Petraeus, l’Iraq, e la democrazia

Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command
Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command

Anthony M. Quattrone

La nuova strategia militare sviluppata alla fine del 2006 e attuata nel 2007 dal generale americano David Petraeus, chiamata “surge” (ondata o impennata), che prevedeva un grosso aumento della presenza delle truppe a stelle e strisce in Iraq per un limitato periodo di tempo, ha avuto successo.  Il 30 giugno 2009, i militari americani si sono ritirati da tutte le grandi città irachene, consegnando il controllo del territorio alle forze armate irachene.  Dopo due anni e mezzo dall’inizio del “surge”, la strategia del generale Petraeus ha raggiunto gli obiettivi preposti, ed è diventato il modello per la nuova strategia del presidente Barack Obama in Afghanistan.

La storia del “surge” è forse un esempio della dinamicità della democrazia americana, dove, fra tesi e antitesi, si arriva finalmente alla sintesi, bipartisan, nell’interesse del Paese.  Nel novembre 2006, quando il Congresso americano, appena passato dalla maggioranza repubblicana a quella democratica, era diviso sulla strategia che l’America doveva adottare per uscire dal pantano della guerra in Iraq, nessuno avrebbe scommesso che una strategia di incremento piuttosto che di riduzione delle forze armate Usa in Iraq, avrebbe avuto successo.

La vittoria democratica nelle elezioni del “mid-term” era considerata un mandato per bocciare, nel suo insieme, la politica del presidente repubblicano George W. Bush in Iraq.  Poco dopo le elezioni, il 6 dicembre 2006, un gruppo di studio bipartisan, l’Iraq Study Group, diretto dal repubblicano James Baker e dal democratico Lee Hamilton, aveva chiaramente indicato che c’era bisogno di idee fresche e coraggiose per permettere alle forze armate americane di lasciare l’Iraq, garantendo, allo stesso tempo, la stabilità e la pace nel paese.  Nel frattempo, anche fra i militari, le migliori menti erano al lavoro per cercare come rendere l’Iraq più sicuro, creare un quadro di riferimento in cui potesse svilupparsi la democrazia e le sue istituzioni, e stabilire un piano per il ripiegamento delle truppe Usa nel paese. Leggi tutto l’articolo

Iran: la via stretta di Obama

Inaudita violenza contro la libertà

Iranian supporters of defeated presidential candidate Mir Hossein Mousavi hold signs during a demonstration outside the Iranian consulate in Dubai on June 15. Mahmoud Ahmadinejad has again slammed US President Barack Obama for "interfering" in Iran, as debate over the Iranian president's disputed re-election continued. (AFP/File/Marwan Naamani)
Iranian supporters of defeated presidential candidate Mir Hossein Mousavi hold signs during a demonstration outside the Iranian consulate in Dubai on June 15. Mahmoud Ahmadinejad has again slammed US President Barack Obama for "interfering" in Iran, as debate over the Iranian president's disputed re-election continued. (AFP/File/Marwan Naamani)

Anthony M. Quattrone

E’ difficile non reagire emotivamente dinnanzi alle scene della violenta repressione da parte delle forze dell’ordine della Repubblica Islamica dell’Iran nei confronti di migliaia di cittadini che manifestano contro i presunti brogli elettorali.  Le immagini dei primi giorni, con i manifestanti che innalzavano cartelli con la scritta in inglese“Where is my vote?” (dov’è il mio voto?), hanno fatto spazio a scene di inaudita violenza, culminate con la morte, ripresa in diretta, della ventiseienne Neda Agha Soltan, nelle strade di Teheran, in un lago di sangue, soccorsa inutilmente dal padre e da altri manifestanti.

Chi ama la libertà e crede nello stato di diritto, nella democrazia, e nel rispetto della dignità umana dell’avversario politico non può rimanere indifferente di fronte a quanto sta succedendo in Iran.  Non importa se Mir Hossein Mousavi, il maggiore oppositore del presidente Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno 2009, sia considerato meglio o peggio di quest’ultimo.  Non importa se in passato sia stato fra i fautori del percorso iraniano verso il nucleare.  Quello che importa è che migliaia, se non milioni, di iraniani hanno alzato la voce, chiedendo giustizia, chiedendo l’annullamento delle elezioni per le troppe irregolarità denunciate in ogni zona del paese, mentre le votazioni erano ancora in corso.

