La deriva antidemocratica del Partito Repubblicano americano

Oggi il Partito repubblicano americano ha fatto un nuovo decisivo passo verso il baratro del trumpismo. I repubblicani hanno ufficialmente censurato i deputati Liz Cheney e Adam Kinzinger per la loro partecipazione nella commissione di inchiesta della Camera che sta indagando sugli eventi legati all’assalto al Congresso, avvenuto il 6 gennaio 2021. Secondo i repubblicani, la commissione sta portando avanti una caccia alle strega contro “cittadini comuni impegnati in un legittimo dialogo politico”. Insomma, per il nuovo partito repubblicano, l’assalto armato contro la massima istituzione rappresentativa del popolo americano, il Congresso, rientrerebbe nella sfera di un legittimo dialogo politico.

Per alcuni Repubblicani di quello che fu il partito di Ronald Reagan, la deriva estremista dei sostenitori di Trump è totalmente inaccettabile. Il senatore Mitt Romney, candidato repubblicano alle presidenziali vinte da Barack Obama nel 2012, ha commentato duramente la censura comminata a Cheney e Kinzinger. Per Romney, “è una vergogna quando un partito decide di censurare persone coscienziose che cercano la verità subendo attacchi al vetriolo. Onore a Liz Cheney e Adma Kinzinger per la loro ricerca della verità a costo di grandi danni personali.”

La censura repubblicana segue l’attacco che Donald Trump ha sferrato contro il suo vice, Mike Pence, in una intervista televisiva dell’1 febbrario 2022. In quell’occasione, Trump ha accusato Pence di essersi rifiutato di sovvertire il risultato elettorale e, pertanto, secondo Trump, la commissione parlamentare sui fatti del 6 gennaio dovrebbe indagare Pence e non lui!!! La commissione, secondo Trump, dovrebbe chiedere a Pence “perché non abbia rispedito agli Stati i voti dei grandi elettori, chiedendo agli Stati di revisionare la loro certificazione”.

Mentre i repubblicani erano intenti a censurare Cheney e Kinziner, l’ex vicepresidente Mike Pence ha risposto per le rime alle accuse di Trump. Durante un discorso tenuto oggi presso la think tank conservatrice “The Federalist Society”, Pence ha dichiarato che “Trump si sbaglia – il vicepresidente non ha l’autorità di sovvertire le decisioni del popolo americano”. Per Pence, “la verità è che c’è molto più in gioco che il nostro partito o le nostre fortune politiche. Se perdiamo la nostra fiducia nella Costituzione, non perderemo solo le elezioni, ma perderemo il nostro Paese”. Per Pence, la proposta di Trump di sovvertire il risultato elettorale è “un-American”, cioè, è contrario allo spirito americano.

La battaglia per l’anima del Partito repubblicano americano è in pieno corso. Al momento, i sondaggi danno ai repubblicani un netto vantaggio per le elezioni del “mid-term” del prossimo novembre, quando si rinnoverà l’intera Camera e un terzo del Senato. Quale corrente del Partito prenderà il sopravvento? I repubblicani tradizionali alla Romney, Cheney e Kinzinger, o i fanatici trumpiani?.

Conflitto per l’anima del Partito Repubblicano Usa

E’ in corso una storica battaglia per il controllo del Partito Repubblicano fra la componente conservatrice istituzionale, capeggiata dal senatore Mitt Romney e la deputata Liz Cheney, e quella capeggiata dall’ex presidente Donald Trump che è influenzata dalla deriva conservatrice-populista che aderisce alle teorie del complotto.

Le due componenti hanno visioni simili sui temi economici e sociali, ma partono da posizioni diametralmente opposte riguardo all’interpretazione della realtà, al rispetto delle regole democratiche e degli avversari, ed infine alla validità dello stesso stato di diritto.

In campo economico, le componenti del partito repubblicano che abbiamo descritto sono contrarie al prelievo fiscale federale, fatta eccezione per le quello destinato alle spese militari; mentre tollerano il prelievo fiscale se destinato a finanziare attività locali, cioè allo stato di appartenenza.

I repubblicani sono di solito allineati sulle posizioni economiche espresse agli inizi degli anni 80 da Ronald Reagan negli USA e da Margaret Thatcher nel Regno Unito, fautori del neoliberismo e dell’abolizione delle numerose norme che a loro dire imbrigliavano il mondo economico-produttivo. I repubblicani sono, generalmente, fautori della limitazione del potere del governo centrale soprattutto in ambito economico, infatti, ogni qualvolta sia previsto dalla costituzione, ricorrono al trasferimento di funzioni e responsabilità ai 50 Stati che formano l’Unione, e lottano per impedire al Governo Federale di accentrarle.

Sulle questioni sociali e sui temi dei diritti civili, quali l’aborto, la costituzione di coppie non tradizionali, l’omosessualità, l’uso delle droghe leggere e così via, il partito repubblicano fatica, al suo interno, a trovare una posizione condivisa fra quella oltranzista della destra religiosa, tradizionalmente sostenuta dagli stati del Sud e del Centro degli Stati Uniti, e quella della componente socialmente più aperta  che è propria dei repubblicani delle grandi città, specialmente quelle che si trovano sulle due coste americane.

Il partito è anche influenzato da una contraddizione che nasce dall’antipatia della destra religiosa nei confronti dei possidenti miliardari, considerati cattivi esempi da un punto di vista morale, ma comunque agevolati dalle iniziative repubblicane che facilitano i loro affari.

All’interno della già complessa galassia delle componenti che formano il partito repubblicano sulla base degli interessi che le accomunano, ne è comparsa, da qualche anno, una trasversale che le abbraccia tutte grazie alle teorie dei complotti, sposate in primo luogo dai più convinti sostenitori di Donald Trump.

Questa componente è alimentata da una ulteriore varietà di sottogruppi, quello che crede che sia in atto un complotto da parte di ricchi ebrei che utilizzano laser diretti dallo spazio per causare incendi in California, quello che sostiene che Hillary Clinton, Joe Biden e tutta la direzione democratica facciano parte di una cerchia mondiale di pedofili responsabili per la morte di tanti bambini, con l’intento di bere il loro sangue, e molti altri ancora.

