Si è appena concluso il Democratic National Convention che si è svolto dal 19 al 22 agosto 2024 a Chicago e l’entusiamso dei democratici è alle stelle. Per molti osservatori, non si vedevo questo tipo di entusiasmo dai tempi delle campagne elettorali di Bob Kennedy nel 1968 e di Barack Obama nel 2008. Kamala Harris va avanti nei sondaggi nazionali e recupera in quelli nei cosiddetti “stati ballerini”, che alternano il voto tra democratici e repubblicani nei diversi turni elettorali nel corso degli anni. La grande domanda è se l’entusiamo è temporaneo o se fungerà da spinta per portare Harris alla Casa Bianca il 5 novembre 2024.
Secondo la media dei sondaggi pubblicati il 13 agosto 2024, Kamala Harris ha spiccato il volo nella competizione elettorale contro Donald Trump per la presidenza USA. Il 21 luglio 2024, quando Joe Biden ha abbandonato la campagna elettorale, il candidato repubblicano Donald Trump aveva un vantaggio di 3,2% su di lui. In tre settimane, Kamala Harris ha recuperato circa 6% su Donald Trump. Ora Harris è in vantaggio su Trump per 2.7%. Potrà continuare questa traiettoria positiva o è solo il risultato di una “luna di miele” di cui godono i candidati relativamente nuovi, come sostengono gli analisti repubblicani? In questo podcast, Tony Quattrone descrive i problemi che Donald Trump sta creando ai suoi collaboratori con le evidenti bugie e le distorsioni che enuncia ad ogni comizio e conferenza stampa, rischiando di perdere le elezioni anche negli stati che tradizionalmente votano per il partito repubblicano, oltre che negli stati cosiddetti ballerini, che alternano il voto, ad ogni tornata elettorale, tra democratici e repubblicani. La strada per Kamala Harris è tutta in salita, ma ha dalla sua parte una campagna elettorale che guarda al futuro, con un tono di positività e gioia in contrapposizione alla visione “dark” dell’America presentata Donald Trump, che guarda al passato.
Le elezioni presidenziali americane hanno preso una svolta dopo l’abbandono di Joe Biden il 23 luglio 2024 come candidato per i democratici. Kamala Harris è diventata la candidata ufficiale dei democratici il 5 agosto 2024 e il giorno dopo ha scelto il governatore del Minnesota Tim Walz come candidato alla vice-presidenza. I repubblicani sono stati presi di sorpresa dal rapido successo di Kamala Harris nell’unire i democratici e dalla decisione che ha preso di farsi affiancare da un candidato molto apprezzato negli stati della “muraglia blu” – dove il voto dei lavoratori sindacalizzati bianchi è stato determinante nell’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016. Trump e il suo vice, JD Vance, continuano a fare gaffe nei confronti di quei settori dell’elettorato di cui avrebbero bisogno per vincere. Attaccano le donne, i neri, e perfino i repubblicani moderati. Vedremo se Trump e Vance faranno una correzione di rotta nei prossimi giorni.
Nella quarta puntata del podcast, Tony Quattrone, responsabile dei democratici USA in Italia dal marzo 2015 al marzo 2017 e attivista democratico a Houston, Texas, racconta gli eventi che stanno caratterizzando le elezioni presidenziali USA. Sono successe molte nell’ultimo mese, dal 27 giugno 2024, quando si è svolto il dibattito tra Joe Biden e Donald Trump, ad oggi, 26 luglio 2024 — eventi e decisioni che hanno dato una svolta decisiva alla campagna elettorale presidenziale USA. La nomina di Donald Trump come candidato presidenziale repubblicano è stata formalizzata nella Convention Repubblicana che si è svolta a Milwaukee dal 15 al 18 luglio, immediatamente dopo l’attentato del 14 luglio 2024 contro l’ex presidente. Il 21 luglio 2024, il presidente Joe Biden si è ritirato dalla campagna elettorale, spianando la via al suo vice, Kamala Harris, per diventare la candidata democratica alla presidenza. I repubblicani stanno ora ricalibrando la loro campagna elettorale che era totalmente concentrata su come sconfiggere Joe Biden. I democratici lavorano, invece, per ricostruire la grande coalizione che aveva dato la vittoria a Biden nel 2020.
Il 7 gennaio 2010, la nuova Camera dei Rappresentanti USA, ora a maggioranza repubblicana ha messo all’ordine del giorno per il prossimo 12 gennaio il voto per abrogare la storica riforma sanitaria fortemente voluta dal presidente Barack Obama. Il partito repubblicano aveva promesso che se avesse raggiunto la maggioranza al Congresso avrebbe immediatamente cancellato la riforma “socialista” che Obama avrebbe imposto, secondo la destra conservatrice, agli americani. Il nuovo presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, deputato dal 1991 dell’ottavo distretto dell’Ohio, ha potuto contare 236 voti contro 181 per mettere all’ordine del giorno l’abrogazione della riforma.
I democratici accusano i repubblicani di fare gli interessi delle grandi compagnie assicurative, specialmente per quanto riguarda il divieto, previsto dall’attuale legge, di negare la copertura assicurativa a chi abbia patologie preesistenti. I repubblicani controbattono che non sono contrari ad una riforma sanitaria condivisa, ma che non accettano quella “imposta” da Obama lo scorso marzo, quando alla Camera la legge passò con soli 5 voti di scarto, con 219 democratici che votarono a favore della riforma e una minoranza composta da 178 repubblicani e da 34 democratici di destra che votarono contro.
