale.

I maggiori giornali americani hanno speso fiumi d’inchiostro negli ultimi giorni nel produrre raffronti fra Hillary Clinton e Barack Obama. Entrambi sono considerati parte dell’elite intellettuale liberal americana, hanno eccellenti capacità comunicative, e possono attrarre i voti sia dei moderati, sia degli elettori non legati a particolari posizioni ideologiche.

Pur ispirandosi alla politica centrista del presidente Bill Clinton, i due candidati mostrano delle differenze sostanziali. La loro storia politica ne è un esempio. La Clinton ha lavorato con il marito Bill nella trasformazione del Partito democratico negli anni Ottanta, quando alla Casa Bianca regnava il conservatore repubblicano Ronald Reagan, il quale era riuscito a conquistare i voti dei democratici del sud, conosciuti come i “Reagan democrats”. Nel ricostruire il Partito democratico attraverso una politica “top-down”, di vertice, i Clinton hanno lavorato sulla trasformazione delle idee guida del partito, rendendole più accettabili alla base conservatrice democratica, composta dal Sud “bianco” e dalle classi lavoratrici del Nord, riaffermando la centralità dei valori tradizionali nel campo sociale, e una politica liberista in quello economico. In breve, una sterzata al centro, se non addirittura verso destra, ha gettato le basi per la vittoria di Bill Clinton nelle elezioni del 1992.

Barack Obama è legato, invece, alla politica movimentista dei ghetti neri di Chicago, dove le popolazioni povere preferiscono il Partito democratico, il quale ha rappresentato storicamente gli interessi dei ceti più deboli e delle popolazioni marginalizzate. Obama è laureato in legge alla prestigiosa università di Harvard, ma ha sviluppato la sua iniziativa politica proprio a Chicago, lottando per i diritti dei più poveri. La sua politica di trasformazione del partito democratico è vista in termini di “bottom-up”, dal basso in alto.

È sulla guerra in Iraq che le posizioni dei due democratici si contrappongono nettamente. Hillary Clinton votò nell’ottobre 2002 a favore della risoluzione del Senato che dava al presidente Bush l’autorizzazione a intervenire in Iraq, mentre Obama, allora membro del Senato dello Stato dell’Illinois, si è espresse, e continua a farlo, contro l’intervento. Anche sulla continuazione della presenza americana in Iraq, e sulla politica estera in generale, gli orientamenti dei due candidati sono molto diversi: da una parte c’è Hillary, che vorrebbe convincere l’elettorato che, nel caso fosse eletta, sarebbe una “comandante-in-capo” forte e decisa; pronta a ricorrere all’uso della forza se necessario; dall’altra parte c’è Obama, che non nasconde le sue perplessità sull’uso della forza e sulla permanenza in Iraq.

Hillary Clinton e Barack Obama si differenziano anche nella concezione della campagna elettorale. La Clinton può contare su un’organizzazione a livello nazionale ben finanziata, disciplinata ed efficiente. Obama considera la sua organizzazione elettorale come un “movimento” nazionale, basato sulla passione dei sostenitori. Tuttavia, entrambi hanno già dimostrato di saper utilizzare Internet e i nuovi media in modo efficace. Obama si avvale normalmente del sistema podcast per mettere in rete i suoi discorsi e gli interventi al Senato.

Anche sulla necessità di unire un Paese che è uscito molto diviso dalle elezioni presidenziali del 2004, i candidati hanno diversità di vedute. Obama non è stato coinvolto nella lunga battaglia “partigiana” fra democratici e repubblicani degli ultimi quindici anni, e può proporsi come un candidato bipartisan; la candidatura Clinton, invece, è fortemente di parte, come confermato dalla stessa candidata, la quale afferma che è già pronta allo scontro frontale con i repubblicani. Obama, invece, sembrerebbe capace di trascendere le differenze fra destra e sinistra, quelle razziali e generazionali. Il “New York Times” ha scritto che per alcuni sostenitori Obama sembrerebbe un politico di una nuova specie “post-partisan, post-razziale, e post-baby boom”.

Nel rapporto con gli elettori neri, il pendolo sembrerebbe oscillare verso la Clinton. Obama è nero, ma forse non lo è “abbastanza” per essere considerato il candidato di fiducia dell’elettorato nero, specialmente nel Sud degli Stati Uniti. Obama è figlio di un immigrato keniota nero e di una donna bianca del Kansas. È nato nelle Hawaii ed è cresciuto in Indonesia. Ha frequentato le migliori università americane del Nord-Est. Non è un figlio della diaspora africana in America e non proviene dalla storia della schiavitù. Non ha particolari legami con il mondo della lotta per i diritti civili in America e non è mai stato povero. In breve, anche se lui si considera un “African-American”, non è certo che la popolazione nera americana si possa identificare con lui. Un sondaggio pubblicato dal “Washington Post” il 25 gennaio 2007, riporta che fra gli elettori democratici neri, tre su quattro preferiscono Hillary a Barack. Nei sondaggi sul gradimento dei diversi candidati, gli elettori democratici neri si sono espressi con un 84% a favore di Hillary Clinton, contro un debole 54% per Barack Obama. D’altro canto, la Clinton può contare sulle vaste alleanze create dal marito Bill con i maggiori leader della comunità nera in tutto il Paese, sia religiosi, che politici.

Obama ha dichiarato che entro il 10 febbraio annuncerà le conclusioni del suo comitato esploratore e deciderà se gareggiare per la nomination. Non ci sarebbe da stupirsi se Obama decidesse di rinunciare alle presidenziali del 2008, lasciando il campo libero alla Clinton. Obama ha soli 45 anni, e può sicuramente partecipare a molte altre elezioni presidenziali. Potrebbe anche aspirare a un riconoscimento significativo in un governo Clinton, se non addirittura alla vice presidenza.  Ed è proprio dalla due giorni della DNC, attualmente in corso, che potrebbero emergere indicazioni per come sviluppare alleanze capaci di unire il variegato elettorato democratico.