Inoltre, il partito repubblicano è sostenuto dai seguaci di QAnon che sostengono l’idea che ci sia uno “stato ombra”, il cosiddetto “Deep State”, che controlla il governo federale americano dal suo interno; sempre secondo QAnon, Donald Trump è’ l’unico che si batte per liberare l’umanità dalla schiavitù imposta da funzionari civili e militari infedeli e corrotti. Anche i no vax hanno partecipato a questa kermesse dando un grande sostegno a Trump nel diffondere teorie rispetto alla “bufala” del COVID-19. Capita anche che gruppi complottisti, senza una particolare finalità e non collegati agli altri,  abbiano come unico legame la fedeltà nei confronti di Donald Trump e un fanatismo religioso estremista liberamente tratto dagli insegnamenti cristiani elaborati, per i loro scopi, dalla interpretazione suprematista bianca.

Con questi presupposti, si è arrivati alle due difficili decisioni prese dal partito repubblicano il 5 febbraio 2021. In primo luogo ha bloccato la componente complottista ed estremista dal rimuovere Liz Cheney dal suo ruolo di leader dei repubblicani alla Camera; la sua colpa era di aver votato a favore dell’impeachment di Donald Trump per aver incitato l’assalto al Congresso il 6 gennaio 2021. Poi, ha rigettato la condanna richiesta dai democratici nei confronti di Marjorie Taylor Greene, una neo deputata complottista della Georgia, che ha più volte avallato dichiarazioni inneggianti all’esecuzione fisica di Nancy Pelosi e altri leader democratici, negando l’attentato contro il Pentagono l’11 settembre 2001, e denunciando come false le stragi di studenti avvenuti negli ultimi anni, organizzate ad arte secondo la deputata, per limitare il diritto degli americani a possedere armi. Nessun repubblicano ha votato a favore della rimozione della deputata dalle commissioni a cui era stata designata dal partito. Insomma, la direzione repubblicana ha dovuto mediare per trovare un compromesso e tenere unita la sua rappresentanza al Congresso.

Rimane ancora un’incognita il ruolo che Donald Trump svolgerà nel partito repubblicano da oggi fino, in particolare, al novembre 2022 quando si svolgeranno le elezioni parlamentari “mid-term” quando sarà rinnovata l’intera Camera e un terzo del Senato.

Molti politici democratici auspicano un ritorno del partito repubblicano a posizioni conservatrici “normali” o “tradizionali” affinché si garantisca negli USA uno sano dibattito fra il centrosinistra e il centrodestra, negli interessi della Nazione. Ma, se la componente estremista e complottista guidata da Donald Trump continuerà nella sua costante ascesa all’interno del Partito Repubblicano, non rimarrà più nulla di quello che fu il partito di Abraham Lincoln e di Ronald Reagan. E sarà una sconfitta per la democrazia.

Pubblicato da “Il Denaro” online l’8 febbraio 2021

Obama vince in linea con le previsioni dei sondaggi

Il Senato a maggioranza democratica, la Camera ai repubblicani

Supporters cheer at the end of President Barack Obama remarks during an election night party, early Wednesday, November 7, 2012, in Chicago. Obama defeated Republican challenger former Massachusetts Gov. Mitt Romney. (Matt Rourke/AP Photo)

Anthony M. Quattrone

I dati oggettivi che emergono dalle elezioni americane del 6 novembre 2012 sono la riconferma di Barack Obama come presidente degli Stati Uniti, il controllo del Senato da parte dei democratici, quello della Camera da parte dei repubblicani, la vittoria dei democratici per 6 incarichi di governatore e dei repubblicani per 4.

Barack Obama ha ottenuto 51,25% del voto popolare e 332 voti del collegio elettorale, vincendo in 26 stati e nel Distretto di Columbia, mentre il candidato repubblicano, Mitt Romney, ha ricevuto il 48,75 del voto popolare e 206 voti elettorali, vincendo in 24 stati.  La vittoria di Obama è netta sia per quanto riguarda il voto popolare, con quasi tre milioni di preferenze in più, sia nel collegio elettorale con uno scarto di 126 punti.

Sembrerebbe che i giovani, le donne, le minoranze e gli operai delle zone industriali del Paese formino la base della nuova “coalizione vincente” che ha permesso a Obama di vincere negli stati “ballerini” come Ohio e Virginia.  L’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, non è riuscito ad allargare la base elettorale tradizionale dei repubblicani, formata dalle popolazioni bianche del sud, dalla destra religiosa, e dai conservatori moderati – una base che oggi è sempre più minoritaria rispetto ai nuovi gruppi che emergono da un’America in piena transizione demografica.  Paul Krugman, premio Nobel per l’economia e giornalista del NY Times, ha scritto sul giornale newyorchese all’indomani delle elezioni che “Per molto tempo, quelli di destra – e alcuni opinionisti- hanno sostenuto l’idea che la ‘vera America’, cioè tutto quello che contava davvero, fosse quella delle popolazioni bianche non urbane, cui entrambe partiti avevano l’obbligo di sottomettersi. Nel frattempo, la vera America stava diventando diversa da un punto di vista etnica e razziale, e anche maggiormente tollerante. La coalizione di Obama del 2008 non è stato un caso, era il paese che stiamo diventando.”

Al Senato erano in palio 33 dei 100 seggi che formano l’assemblea.  In questa tornata, i democratici hanno raggiunto quota 53, mentre i repubblicani sono scesi a 45.  Sono stati eletti due senatori indipendenti che molto probabilmente entreranno nel “caucus” democratico al Senato.  Alla Camera, dove erano in palio tutti i 435 seggi che formano l’assemblea, i repubblicani hanno ottenuto di nuovo la maggioranza, superando ampiamente la soglia di 218 deputati.  Per il momento, i repubblicani avrebbero 234 deputati, contro i 195 per i democratici, con sei seggi ancora da attribuire.  E’ interessante notare, tuttavia, che mentre i democratici hanno ottenuto un voto popolare più alto dei repubblicani, questi ultimi hanno guadagnato più seggi.  Il sistema elettorale americano non si basa sulla proporzione del voto popolare per la determinazione dei seggi da assegnare alla Camera, bensì sulla competizione diretta fra i diversi candidati in ciascuno dei 435 distretti elettorali.  Pertanto, la Camera USA vedrà una maggioranza di deputati repubblicani a fronte di una maggioranza di voto popolare ottenuto dai democratici.