La revoca della riforma sanitaria, tuttavia, potrebbe non avere alcun successo se i democratici, che hanno la maggioranza al Senato, riescono a rimanere uniti. Uno dei maggiori problemi del partito di Obama rimane l’ingovernabile eterogeneità della sua composizione ideologica, con la forzata convivenza di liberal di sinistra del New England con conservatori dell’ultra destra sudista. Attualmente, la maggioranza democratica può contare sulla somma di 51 senatori democratici più due indipendenti, contro la minoranza fatta da 47 repubblicani. Al Senato, alcuni senatori democratici, come Ben Nelson del Nebraska, e l’indipendente Joe Lieberman, sono facilmente attratti dalle posizioni esposte dalla destra repubblicana, e Obama sarà costretto a fare un duro lavoro di compromesso se vorrà avere abbastanza forza per negoziare con i repubblicani l’attuazione, anche parziale, del suo programma di governo durante i prossimi due anni. Tuttavia, il problema non è nuovo per Obama, perché prima delle elezioni dello scorso novembre, quando i democratici hanno perso la maggioranza alla Camera e hanno perso diversi seggi al Senato, il partito democratico era talmente diviso che spesso la destra democratica votava con i repubblicani apertamente contro le posizioni del presidente. Leggi tutto l’articolo
L’alleanza conservatrice contro Obama, formata dalla destra democratica e dai repubblicani, avanza nel Congresso Usa
Anthony M. Quattrone
I risultati delle elezioni americane del 2 novembre 2010 sono in linea con le previsioni fatte dai sondaggi svolti poche settimane prime del voto. I repubblicani hanno conquistato la Camera con una schiacciante maggioranza di 240 a 189 (mancano ancora i risultati finali per sei seggi), portando via, per ora, 61 deputati ai democratici. Al Senato, dove i democratici e i loro alleati indipendenti hanno ancora la maggioranza con 53 seggi, i repubblicani sono riusciti a raggiungere 47, aumentando la rappresentanza di ben sei seggi. Fra i governatori, i repubblicani hanno strappato ai democratici sei stati. Oggi sono 29 i governatori repubblicani, contro 19 democratici e un indipendente (una carica non è stata ancora assegnata). In sintesi, i repubblicani possono dichiarare vittoria su tutti i fronti.
Il presidente Barack Obama, ad inizio del suo mandato nel gennaio 2009, poteva contare su una schiacciante maggioranza al Senato, formata da 55 senatori democratici e da 2 indipendenti, contro 41 per la minoranza repubblicana (due dei 100 seggi erano vacanti). Oggi, la maggioranza formata dai senatori democratici e dagli alleati indipendenti è diminuita di sei seggi, cambiando leggermente il rapporto di forza fra maggioranza e minoranza nel Senato. L’analisi dei risultati del voto per il Senato deve prendere in considerazione due importanti dati. Il primo è il raffronto fra democratici e repubblicani. Il secondo è quello fra progressisti e conservatori. La presenza di una componente conservatrice all’interno del partito democratico rende più complessa l’analisi dei risultati del voto, specialmente per quanto concerne i programmi e gli obiettivi politici espressi dal presidente Obama.
Andiamo in ordine e partiamo con il confronto fra democratici e repubblicani al Senato. Leggi tutto l’articolo
Le elezioni americane del prossimo novembre saranno influenzate primariamente dall’andamento dell’economia, sia quella dell’intera Nazione, sia quella dei differenti Stati dell’Unione. La recessione ha eliminato in America circa otto milioni di posti di lavoro nel settore privato e la disoccupazione è ancora attorno al dieci percento. Anche se ci sono modesti segnali di ripresa, e migliaia di nuovi posti di lavoro sono creati ogni mese, i segnali restano preoccupanti.
Secondo un sondaggio condotto dalla Rasmussen il 22 e 23 maggio 2010, usando un campione composto di persone che più probabilmente andranno a votare a novembre, 48 percento pensa che i problemi economici che il Paese sta affrontando siano stati causati dalla recessione iniziata durante l’amministrazione Bush. Questa percentuale è scesa di cinque punti dal rilevamento effettuato lo scorso aprile e di ben quattordici punti dal maggio 2009. La percentuale delle persone che attribuisce la colpa alle politiche adottate da Obama è salita di quattro punti percentuali, da trentanove percento dello scorso mese a quarantatré dell’attuale sondaggio, ma è più basso della rilevazione effettuata nell’ottobre 2009, quando raggiunse quarantacinque percento, il massimo della sua presidenza.
Secondo un’analisi dei dati ufficiali pubblicati da un’agenzia del governo federale Usa, il Bureau of Economic Analysis, per il primo trimestre del 2010, condotta dalla testata USA Today, la percentuale del reddito personale degli americani proveniente da fonti pubbliche ha toccato il massimo storico, mentre quella da fonti private ha toccato il minimo. Il reddito proveniente da fonti pubbliche, che include oltre alle pensioni, alle indennità di disoccupazione, ai buoni pasto per i meno abbienti, e gli altri programmi di sostentamento del reddito per i più deboli, anche gli stipendi dei dipendenti pubblici, è salito da 12,1 percento del primo trimestre 2000, a 14,2 percento nel dicembre 2007, quando iniziò la recessione, a 17,9 del primo trimestre di quest’anno. Durante lo stesso periodo, il reddito proveniente dal settore privato è sceso da 47,6 percento registrato nel primo trimestre del 2000, a 44,6 percento nel dicembre 2007, all’attuale 41,9. Leggi tutto l’articolo