Cosa fare? Appoggiare l’opposizione o evitare qualsiasi interferenza, reale o apparente, negli affari interni dell’Iran?  Nel corso degli ultimi dieci giorni, l’amministrazione del presidente Barack Obama ha dovuto mettere a punto un’elaborata strategia della comunicazione, mentre gli eventi in Iran andavano prendendo una piega drammatica.  Ai primi cenni di contestazione delle elezioni, l’amministrazione americana ha preferito astenersi da qualsiasi commento che poteva andare ad inficiare il tentativo di instaurare un dialogo con il regime di Teheran.  La politica estera proposta da Obama, già durante la campagna elettorale, è basata sul realismo piuttosto che sull’idealismo.  Obama aveva promesso che avrebbe tentato di ingaggiare l’Iran in un dibattito proficuo per entrambi i paesi, nella speranza di indurre il paese persiano ad abbandonare qualsiasi velleità di potenza nucleare, e qualsiasi favoreggiamento di gruppi intenti a praticare il terrorismo contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.

Man mano che le manifestazioni della piazza andavano intensificandosi, e le notizie degli scontri riuscivano a superare la censura imposta ai giornalisti, arrivando in tutto il mondo attraverso Internet, l’amministrazione Obama ha dovuto rielaborare la sua strategia della comunicazione nei confronti della situazione iraniana.  Il 19 giugno 2009, sette giorni dopo le elezioni iraniane, la Camera dei deputati Usa ha votato una mozione approvata da 405 deputati contro due astenuti e uno contrario, che “sostiene la lotta dei cittadini iraniani che abbracciano i valori della libertà, dei diritti umani, delle libertà civili, e dello stato di diritto”.  La mozione condanna l’uso della violenza da parte del governo iraniano nei confronti dei manifestanti, la censura degli organi di informazione, e la soppressione dei mezzi di comunicazione elettronica, come Internet e i cellulari, riaffermando l’universalità dei diritti individuali e l’importanza di elezioni giuste e democratiche. Leggi tutto l’articolo

Obama e le canaglie

Il presidente Usa alle prese con Iran e Nord Corea

South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)
South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)

Anthony M. Quattrone

l’Iran e la Corea del Nord, definiti da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, stati canaglia e parte della “Axis of Evil” (asse del male), assieme all’Iraq di Saddam Hussein, sono oggi di nuovo al centro dell’attenzione della politica estera americana, per gli stessi motivi di sette anni fa.  Entrambi i paesi progrediscono verso l’acquisizione di armi di distruzione di massa, lavorando tenacemente ai rispettivi programmi nucleari.

Il 24 maggio 2009, l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori riuniti Usa, ha dichiarato alla televisione americana ABC, che “la Repubblica islamica potrebbe sviluppare la bomba atomica entro tre anni.”  Il 25 maggio 2009, il giorno dopo le dichiarazioni di Mullen, la Corea del Nord ha fatto esplodere il suo secondo ordigno nucleare, in barba alle diffide fatte dalle Nazioni Uniti, dopo il primo test nucleare del 2006.  Nell’arco di due giorni, gli Stati Uniti, e il mondo intero si sono trovati di nuovo di fronte ad un’asse del male, ristrutturato, rielaborato, e più avanzato rispetto al 2002, ma orfano dell’Iraq di Saddam.

Se nel caso dell’Iraq è ormai assodato che non c’erano armi di distruzione di massa, nel caso dell’Iran e della  Corea del Nord, sono gli stessi governanti ad ammettere che si lavora verso l’acquisizione del nucleare, facendo pubblico sfoggio dei progressi fatti.  Il presidente americano Barack Obama forse sarà costretto ad ammettere che Bush non aveva visto male nel caso di Iran e della Corea del Nord, ma potrà continuare a sostenere che la guerra in Iraq è stato un errore che ha distolto l’America dai pericoli effettivi causati dalle politiche di Teheran and Pyongyang, in campo nucleare, e non ha permesso alle forze americane e della coalizione di completare il lavoro in Afghanistan per debellare permanentemente la presenza di al Qaeda.