Nelle undici competizioni elettorali per la carica di governatore, i democratici hanno vinto di nuovo in Delaware, Missouri, Montana, New Hampshire, Vermont, Washington e West Virginia, mentre hanno ceduto ai repubblicani l’incarico in Nord Carolina.  I repubblicani hanno vinto di nuovo in Indiana, Nord Dakota, e Utah.

Per valutare quanto spazio di manovra abbia Obama nel portare avanti la sua politica di riforme, sarà necessario comprendere il rapporto di forza fra progressisti e conservatori nel nuovo Congresso – un rapporto che non segue necessariamente la divisione fra democratici e repubblicani. Già nel 2008, quando sembrava che Obama avesse una solida maggioranza al Congresso, si comprese subito che i conservatori eletti nel partito democratico avrebbero formato un unico blocco con i loro colleghi repubblicani, per sbarrare la strada a qualsiasi progetto di riforma, anche leggermente progressista.  La riforma sanitaria fortemente voluta dal Presidente non è altro che il frutto di un compromesso fra la minoranza formata dai democratici liberal e progressisti e la maggioranza conservatrice formata da repubblicani e democratici di destra.

Ora sarà interessante vedere come si comporterà il 113mo Congresso quando sarà inaugurato il prossimo 3 gennaio.  Fra meno di due anni, si svolgeranno le elezioni di mid-term e saranno di nuovo messe in palio i 435 seggi alla Camera e un terzo dei 100 seggi al Senato.  Oggi il Congresso ha un gradimento sotto di sotto al 20% e molti cittadini incolpano senatori e deputati per le divisioni politiche e l’incapacità di portare a termine le riforme.  Il presidente Obama ha il vantaggio che non dovrà più prestare attenzione agli indici di gradimento, perché non è possibile un terzo mandato, e, pertanto, avrà le mani libere che potrà usare per mettere una forte pressione sui senatori e sui deputati per raggiungere accordi necessari per rilanciare l’America.

Cinque giorni alle elezioni USA

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama with New Jersey Governor Chris Christie
Photo of Christie/Obama – @Chris_Moody, via Twitter

Mancano solo cinque giorni alle elezioni americane e la competizione per la Casa Bianca vede il presidente in carica, Barack Obama, e lo sfidante repubblicano, Mitt Romney, battersi per conquistare il voto dei cittadini negli undici stati “ballerini”, quelli che determineranno chi sarà il prossimo presidente americano.  Alla fine dei giochi, non importerà chi avrà la maggioranza del voto popolare, ma chi avrà superato 270 voti elettorali dei 538 in palio, assegnati a ciascuno stato in base alla popolazione.  Nei diversi stati, chi ottiene la maggioranza del voto popolare vince tutti i voti elettorali assegnati a quello stato.  Obama avrebbe, secondo la media dei sondaggi nazionali, 201 voti elettorali “sicuri” contro i 191 per Romney.  Dei 146 voti rimanenti, i sondaggi darebbero 89 a Obama, portandolo a quota 290, e 57 a Romney, il quale raggiungerebbe quota 248.

Il margine di vittoria di Obama nei sondaggi degli otto stati dove sarebbe vincente, tuttavia, è ben all’interno del margine d’errore dichiarato dai sondaggisti. In breve, il presidente deve continuare un’intensa campagna specialmente in Ohio, con i suoi 18 voti, in Pennsylvania, con 20, Wisconsin con 10, Nevada con 6, e Michigan con 16.  Con la vittoria in questi cinque stati, Obama raggiungerebbe quota 271.  Ma Obama deve essere anche pronto in caso che Romney riuscisse nel conquistare l’Ohio, togliendo 18 voti al presidente, nel rimpiazzare quei voti con quelli del Colorado (9), Iowa (6) e New Hampshire (4), per un totale di 19 voti, che lo porterebbero oltre l’asticella di 270.

Molti commentatori americani, analizzando il potenziale effetto dell’uragano Sandy sul risultato delle elezioni americane, hanno notato che se da un lato Obama ha sicuramente guadagnato punti fra gli elettori per la sua impeccabile gestione dell’emergenza, con tanti complimenti ricevuti anche da acerrimi avversari politici del calibro del governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, dall’altro lato sembra che il presidente rischi di perdere le elezioni in Ohio e Virginia perché le contee maggiormente colpite dal maltempo, dove la popolazione potrebbe non riuscire ad andare a votare, sono quelle che hanno una maggioranza elettorale democratica.  L’Ohio e la Virginia potrebbero passare da un candidato all’altro, determinando chi sarà il futuro presidente, per pochi voti.

Mentre i candidati continuano a fare comizi e raduni in particolare negli stati ballerini, i commentatori sono attenti alle notizie che provengono dall’economia.  Ogni notizia positiva può spingere l’ago della bilancia a favore di Obama, mentre quelle negative possono aumentare le possibilità dello sfidante.   Pochi giorni fa sono stati diramati dall’Università del Michigan i dati che indicano l’ aumento della fiducia dei consumatori rispetto al mese precedente, raggiungendo la quota più alta degli ultimi cinque anni. Ora si aspettano i dati sull’occupazione, che saranno diramati venerdì, 2 novembre 2012.

Dieci settimane alle presidenziali USA

Conclusa la Convention Repubblicana

Republican presidential nominee Mitt Romney waves to the crowd with vice presidential runningmate Rep. Paul Ryan (L) after accepting the nomination during the final session of the Republican National Convention in Tampa, Florida, August 30, 2012 REUTERS/Mike Segar

Anthony M. Quattrone

 

Con la chiusura della Convention repubblicana il 30 agosto 2012 a Tampa, in Florida, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, e il deputato del Wisconsin, Paul Ryan, sono diventati gli sfidanti ufficiali per la presidenza e la vice presidenza degli Stati Uniti nelle prossime elezioni che si svolgeranno il 6 novembre 2012.  Il presidente Barack Obama e il suo vice Joe Biden hanno dieci settimane a disposizione per convincere gli elettori che meritano di rimanere al comando del Paese per completare il cambiamento della società americana proposto quattro anni fa.

Nei tre giorni della kermesse repubblicana, Romney e Ryan hanno cercato di presentare agli americani una visione dell’America che mette in risalto i valori del libero mercato, dell’individualismo, della meritocrazia, e dello spirito dell’avventura accusando Obama e i democratici di sostenere una visione statalista, assistenzialista, dove l’impresa è soffocata dalle troppe tasse legate a un mercato sociale di tipo Europeo.  La ricetta repubblicana per uscire dalla crisi ricalca fondamentalmente principi liberisti basati sulla riduzione delle tasse, quella della spesa pubblica e un generale allentamento dei controlli sull’economia da parte del governo federale.  Romney, nel suo discorso del 30 agosto 2012 ha confermato la promessa fatta da Ryan due giorni prima, il quale si è sbilanciato nel promettere la creazione di dodici milioni di posti di lavoro nei prossimi quattro anni.  Romney ha anche promesso ai giovani la creazione di scuole che potranno offrire un futuro brillante e che “nessun anziano dovrà temere di non ricevere la pensione”, senza entrare nel dettaglio della copertura delle relative spese.

Un articolo di Jim Rutenberg pubblicato dal New York Times il 30 agosto 2012 nota che uno dei maggiori ostacoli che Romney deve superare è il legame emotivo che gli elettori che hanno votato per Obama nel 2008 mostrano ancora nei confronti del presidente.  Romney, conscio del fattore emotivo, ha toccato l’argomento nel suo discorso alla convention repubblicana: “Non abbiate perplessità ad abbandonare Obama anche se quattro anni fa siete stati fieri di votare per il primo presidente nero della nostra storia: sapete bene che ha sbagliato. Da americano speravo avesse successo, ma ci ha deluso.”  Secondo Rutenberg, gli strateghi democratici e repubblicani concordano sull’importanza del legame emotivo fra gli elettori di Obama e il presidente.  Rutemberg cita Mark McKinnon, un ex strategista per la campagna di George W. Bush, “Sarà difficile rompere il legame che molti elettori hanno nei confronti di Obama, anche se si sentono delusi. Il legame può essere considerato un matrimonio andato male, ma si vuole tentare di salvarlo”.

I sondaggi nazionali rilevano un fondamentale pareggio fra Obama e Romney per quanto riguarda il voto popolare.  Rasmussen indica Romney in vantaggio per 45 a 44 percento fra le persone che più probabilmente andranno a votare, mentre Gallup da Obama in vantaggio per 47 a 46 percento fra le persone iscritte alle liste elettorali.  Mentre i sondaggi nazionali danno una visione abbastanza generale sul gradimento dei candidati presidenziali, i sondaggi condotti in ogni stato sono più indicativi perché il sistema elettorale americano per la presidenza si basa sul conto dei 538 “voti elettorali” assegnati ad ogni stato e non sul voto popolare a livello nazionale. In quasi tutti gli stati, tutti i voti elettorali assegnati a uno stato vanno al candidato che ottiene più voti.  Diventa presidente il candidato che raggiunge 270 voti elettorali.  Secondo la media dei sondaggi monitorati da realclearpolitics.com, Obama avrebbe un vantaggio di 221 voti contro 191 per Romney, con 126 voti, appartenenti a dieci stati, che sono ancora indecisi.  Secondo i sondaggi, Obama è in vantaggio in nove dei dieci stati “indecisi”.  Il risultato finale del conteggio dei “voti elettorali” darebbe, pertanto, Obama vincente con 320 a 206.

La battaglia per la Casa Bianca si deciderà probabilmente nei dieci stati “indecisi” perché è qui dove lo sfidante Romney può attingere i 79 voti che gli servono per arrivare a 270: Colorado con 9 voti, Florida con 29, Iowa con 6, Michigan con 16, Nevada con 6, New Hampshire con 4, North Carolina con 15, Ohio con 18, Virginia con 13 e Wisconsin con 10.  Per vincere, Obama deve assolutamente tenere duro negli stati tradizionalmente democratici e puntare il tutto per tutto in quegli stati indecisi che hanno un maggior numero di rappresentanti, per racimolare 49 voti che, secondo i calcoli di realclearpolitics, gli servirebbero per la rielezione.

Obama contro Romney: cinque stati decideranno chi vincerà

Anthony M. Quattrone

President Obama speaks during a news conference closing the NATO summit at McCormick Place in Chicago on 21 May 2012 (John Gress/Getty Images – Boston Globe)

Gli strateghi della comunicazione dei due maggiori partiti americani sono al lavoro per capire come e dove sia meglio indirizzare i messaggi agli elettori per le elezioni del prossimo novembre, quando si gareggerà per la presidenza degli Stati Uniti, per l’intera Camera, per un terzo del Congresso e per le cariche di governatore di undici stati e di due territori.  La strategia per la campagna elettorale presidenziale è molto diversa da quelle per il Congresso e per le cariche di governatore, perché nelle presidenziali il meccanismo elettorale premia, in quasi tutti gli stati, solo il candidato vincente assegnando tutti i delegati previsti per quello stato e non dando nulla altri altri, e questo potrebbe incidere in modo decisivo sul tipo di campagna elettorale che democratici e repubblicani condurranno in ogni stato.

Prendiamo per esempio lo stato del West Virginia. Se l’attuale presidente americano, Barack Obama, pensasse che non ci fosse alcuna possibilità di vincere in West Virginia, che vale solo 5 delegati dei 538 in palio, e dove, secondo i sondaggi, il probabile candidato repubblicano, l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, vincerebbe per 54 a 33 punti percentuali, allora non varrebbe la pena di spendere nemmeno un dollaro per ottenere un risultato migliore, perché i 5 delegati andranno al vincitore, indipendentemente dalla proporzionalità del voto popolare.  Ovviamente, perché i democratici in West Virginia vogliono conservare il seggio del loro senatore uscente, Joe Manchin, vogliono vincere il più alto numero dei tre seggi per la Camera in palio, e vorranno conservare la carica di governatore, dovranno decidere che tipo di campagna elettorale condurre.  Il West Virginia è uno stato conservatore e potrebbe convenire ai candidati democratici prendere le distanze da Obama su questioni come il matrimonio fra le persone dello stesso sesso e, pertanto, non invitarlo durante la campagna elettorale del prossimo autunno. Attualmente in West Virginia i sondaggi indicano che i democratici potrebbero conservare il seggio al Senato, difendere il seggio che hanno alla Camera e forse conservare anche la carica di governatore dello Stato. Pertanto, Obama non andrebbe in West Virginia perché sa che non ce la farebbe a rimontare su Romney e eviterebbe di “danneggiare” i candidati democratici in gara con la sua presenza.