Obama ora dovrà decidere quali politiche adottare nei confronti dei due paesi superstiti dell’asse del male.  Mentre l’Iran tiene aperto il discorso sul nucleare con la comunità internazionale, giocando al tira e molla sui controlli, dichiarando che mira ad usare l’atomo solo per scopi civili, la Corea del Nord non fa mistero della sua intenzione di diventare una potenza nucleare per scopi militari.  Un test missilistico in Iran non è mai connesso, pubblicamente, al programma nucleare, mentre a Pyongyang non si fanno misteri sugli obiettivi dei test, sulla gittata dei missili e sulla capacità di trasportare testate nucleari. Leggi tutto l’articolo

Usa, prove tecniche di scontro politico

Anthony M. Quattrone

U.S. Appeals Court Judge Sonia Sotomayor (L) speaks after U.S. President Barack Obama announced her as his choice of nomination for the Supreme Court justice, to replace retiring Justice David Souter in the East Room at the White House, May 26, 2009. Obama nominated Sotomayor to the U.S. Supreme Court on Tuesday, selecting a woman who would be the court's first Latino. Obama's choice of the liberal Sotomayor, a 54-year-old judge on the 2nd U.S. Circuit Court of Appeals in New York, was unlikely to change the ideological balance of the high court because Souter, 69, was part of the panel's liberal wing. REUTERS/Larry Downing (UNITED STATES CRIME LAW POLITICS)
U.S. Appeals Court Judge Sonia Sotomayor (L) speaks after U.S. President Barack Obama announced her as his choice of nomination for the Supreme Court justice, to replace retiring Justice David Souter in the East Room at the White House, May 26, 2009. Obama nominated Sotomayor to the U.S. Supreme Court on Tuesday, selecting a woman who would be the court's first Latino. Obama's choice of the liberal Sotomayor, a 54-year-old judge on the 2nd U.S. Circuit Court of Appeals in New York, was unlikely to change the ideological balance of the high court because Souter, 69, was part of the panel's liberal wing. REUTERS/Larry Downing (UNITED STATES CRIME LAW POLITICS)

Il presidente americano, Barack Obama, di ritorno dal recente viaggio in Normandia, dove ha partecipato alla commemorazione del 65esimo anniversario del D-Day, è impegnato sul fronte domestico nel portare avanti, contemporaneamente, diversi progetti che sono parte integrante della sua politica di cambiamento. Obama vorrebbe, prima della sosta estiva del 7 agosto del Congresso, ottenere l’approvazione della nomina della giudice Sonia Sotomayor alla Corte Suprema, far partire il progetto di legge per la riforma sanitaria, riformare il sistema di remunerazione dei top manager aziendali e dare impulso alle misure approvate lo scorso febbraio dal Congresso per risollevare l’economia americana.

Mentre la riforma sanitaria, la riforma del sistema di remunerazione dei manager e gli interventi economici rientrano nel normale gioco di maggioranza e opposizione, e le differenze fra gli schieramenti sono ben note agli americani, il dibattito sulla nomina della giudice Sotomayor potrebbe essere particolarmente rischioso per i repubblicani, a causa delle origini ispaniche del magistrato.

Molti senatori repubblicani non gradiscono alcune posizioni progressiste della Sotomayor, ma al contempo non vogliono apparire contrari, a priori, alla nomina di un giudice di origini ispaniche. Il voto ispanico è in crescita negli Stati Uniti e il Partito repubblicano è ben consapevole che non può estraniare una larga parte dell’elettorato attraverso una dura campagna contro la Sotomayor. La commissione giustizia del Senato dovrebbe iniziare il 13 luglio il lavoro di verifica delle qualifiche della giudice Sotomayor, esaminando centinaia di decisioni che ha preso durante la sua carriera nelle corti federali. La commissione avrà anche la possibilità di intervistarla pubblicamente. Una volta concluso il suo lavoro, la commissione può mandare al Senato la nomina della Sotomayor, per permettere all’alta camera di esprimersi attraverso il voto. In caso di conferma, la Sotomayor diventerebbe la prima persona di origini ispaniche a far parte della Corte e la terza donna, dopo Sandra Day O’Connor e Ruth Bader Ginsburg, a farne parte. leggi tutto l’articolo