Romney speaks at a campaign rally in Kentwood, Mich., Wednesday, Feb. 15, 2012. (AP Photo/Gerald Herbert)

Per un candidato presidenziale democratico progressista come Obama, i deputati e i senatori eletti negli stati conservatori come il West Virginia, pongono seri problemi anche dopo le elezioni perché  non sono sempre in linea con le proposte del Presidente e, alla fine, finiscono per allearsi con i repubblicani specialmente sui temi sociali.  Nel 2008, quando Obama vinse le presidenziali e sia il Senato, sia la Camera ebbero delle maggioranze democratiche, il nuovo presidente non poté mai contare su una vera maggioranza perché un cospicuo numero di senatori e deputati democratici erano conservatori su questioni sociali ed economiche, allineati sulle posizioni tipiche del partito repubblicano.  Nel 2008, con i democratici che avevano 235 deputati contro 198 repubblicani alla Camera, il Presidente Obama era di fatto in minoranza perché ben 54 democratici erano dichiaratamente conservatori e avevano apertamente indicato che non lo avrebbero appoggiato nel fare riforme progressiste.  Nelle elezioni del 2010, ventotto dei 54 deputati democratici conservatori hanno perso il seggio contro repubblicani conservatori e l’attuale Camera rappresenta con più trasparenza il rapporto di forza fra conservatori e progressisti, con 256 repubblicani e venticinque democratici nel campo conservatore, e 153 democratici nel campo progressista.

Gli ultimi principali sondaggi con rilevazioni del 21 maggio 2012, danno, in media, un vantaggio di Obama su Romney di 1,6 punti percentuali.  Secondo il sito RealClearPolitics.com, che effettua un monitoraggio costante di tutti i sondaggi nazionali e locali, Obama può contare su 227 delegati contro 170 per Romney.  Secondo il sito, c’è incertezza per 141 delegati che appartengono a undici stati perché lo scarto a favore dell’uno o dell’altro candidato è minimo.  E’ molto probabile che in questi stati si svolgerà la battaglia per la presidenza ed e qui che i due candidati dovranno puntare il tutto per tutto.  Per Obama si tratta di racimolare 43 delegati, mirando in particolare a cinque stati: Ohio (con 18), Michigan (con 16), Wisconsin (con 10), New Hampshire (con 4) e Virginia (con 13).  La battaglia per conquistare la Florida, che conta 29 delegati, è particolarmente avvincente, perché il voto della comunità ispanica è influenzabile sia dal carisma di Obama, sia da quello del senatore repubblicano Marco Rubio che è di origine cubane.

Ora gli strateghi della comunicazione dei due maggiori partiti americani stanno mettendo a punto le armi per mirare con precisione agli obiettivi da raggiungere, stato per stato, per raggiungere la quota dei 270 delegati necessari per l’elezione del presidente, senza tralasciare tutto quello che c’è da fare per vincere anche al Congresso e nelle gare per le cariche di governatore.  Un lavoro che è già costato milioni di dollari e che, probabilmente, raggiungerà quote record, con Obama che ha già raccolto 220 milioni di dollari e con Romney che ha raggiunto quota 100.

Mentre Romney annaspa, Obama lancia l’attacco

Divulgato in rete il video-documentario “La strada che abbiamo percorso”

Anthony M. Quattrone

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=2POembdArVo]Il titolo più rincorrente che accompagna le analisi e gli articoli sulle primarie repubblicane del 2012 è “Romney vince ma non sfonda”, oppure “Romney vince ma non convince”.  L’ex governatore del Massachussets, Mitt Romney, ha un saldo vantaggio sugli altri tre contendenti ancora rimasti in gara, eppure non riesce a conquistare il gradimento della maggioranza dell’elettorato repubblicano.  A destra si sente la mancanza di un personaggio carismatico che possa competere seriamente contro Barack Obama nelle presidenziali Usa del prossimo novembre.  Dopo trentuno competizioni per le primarie, Romney ha conquistato 516 dei 1.144 delegati che servono per vincere la nomination durante la Convention Repubblicana del 27 agosto 2012 a Tampa, in Florida, contro 236 per l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, 141 per l’ex presidente della Camera americana, Newt Gingrich, e 66 per il deputato del Texas, Ron Paul.  Facendo la somma dei delegati, Romney batte gli altri per 516 a 433, mentre se si calcola il voto popolare, Romney è in grande difficoltà.  Fino ad ora, Romney ha ottenuto 3.584.782 voti contro 5.518.768 espressi per gli altri tre candidati.  Anche nei sondaggi per la nomination, Romney non riesce a sfondare. L’ex governatore del Massachusetts ha 35,1 percento, contro 29,3 per Santorum, 14,3 per Gingrich e 11,1 per Ron Paul.

Intano, dai sondaggi è palese che Romney è l’unico candidato repubblicano che possa competere con Obama.  La media dei sondaggi svolti la scorsa settimana rileva Obama in vantaggio su Romney per 48,4 a 43,8 percento.  Obama è in vantaggio su Santorum per 50,5 a 41,9 percento, su Gingrich per 51,3 a 37,5 percento e su Ron Paul per 46,6 a 39,4 percento.

Gli analisti e gli strateghi democratici e repubblicani utilizzano tre dati per tentare di capire come andranno le elezioni del prossimo novembre.  Questi sono gli indici di popolarità del presidente Obama, il tasso di disoccupazione, e la fiducia dei consumatori.  La media dei sondaggi condotti durante la settimana scorsa mostra una certa stabilità del consenso degli americani nei confronti di Obama con 47,1 percento a favore e 46,9 contrari.  E’ più preoccupante l’indice che rileva la fiducia degli americani riguardo la direzione del Paese, con solo 31,3 percento che pensa che il Paese vada nella direzione giusta e 61,3 percento che pensa di no.  Obama, tuttavia, rimane più popolare degli eletti al Congresso a maggioranza repubblicana, i quali, complessivamente hanno un gradimento di solo 11,3 percento.

Il tasso di disoccupazione in America per febbraio 2012 è rimasto inalterato a 8,3 percento, pari al mese precedente, ma con l’aggiunta di ben 227 mila posti di lavoro.  Secondo un rapporto pubblicato dal ministero del lavoro, è il terzo mese di fila che sono stati creati oltre 200mila posti di lavoro.  Se la tendenza continuasse, Obama potrebbe trovarsi entro la fine dell’estate con l’aggiunta di quasi un milione di posti di lavoro, che inciderebbe non poco sulle elezioni di novembre.

La fiducia dei consumatori Usa, misurata dall’University of Michigan, è leggermente sotto le attese degli specialisti, attestandosi a 74,3 punti invece di 76, forse a causa della preoccupazione degli americani che il prezzo della benzina possa avvicinarsi sempre di più a $5 al gallone (pari a circa un euro al litro).  L’indice che misura l’opinione degli intervistati rispetto alla loro situazione finanziaria al momento dell’intervista, la loro opinione sullo stato dell’economia a breve, e la loro opinione sullo stato dell’economia a lungo termine, è tarato su quota 100 stabilita nel 1964 ed è calcolato attraverso le interviste telefoniche fatte a un campione di 500 persone.  Anche se l’indice è più basso di quanto previsto, non è necessariamente sfavorevole a Obama, se confrontato ai risultati degli ultimi mesi, con il suo progressivo innalzamento rispetto al punto più basso raggiunto lo scorso agosto, quando scese a 55,7.

Il management della campagna elettorale di Obama, approfittando del momento favorevole per il presidente, ha divulgato in rete il 15 marzo 2012 un video- documentario di poco più di un quarto d’ora, che s’intitola “The Road We’ve Traveled” (“La strada che abbiamo percorso”), girato dal vincitore dell’Oscar, Davis Guggenheim, e narrato da Tom Hanks, in cui sono riassunti tutti i momenti più importanti dei primi tre anni della presidenza Obama e le maggiori decisioni che il Presidente ha dovuto prendere.  Il video, su youtube, è stato già visto da oltre 1,2 milioni di persone.

Pubblicato da “Il Denaro” il 21 marzo 2012.

Presidenziali Usa: Obama, la tattica dell’attesa

Il candidato repubblicano ed ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, parla durante un comizio il 9 febbraio 2012 a Oklahoma City. (AP Photo/Eric Gay)

Anthony M. Quattrone

La tattica dell’attesa adottata dagli strateghi della campagna elettorale di Barack Obama è sempre più influenzata da due circostanze: il miglioramento dei dati dell’economia Usa in generale e della disoccupazione in particolare, e lo scontro sempre più fratricida fra i candidati repubblicani nelle primarie in corso.  Obama ha raccolto un’immensa potenza di fuoco, fatta da 125 milioni di dollari, che ha ricevuto dai suoi sostenitori fino al 31 dicembre 2011, e che, fino ad oggi, non ha dovuto impegnare il modo rilevante per la sua campagna elettorale.  Come nella campagna del 2008, Obama sta raccogliendo molti contributi di sostenitori che possono permettersi piccole cifre: ha raccolto settantaquattro milioni di dollari da sostenitori che hanno contribuito fino a duecento dollari a testa, e poco oltre nove milioni fra chi ha potuto contribuire fra duecento e i cinquecento dollari.

La notizia diramata dal Dipartimento del Lavoro che la disoccupazione americana è scesa, attestandosi a 8,3 percento da 8,5 del mese scorso e da 9,1 del dicembre 2010, toccando il più basso livello dal febbraio 2009, con un’aggiunta di circa 240 mila posti di lavoro, è sicuramente un dato decisivo a favore di Obama.  Infatti, in coincidenza con le buone notizie che arrivano dal fronte economico, i sondaggi hanno rilevato un generale aumento del gradimento nei confronti del presidente, portandolo, in media, a 49 percento a favore e 47 contrari.  Il sondaggio svolto il 4 febbraio 2012 per ABC News/Washington Post registra 50 percento di gradimento contro il 46 percento a sfavore.  La tendenza dei sondaggi sembrerebbe registrare una crescita del gradimento nei confronti di Obama in correlazione con le notizie positive sulla disoccupazione.  Il dato sul gradimento è indicativo perché, a differenza dell’incremento registrato a maggio 2011, dopo l’operazione che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden, il risultato di questi giorni non è legato a fatti eccezionali, bensì alla condizione generale dell’economia.  Tuttavia, lo staff del presidente rimane preoccupato per un’altra rilevazione dei sondaggi, quello riguardante l’opinione degli americani rispetto alla direzione cui sta andando il Paese: il 62 percento degli americani crede che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, mentre solo il trenta percento pensa che il Paese sia sulla giusta strada.

In casa repubblicana, i quattro contendenti rimasti in gara continuano a darsi battaglia senza alcuna esclusione di colpi, quasi fossero iscritti a partiti diversi.  Le schiaccianti vittorie dell’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, in Florida il 31 gennaio 2012 e in Nevada il 4 febbraio 2012, avevano creato la sensazione che i giochi fossero fatti, dando al milionario mormone un impulso decisivo verso la nomination.  Invece, il 7 febbraio 2012, l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, ha vinto in Minnesota, Missouri, e Colorado, raccogliendo il voto della parte più conservatrice del Paese e della stessa base repubblicana, che continua a non essere convinta che Romney sia abbastanza conservatore e che questi potesse realmente rappresentare le posizioni della destra religiosa americana.  In Minnesota, un altro beniamino della destra repubblicana, il deputato del Texas, Ron Paul, ispiratore del movimento “Tea Party”, è arrivato secondo, battendo anche lui Romney.  L’ex presidente della Camera americana, Newt Gingrich, forte della convincente vittoria nel Sud Carolina, non è riuscito a brillare nemmeno lui con gli elettori della destra oltranzista, forse perché il suo stile di vita non è esattamente in linea con i precetti della destra religiosa.  Nelle gare svolte fino ad ora, Romney potrà contare su 90 delegati, Santorum su 44, Gingrich su 32 e Paul su 13 dei .1.144 che servono per vincere la nomination durante la Convention Repubblicana il 27 agosto 2012 a Tampa, in Florida.  E’ interessante notare, tuttavia, che, indipendentemente dall’assegnazione dei delegati fino ad ora, Romney ha ottenuto 40,2 percento del voto popolare, contro 30,1 per Gingrich, 15,5 per Santorum e 11 per Ron Paul.