Obama affronta la platea islamica

Anthony M. Quattrone

Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)
Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)

Barack Obama aveva promesso lo scorso gennaio, durante il discorso che ha tenuto in occasione del suo insediamento alla presidenza americana, dinnanzi a miliardi di persone che lo hanno ascoltato in diretta televisiva, che avrebbe fatto passi rilevanti nei confronti del mondo mussulmano per eliminare pregiudizi e malintesi causati da decenni di sfiducia reciproca fra l’America e gli islamici. Obama aveva auspicato nei confronti dell’Islam, “una nuova via in avanti, basato sul rispetto reciproco, e su interessi comuni”. Il presidente, cristiano dalla nascita, ma che proviene, da parte del padre, da antenati mussulmani, conserva il secondo nome, Hussein, di chiara matrice islamica.

Ieri, Obama ha mantenuto la sua promessa di affrontare direttamente la platea islamica, tenendo un discorso di 55 minuti all’Università del Cairo, dinnanzi a tre mila studenti e accademici egiziani, e milioni di islamici attraverso la televisione. Il presidente ha esordito il suo discorso rivolgendosi direttamente alla platea egiziana, affrontando subito il tema dei rapporti fra islamici e americani: “Sono qui per cercare un nuovo inizio. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci.” Obama ha invitato americani e islamici a combattere contro i pregiudizi e gli stereotipi che creano sfiducia e risentimento.

Obama non è stato, tuttavia, timido nell’invitare gli arabi ad isolare quelle frange estremiste all’interno del mondo islamico e nel nazionalismo arabo che vogliono condurre una guerra costante contro l’America in particolare, e contro l’intero occidente, in generale. Obama ha detto che “Qualsiasi cosa pensiamo del passato, non dobbiamo rimanerne prigionieri. I nostri problemi vanno affrontati in partnership, e il progresso va condiviso. Ma la prima questione da affrontare è l’estremismo violento in tutte le sue forme. L’America non è e non sarà mai in guerra con l’Islam. Tuttavia, affronteremo senza tregua gli estremisti violenti che pongono un serio rischio alla nostra sicurezza. Il mio primo compito come presidente è quello di proteggere il popolo americano”. Leggi tutto l’articolo

Il GOP in cerca di un’anima

Repubblicani Usa allo sbando:  a chi la leadership del partito?

FILE - In this Jan. 13, 2009 file photo, conservative talk radio host Rush Limbaugh talks with former Defense Secretary Donald H. Rumsfeld in the East Room of the White House in Washington. Dick Cheney made clear he'd rather follow firebrand broadcaster Rush Limbaugh than former Joint Chiefs chairman Colin Powell into political battle over the future of the Republican Party. (AP Photo/J. Scott Applewhite, FILE)
FILE - In this Jan. 13, 2009 file photo, conservative talk radio host Rush Limbaugh talks with former Defense Secretary Donald H. Rumsfeld in the East Room of the White House in Washington. Dick Cheney made clear on 10 May 2009 he'd rather follow firebrand broadcaster Rush Limbaugh than former Joint Chiefs chairman Colin Powell into political battle over the future of the Republican Party. (AP Photo/J. Scott Applewhite, FILE)

Anthony M. Quattrone

La sconfitta subita nei turni elettorali del 2006 e del 2008 da parte del Grand Old Party (GOP), come è chiamato il partito repubblicano americano, ha scatenato una profonda lacerazione fra conservatori moderati e quelli più oltranzisti.  La conquista da parte dei democratici del Congresso nel 2006, e della presidenza nel 2008, con la vittoria di Barack Obama contro il repubblicano John McCain, ha scosso il GOP fino alle sue fondamenta.

L’ala oltranzista del GOP lamenta l’abbandono da parte del partito di una linea a difesa dei valori legati alla patria, la religione, e alla famiglia.  I moderati controbattono che il partito dovrebbe tentare di allargare la sua base, cercando di non cadere nell’estremismo, in particolare sulle questioni che toccano le opinioni etiche, che, di solito, per i conservatori liberali sono considerati strettamente personali.  E così, mentre il conservatore moderato è disponibile ad aprire un dibattito con l’amministrazione Obama su qualsiasi tema, l’estremista pone un rifiuto categorico a qualsiasi discorso con l’amministrazione, tacciata di propensioni al socialismo.