Secondo i sondaggi, Obama è vincente contro di ognuno dei quattro candidati repubblicani.  Contro Romney, Obama ha un vantaggio di 48,1 a 44,3.  Contro Gingrich, Obama ha un vantaggio di 51 a 40,4. Contro Santorum, il vantaggio è di 49,8 a 41,2. E, infine, contro Ron Paul, il vantaggio è di 48,2 a 42.  Gli strateghi democratici preferirebbero che Obama affrontasse a novembre uno dei candidati repubblicani più conservatori, come Santorum, Gingrich o Paul, sperando così di poter conquistare il voto indipendente e moderato, che difficilmente potrebbe concentrarsi su uno dei candidati della destra conservatrice.  Mitt Romney, pertanto, rimane il candidato più temibile per Obama perché è l’unico che potrebbe attrarre il voto degli indipendenti e di quelli che nel 2008 hanno votato per Obama ma oggi non lo appoggiano più.

Se l’economia continuasse a migliorare e i dati della disoccupazione continuassero a scendere, Obama potrà proseguire nel godersi lo spettacolo dei repubblicani che si fanno la guerra, aspettando il momento più opportuno per finalmente iniziare la campagna elettorale.

Pubblicato da “Il Denaro” l’11 febbraio 2012 con il titolo “Barack Obama adotta la strategia dell’attesa”

La destra repubblicana boccia Mitt Romney

Anthony M. Quattrone

L'ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, il 21 gennaio 2012 durante le primarie del South Carolina (AP Photo/Charles Dharapak)

Superando ampiamente il vantaggio già previsto dai sondaggi, l’ex presidente della Camera americana, Newt Gingrich, ha vinto la terza tappa delle primarie repubblicane, quelle svolte in South Carolina il 21 gennaio 2012, ottenendo 40,4 percento del voto, battendo l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, che ha registrato 27,8 percento.  Il terzo posto è andato all’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum con 17 percento, mentre al quarto posto si è posizionato il deputato del Texas, Ron Paul, ispiratore del movimento ultra conservatore “Tea Party” con 13 percento.

Il voto degli elettori repubblicani del South Carolina conferma che Romney non è particolarmente gradito alla destra conservatrice ed evangelica.  Infatti, Gingrich e Santorum, due candidati che hanno l’appoggio della destra conservatrice e degli evangelici, hanno sommato 57 percento in South Carolina.

Ora, nella gara per l’assegnazione dei 2.286 delegati che avranno il diritto di voto durante la “convention” repubblicana che si terrà il 27 agosto 2012 a Tampa, in Florida, il favorito, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, potrà contare su 33 delegati, seguito da Gingrich con 25, da Santorum con 14 e Ron Paul, con 4.

Nelle prime tre competizioni elettorali, gli elettori repubblicani hanno dato la vittori a tre diversi candidati.  Nella prima gara, quella svolta in Iowa il 3 gennaio 2012, in un primo momento la vittoria era stata data a Romney per 8 voti, ma, dopo un riconteggio, Santorum si è aggiudicato la competizione con 34 voti di scarto.  Nella seconda gara, nel New Hampshire, Romney ha battuto Ron Paul per 39,3 a 22,9 percento, in linea con quanto previsto dai sondaggi.  Con la conclusione della terza competizione in South Carolina, sono rimasti in gara Romney, Gingrich, Santorum, e Ron Paul, mentre si sono ufficialmente ritirati l’ex presidente della Banca federale di Kansas City, Herman Cain, la deputata del Minnesota, Michele Bachmann, l’ex governatore dello stato dello Utah Jon Huntsman e, poco prima delle primarie in South Carolina, il governatore del Texas, Rick Perry.

La prossima tappa per i candidati repubblicani è la competizione in Florida, che si svolgerà il 31 gennaio 2012, con il meccanismo dell’asso piglia tutto, dove il vincitore si aggiudicherà tutti i 50 delegati in palio.  Nei sondaggi condotti in Florida prima dei risultati delle primarie del South Carolina, Mitt Romney avrebbe 40 percento del gradimento, contro  22 per Newt Gingrich, 15 per Rick Santorum e 9 per Ron Paul.  Secondo quanto riportato dalla Cnn, Romney avrebbe già speso oltre 2 milioni di dollari per spot televisivi in Florida, mentre gli altri candidati non hanno speso nulla, forse perché il meccanismo dell’asso piglia tutto renderebbe inutile investire i fondi elettorali per un secondo o terzo posto.

E’ interessante notare in questa fase come lo staff elettorale del presidente Barack Obama rimodula gli attacchi contro i candidati repubblicani secondo i risultati delle primarie e le rilevazioni dei sondaggi.  Il candidato che preoccupa di più la Casa Bianca rimane Mitt Romney, sia per i risultati dei sondaggi, sia per la forza economica che l’ex governatore del Massachusetts può mettere in campo, ed è contro di lui che si focalizza l’attenzione democratica.  Secondo gli ultimi sondaggi pubblicati da Real ClearPolitics, un generico candidato repubblicano potrebbe battere Obama con uno scarto di 1,2 percento, con 43,6 per un repubblicano contro il 44,2 per Obama.  Invece, quando si raffronta Obama contro un candidato specifico, il presidente è vincente, ma nel caso di Romney, per pochissimo, cioè per 46.9 a 45 percento.  Contro gli altri candidati, il margine a favore di Obama è più tranquillo: contro Gingrich, per 50,6 a 39,6 percento; contro Santorum, per 50,1 a 40,3 percento; contro Ron Pau, per 46,8 a 41,7 percento.