Gli americani hanno seguito con stupore gli attacchi che l’ex vice presidente, Dick Cheney, e il commentatore radiofonico, Rush Limbaugh, hanno condotto contro l’ex Segretario di Stato del primo governo Bush, il generale Colin Powell, durante il corso delle ultime settimane.  Cheney è arrivato a chiedersi, durante un programma televisivo nazionale, se Powell era ancora un repubblicano, o se aveva, di fatto, abbandonato il partito, quando aveva annunciato che avrebbe votato per Obama durante le elezioni dello scorso novembre.  Limbaugh è andato oltre, definendo Powell un voltagabbana, e il candidato repubblicano alle scorse presidenziali, McCain, un falso repubblicano. Leggi tutto l’articolo

Le nuove sfide della NATO

Marco Maniaci

NATO Secretary Jaap de Hoop Scheffer, Barack H. Obama, President of the United States of America, Nicolas Sarkozy, President of France, and Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany (hidden by Sarkozy) crossing the "Passerelle de deux rives" from Germany into France (NATO photo, 4 April 2009)
NATO Secretary Jaap de Hoop Scheffer, Barack H. Obama, President of the United States of America, Nicolas Sarkozy, President of France, and Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany (hidden by Sarkozy) crossing the "Passerelle de deux rives" from Germany into France (NATO photo, 4 April 2009)

C’era una volta la guerra fredda, con i suoi “blocchi” e con i suoi muri.  Da una parte i comunisti, dall’altra il mondo libero.  In quella visione del mondo la NATO sapeva quale era la sua funzione:  quella di contenimento del blocco orientale.  Negli anni novanta, con la scomparsa dell’URSS, quell’obiettivo si è esaurito.  L’ 11 settembre avrebbe potuto dare quella nuova funzione che la NATO stava cercando nel XXI secolo, ma la visione unilaterale dell’amministrazione Bush ha in pratica fatto fallire questa ipotesi.

L’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama ha, però, dato una svolta forse epocale anche in questo campo.

La sua visione della politica estera americana ha avuto un piccolo coronamento nell’ultimo vertice NATO a Strasburgo e Baden-Baden dove è riuscito a strappare l’adesione dei partner europei alla sua linea d’azione in Afghanistan.  Gli alleati della NATO parteciperanno  con uno sforzo maggiore alle operazioni militari contro i talebani e soprattutto nella stabilizzazione del paese, senza dimenticare l’incremento delle truppe in vista dell’appuntamento elettorale afgano di agosto.  Si tratta però soprattutto di addestratori che dovrebbero dar vita nel paese alla creazione di una NATO Training Mission, simile a quello creato con successo in Iraq.

Questo non fa gridare al successo pieno di Obama  da parte di alcuni commentatori, perché gli Stati Uniti sono riusciti ad ottenere solo 5.000 soldati da parte degli alleati per addestrare l’esercito locale.  Certamente non ci saranno le cifre richieste dagli statunitensi.  Ma l’ex senatore dell’Illinois si mostra però assai soddisfatto “dell’impegno concreto”offerto dagli alleati della NATO.

“Gli Stati Uniti vogliono che l’Europa rafforzi le proprie capacità militari, nell’ambito della NATO”,  in questi termini si è espresso il leader americano nella conferenza congiunta con Sarkozy prima del vertice dell’alleanza per il sessantesimo anniversario della NATO, lo scorso aprile.  Vertice della NATO, che ha segnato il ritorno, appunto, della Francia nella partecipazione della struttura militare, ha anche  ricucito, probabilmente,  lo strappo che si era avuto tra gli USA e i suoi partner europei duranti gli anni dell’amministrazione Bush, con le sue scelte in materia di politica estera.

Gli Stati Uniti auspicano, perciò, una maggiore collaborazione con gli alleati dell’altra sponda dell’Atlantico, sperando di rinnovare il ruolo dell’alleanza in vista delle nuove sfide che il colosso a stelle e strisce dovrà affrontare in questo secolo.  Un ruolo che si esprime nella lotta al terrorismo, Obama ha infatti dichiarato che “anche se George Bush non è più il presidente degli Stati Uniti, al Qaeda è ancora una minaccia”,  aggiungendo che “è più probabile che al Qaeda colpisca l’Europa che gli USA, a causa della prossimità del suo territorio.”  Ma le nuove sfide dell’alleanza non saranno solo la lotta al terrorismo o la guerra in Afghanistan, ma anche la guerra alla pirateria nelle acque internazionali, l’allargamento verso est con l’ingresso di Ucraina e Georgia, e la visione di un mondo non più bipolare o unipolare bensì multipolare con il peso sempre più enorme di paesi come la Cina e l’India .

La questione dell’allargamento della NATO ad est porta inevitabilmente poi ai rapporti con la Russia, altro tema spinoso dopo la crisi georgiana dell’estate scorsa.  Proprio questo tema potrebbe portare ad eventuali divergenze tra gli USA e i suoi alleati europei.  L’America di Bush avrebbe voluto già integrare l’Ucraina e la Georgia nella NATO, ma proprio gli europei si opposero per non urtare la Russia.   Un nuovo modo di intendere la NATO che dovrebbe portare quest’ultima ad assumere un ruolo guida nella sfida della sicurezza per questo secolo, dove il tema afghano potrà essere solo il primo banco di prova.

Obama all’attacco dei soldi di “plastica”

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama signs the Credit Card Accountability, Responsibility and Disclosure (CARD) Act, surrounded by lawmakers, in the Rose Garden at the White House. Obama Friday signed sweeping credit card reforms into law, aiming to shield consumers from predatory fees and shock rate hikes, despite complaints from the industry. (AFP/Nicholas Kamm)
US President Barack Obama signs the Credit Card Accountability, Responsibility and Disclosure (CARD) Act, surrounded by lawmakers, in the Rose Garden at the White House. Obama Friday signed sweeping credit card reforms into law, aiming to shield consumers from predatory fees and shock rate hikes, despite complaints from the industry. (AFP/Nicholas Kamm)

Il presidente americano Barack Obama è partito all’attacco del sistema dei soldi di “plastica”, come sono chiamate le carte di credito sull’altra sponda dell’Atlantico.  Oggi (ndr: venerdì, 22 maggio 2009), alle 21 ore italiane, durante una cerimonia ufficiale alla Casa Bianca, dovrebbe firmare una legge approvata questa settimana dal Congresso per garantire più trasparenza e maggior controllo nell’emissione delle carte di credito.

Le nuove regole, che andranno in vigore nel febbraio del 2010, prevedono un periodo di preavviso di 45 giorni, con una comunicazione chiara e semplice, per qualsiasi aumento degli interessi a debito o nuove penali per il cliente.  E’ previsto anche l’obbligo da parte degli istituti finanziari di rendere più trasparenti e comprensibili tutte le condizioni per l’erogazione di una carta di credito, e l’eliminazione di alcune clausole vessatorie.  La legge approvata dal Congresso prevede anche misure contro le attività di marketing nei confronti di ragazzi sotto 21 anni d’età, obbligando gli istituti finanziari alla maggiore prudenza nell’emissione delle carte di credito.

Sono oltre 700 milioni le carte di credito in circolazione negli Stati Uniti.  In media, ogni cittadino americano ha 2,3 carte di credito a testa.  Il settantotto percento delle famiglie americane ne ha almeno una.  Le famiglie in ritardo nei pagamenti per gli acquisti fatti con una carta di credito, hanno, in media, 5.700 euro di debito nei confronti degli istituti finanziari.  Secondo la Federal Reserve, gli americani hanno un debito attivo di quasi 1.900 miliardi d’euro, con l’esclusione dei mutui sulle case.  Al 31 marzo 2009, il debito per le sole carte di credito è pari a ben 730 miliardi.  In breve, escludendo il debito pubblico, ogni cittadino americano, adulto o bambino, occupato o disoccupato, ha, in media, un debito personale che si aggira attorno ai sei mila euro, non contando il debito dovuto per i mutui per l’acquisto degli immobili.