I gruppi democratici hanno inviato milioni di messaggi indirizzati agli elettori indipendenti a proposito della dichiarazione dei redditi di Romney, sollevando grande interesse per la cifra relativamente bassa che l’ex governatore paga in termini percentuali.  Romney, che ha ammesso che paga attorno al 15 percento, è sotto pressione per rendere pubblica la dichiarazione dei redditi del 2011, che normalmente deve essere compilata entro il 15 aprile di ogni anno.  Secondo gli analisti democratici, le proposte fiscali che Obama metterebbe in campo se fosse rieletto e se il suo partito riuscisse a ottenere la maggioranza sia alla Camera, sia al Senato, porterebbero all’aumento delle tasse per i ricchi dal 15 percento al 24.  Le proposte di Romney e degli altri candidati repubblicani, mirerebbero a conservare la tassazione a 15 percento, alzandola per i ceti medi o tagliando ulteriormente le spese del governo federale.

Obama gode in questo momento di un gradimento relativamente basso, attorno a 45 percento, ma molto superiore a quello per il Congresso, che rimane attorno al 13 percento.  Con questo livello di gradimento, Obama deve ottenere il massimo dalle divisioni interne allo schieramento repubblicano, sperando che l’antipatia della destra radicale nei confronti di Romney rimanga alta, così come la paura della destra moderata nei confronti di Gingrich.

Il prossimo evento importante per compiere le rilevazioni sul gradimento nei confronti di Obama sarà il discorso che il presidente americano terrà il 24 gennaio 2012 quando parlerà alla nazione in occasione dell’appuntamento annuale sullo “stato dell’unione”.

Pubblicato da “Il Denaro” il 24 gennaio 2011 con il titolo: Primarie americane, Romney inciampa a destra

La disoccupazione americana scende, Obama cresce nei sondaggi

Gerardo Alvarado (L) and Jeffrey Baltzley work on pipefitting during a class at the Air Conditioning, Refrigeration and Pipefitting Education Center on January 5 in Opa Locka, Florida. The US economy added more jobs in December and the unemployment rate fell again, but economists said big challenges remained to sustaining the jobs market recovery this year. (AFP Photo/Joe Raedle)

Anthony M. Quattrone

Negli ultimi mesi del 2011, il presidente americano Barack Obama è diventato molto più aggressivo e determinato nell’attaccare l’immobilismo e l’ostruzionismo del Congresso americano, dove i repubblicani, che controllano la Camera, riescono a paralizzare quasi tutte le iniziative proposte dalla Casa Bianca.  Obama accusa il Congresso di non essere più capace di risolvere i problemi del Paese, sia per incapacità, sia per interessi di parte.  Obama ha abilmente colto l’occasione che si è presentata a fine dicembre quando l’ostruzionismo di destra rischiava di far saltare alcuni tagli fiscali per il ceto medio.  Il presidente ha suonato l’adunata per i suoi sostenitori, lanciando una fortissima campagna di opinione contro il partito repubblicano, accusandolo di sostenere solo gli americani più ricchi, a discapito delle classi medie.  I deputati e senatori repubblicani hanno suonato la ritirata, votando il 30 dicembre 2011 a favore della proposta fiscale di Obama, dopo aver ricevuto migliaia di telefonate, email e lettere di protesta da parte di elettori inviperiti per la presa di posizione del partito.  Obama ha potuto così rafforzare l’immagine del decisionista che lotta contro la casta di Washington, in nome del popolo americano.

Il presidente è anche partito all’attacco delle spese del Dipartimento della Difesa, dando al Segretario Leon Panetta il difficile compito di individuare una strategia complessiva che permettesse agli Stati Uniti di rimanere la principale potenza militare nel mondo, eliminando sprechi e ridondanze.  Il 5 gennaio 2012, Obama e Panetta hanno presentato la nuova strategia per la Difesa americana, che abbandona, dopo 60 anni, la dottrina delle “due guerre”, ovvero la capacità di combattere guerre separate su due fronti.  Secondo le stime del Dipartimento della Difesa, si dovranno tagliare almeno 450 miliardi di dollari di spesa nei prossimi dieci anni.  Il messaggio che Obama sta facendo trapelare è che gli americani devono concentrarsi sulle spese in patria, mirando a non abbassare la guardia nel campo della sicurezza, attraverso l’efficienza e il vantaggio tecnologico.

Ora Obama sta sfruttando abilmente anche la situazione favorevole che si è creata con le buone notizie sull’andamento dell’economia USA e in particolare sui dati della disoccupazione.  La notizia del 6 gennaio 2012, che la disoccupazione americana è scesa a 8,5 percento, da 9,1 del dicembre 2010, e che nel 2011 sono stati aggiunti oltre 1,5 milioni di posti di lavoro, va letta assieme al miglioramento della fiducia rispetto all’economia espressa dai consumatori americani nei dati riassunti nel “Consumer Confidence Index”, dal 55,2 di novembre al 64.5 di dicembre, superando anche le migliori previsioni degli analisti, che si erano attestate a 59 percento. L’andamento dell’economia e in particolare i dati sulla disoccupazione sono, secondo molti osservatori, i fattori più importanti che possono influenzare come voteranno gli americani il prossimo novembre per le elezioni presidenziali, per rinnovare un terzo del Senato e l’intera Camera.

Mentre Obama costruisce la sua strategia del consenso basandosi sulla lotta contro i vecchi poteri di Washington, sulle buone notizie dall’economia, e sulle proposte a tutela del vastissimo ceto medio americano, i repubblicani sono impegnati, senza esclusioni di colpi, nelle primarie in corso per scegliere il candidato da opporre al presidente democratico in carica il prossimo novembre.  Il 3 gennaio 2012 si sono svolte le primarie in Iowa, dove l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, ha sconfitto l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, per soli otto voti, con 30.015 voti contro 30.007, ottenendo 24,6% contro 24,5% del suo concorrente. Il terzo posto è andato al deputato del Texas, Ron Paul, ispiratore del movimento ultra conservatore “Tea Party” con il 21,4%. Il quarto posto è andato all’ex presidente della Camera, Newt Gingrich. Il governatore del Texas, Rick Perry, è arrivato quinto, ottenendo il 10,3% dei voti.  Gli altri candidati, la deputata del Minnesota, Michelle Bachman, l’ex governatore dello stato dello Utah, Jon Huntsman, e l’ex presidente della Banca federale di Kansas City, Herman Cain non hanno raggiunto nemmeno il 10 percento, con quest’ultimo che ha ottenuto soli 58 voti. Leggi tutto l’articolo