La facilità con cui si poteva ottenere, fino a poco tempo fa, una carta di credito negli Usa, ha creato una vera dipendenza se non addirittura un’assuefazione da parte dei consumatori americani, nei confronti dei soldi di plastica.  Le organizzazioni dei consumatori hanno spesso lamentato che gli allegati dei contratti per l’emissione delle carte, fossero poco trasparenti, inique e piene di clausole vessatorie.  In caso di ritardato pagamento, scattano forti penali e un generale innalzamento dei tassi d’interesse.  I documenti contrattuali sono scritti in un linguaggio indecifrabile per un cittadino medio americano, usando un carattere minuscolo, illeggibile ad occhio nudo. I contratti sono lunghissimi, scritti con tante parti, da scoraggiare la lettura anche da parte di un professore di economia.  Il 23 aprile 2009, il presidente Obama, dopo un incontro alla Casa Bianca con i rappresentanti dei maggiori istituti finanziari, ha stabilito alcune priorità per la riforma del sistema delle carte di credito.  Il presidente ha chiesto, appunto, l’uso di un linguaggio semplice, con caratteri di stampa più leggibili, e l’eliminazione di molte clausole vessatorie nei contratti per l’erogazione di una carta. Leggi tutto l’articolo

L’industria medica Usa s’inchina ad Obama

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama met with healthcare stakeholders in the Roosevelt Room at the White House on May 11, 2009. Photo from www.healthreform.gov.
President Barack Obama met with healthcare stakeholders in the Roosevelt Room at the White House on May 11, 2009. Photo from www.healthreform.gov.

L’impegno elettorale del presidente Barack Obama di riformare il sistema sanitario americano sembrava dover passare in secondo piano rispetto ad altri temi come la crisi economica e l’impegno militare in Iraq ed in Afghanistan.  Nei primi cento giorni della sua amministrazione, Obama ha effettivamente dedicato il grosso del suo impegno proprio all’economia e alle due guerre in corso.

Dietro le quinte, tuttavia, i suoi collaboratori hanno intrecciato una fitta rete di contatti con chi fornisce prestazioni sanitarie, con chi le finanzia, e con i fruitori delle prestazioni.  L’obiettivo dello staff del presidente era ed è quello di evitare che Obama finisse nelle trappole in cui sono caduti i coniugi Clinton nel 1992, durante l’ultimo tentativo dei democratici di riformare la sanità.  Il presidente Bill Clinton e sua moglie Hillary riuscirono ad alienare tutte le parti interessate alla riforma, quando, nell’arco di poche settimane proposero, per poi abortire, una proposta di riforma confusa, non condivisa, e facilmente attaccabile sia dall’industria medica, sia dalle assicurazioni sanitarie.

E’ da diversi mesi che l’amministrazione Obama utilizza ogni occasione possibile per collegare l’alto costo della spesa sanitaria con la crisi economica.  La spesa sanitaria degli americani ammonterà a circa 40 mila miliardi di dollari nell’arco dei prossimi dieci anni.  Secondo Obama e i democratici nel Congresso, la riduzione del costo della salute potrebbe contribuire ad influenzare in modo decisivo l’andamento dell’economia americana, incidendo in particolare sia sul costo del lavoro, per chi ha un’assicurazione medica aziendale, sia sulle spese sostenute dagli enti federali e statali, per chi ha diritto all’assistenza pubblica.

Il primo risultato del lavoro tessuto dai collaboratori di Obama è la riunione che il presidente ha presieduto lunedì, 11 maggio 2009, alla Casa Bianca, fra i rappresentanti delle assicurazioni mediche, delle organizzazioni degli enti ospedalieri, delle associazioni dei medici, dell’industria farmaceutica, dei produttori delle attrezzature mediche, dei rappresentanti degli imprenditori, dei sindacati, e delle associazioni dei pazienti, cogliendo di sorpresa gli osservatori politici Usa. Leggi tutto l’articolo

Obama e la trasformazione della Corte Suprema

The current United States Supreme Court, the highest court in the United States in a 2006 photo by Steve Petteway. Top row (left to right): Associate Justice Stephen G. Breyer, Associate Justice Clarence Thomas, Associate Justice Ruth Bader Ginsburg, and Associate Justice Samuel A. Alito. Bottom row (left to right): Associate Justice Anthony M. Kennedy, Associate Justice John Paul Stevens, Chief Justice John G. Roberts, Associate Justice Antonin G. Scalia, and Associate Justice David H. Souter, who has resigned on 1 May 2009.
The current United States Supreme Court, the highest court in the United States in a 2006 photo by Steve Petteway. Top row (left to right): Associate Justice Stephen G. Breyer, Associate Justice Clarence Thomas, Associate Justice Ruth Bader Ginsburg, and Associate Justice Samuel A. Alito. Bottom row (left to right): Associate Justice Anthony M. Kennedy, Associate Justice John Paul Stevens, Chief Justice John G. Roberts, Associate Justice Antonin G. Scalia, and Associate Justice David H. Souter, who has resigned on 1 May 2009.

Su nove giudici, uno è dimissionario e 5 hanno superato settanta anni d’età

Anthony M. Quattrone

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, potrà influenzare la composizione della Corte Suprema americana per il prossimo ventennio attraverso la probabile sostituzione di diversi giudici che, durante il suo mandato, potranno decidere di ritirarsi per motivi d’età. Dei nove giudici che compongono la Corte Suprema, quattro sono settantenni, mentre uno ha raggiunto gli 89 anni d’età. In America, i giudici della massima Corte hanno dei mandati a vita, su nomina del Presidente, con la conferma del Senato. La Corte è abitualmente chiamata ad interpretare le leggi riguardanti temi etici, quelli sui diritti civili, e quelli sui rapporti fra le diverse istituzioni e apparati dello Stato.

Il primo giudice da sostituire è David Souter, sessantanove anni, il quale ha annunciato le sue dimissioni il primo maggio. Il presidente repubblicano George H. W. Bush aveva nominato Souter alla Corte Suprema nel 1990, perchè era convinto che il giudice fosse un “conservatore puro”. Durante il corso degli ultimi anni, tuttavia, Souter ha votato diverse volte assieme alla minoranza progressista nella massima Corte, specialmente sui temi inerenti ai poteri presidenziali, la pena capitale, l’aborto, e i diritti delle minoranze. Pertanto, la scelta di Obama, il quale sarà sicuramente orientato verso un progressista, non dovrebbe alterare l’attuale equilibrio politico della Corte, dove i conservatori sono la maggioranza. Sette giudici nominati da presidenti repubblicani e due dal democratico, Bill Clinton, compongono l’attuale Corte Suprema.

Il sistema della separazione dei poteri e del loro bilanciamento, prevista dai Padri fondatori della Costituzione americana, assegna alla Corte un ruolo che dovrebbe, almeno in teoria, esimersi dalla politica corrente. La Corte dovrebbe, in sostanza, fungere da massimo rappresentante del potere giudiziario, equilibrando quello dell’esecutivo diretto dal Presidente, e di quello legislativo del Congresso, interpretando e applicando il diritto federale.

Gli organi d’informazione americani speculano sulla possibile scelta di Obama citando le dichiarazione fatte durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008. Obama sostenne, lo scorso ottobre, che per la nomina di un giudice per la Corte Suprema, avrebbe scelto “qualcuno che rispettasse la legge, che non credesse che il suo ruolo è di legiferare, che avesse anche un’idea di quello che sta succedendo nel mondo reale, e che riconoscesse che uno dei ruoli principali delle corti è proteggere chi non ha una voce”.

Durante una conferenza stampa tenuta il primo maggio, Obama ha spiegato che sceglierà qualcuno “che ha non solo una mente brillante e indipendente, con un’esperienza marcata dall’eccellenza e dall’integrità, ma che manifesta anche la qualità dell’empatia”. Obama cerca qualcuno che “capisce che la giustizia non è un’astratta teoria legale o una nota in fondo ad una pagina in un libro di casi giudiziari”. Il presidente vorrebbe qualcuno che capisce come la giustizia e le leggi influenzano la realtà quotidiana delle persone comuni, impegnate a guadagnare da vivere per sostenere le proprie famiglie. Obama cerca, in breve, una persona compassionevole nei confronti dell’americano comune. Leggi tutto l’articolo