Tony Quattrone è stato eletto rappresentante del Partito Democratico USA in Italia dal marzo 2015 al marzo 2017 (Democrats Abroad Italy-Chair). Ora vive a Houston, Texas, dove milita nel Partito Democratico della Contea di Harris.
Ha vissuto in Italia per quasi 50 anni, dove ha lavorato prima per i programmi universitari del Dipartimento della Difesa USA, e poi come Capo delle Risorse Civili del Comando NATO di Napoli. Ha pubblicato oltre 200 articoli in italiano per diverse testate (Quaderni Radicali, Il Denaro, L'Avanti, ecc.) ed è stato intervista più volte dalla RAI e altre emittenti in Italia a proposito delle elezioni USA.
Repubblicani Usa allo sbando: a chi la leadership del partito?
FILE - In this Jan. 13, 2009 file photo, conservative talk radio host Rush Limbaugh talks with former Defense Secretary Donald H. Rumsfeld in the East Room of the White House in Washington. Dick Cheney made clear on 10 May 2009 he'd rather follow firebrand broadcaster Rush Limbaugh than former Joint Chiefs chairman Colin Powell into political battle over the future of the Republican Party. (AP Photo/J. Scott Applewhite, FILE)
Anthony M. Quattrone
La sconfitta subita nei turni elettorali del 2006 e del 2008 da parte del Grand Old Party (GOP), come è chiamato il partito repubblicano americano, ha scatenato una profonda lacerazione fra conservatori moderati e quelli più oltranzisti. La conquista da parte dei democratici del Congresso nel 2006, e della presidenza nel 2008, con la vittoria di Barack Obama contro il repubblicano John McCain, ha scosso il GOP fino alle sue fondamenta.
L’ala oltranzista del GOP lamenta l’abbandono da parte del partito di una linea a difesa dei valori legati alla patria, la religione, e alla famiglia. I moderati controbattono che il partito dovrebbe tentare di allargare la sua base, cercando di non cadere nell’estremismo, in particolare sulle questioni che toccano le opinioni etiche, che, di solito, per i conservatori liberali sono considerati strettamente personali. E così, mentre il conservatore moderato è disponibile ad aprire un dibattito con l’amministrazione Obama su qualsiasi tema, l’estremista pone un rifiuto categorico a qualsiasi discorso con l’amministrazione, tacciata di propensioni al socialismo.
Gli americani hanno seguito con stupore gli attacchi che l’ex vice presidente, Dick Cheney, e il commentatore radiofonico, Rush Limbaugh, hanno condotto contro l’ex Segretario di Stato del primo governo Bush, il generale Colin Powell, durante il corso delle ultime settimane. Cheney è arrivato a chiedersi, durante un programma televisivo nazionale, se Powell era ancora un repubblicano, o se aveva, di fatto, abbandonato il partito, quando aveva annunciato che avrebbe votato per Obama durante le elezioni dello scorso novembre. Limbaugh è andato oltre, definendo Powell un voltagabbana, e il candidato repubblicano alle scorse presidenziali, McCain, un falso repubblicano. Leggi tutto l’articolo
US President Barack Obama signs the Credit Card Accountability, Responsibility and Disclosure (CARD) Act, surrounded by lawmakers, in the Rose Garden at the White House. Obama Friday signed sweeping credit card reforms into law, aiming to shield consumers from predatory fees and shock rate hikes, despite complaints from the industry. (AFP/Nicholas Kamm)
Il presidente americano Barack Obama è partito all’attacco del sistema dei soldi di “plastica”, come sono chiamate le carte di credito sull’altra sponda dell’Atlantico. Oggi (ndr: venerdì, 22 maggio 2009), alle 21 ore italiane, durante una cerimonia ufficiale alla Casa Bianca, dovrebbe firmare una legge approvata questa settimana dal Congresso per garantire più trasparenza e maggior controllo nell’emissione delle carte di credito.
Le nuove regole, che andranno in vigore nel febbraio del 2010, prevedono un periodo di preavviso di 45 giorni, con una comunicazione chiara e semplice, per qualsiasi aumento degli interessi a debito o nuove penali per il cliente. E’ previsto anche l’obbligo da parte degli istituti finanziari di rendere più trasparenti e comprensibili tutte le condizioni per l’erogazione di una carta di credito, e l’eliminazione di alcune clausole vessatorie. La legge approvata dal Congresso prevede anche misure contro le attività di marketing nei confronti di ragazzi sotto 21 anni d’età, obbligando gli istituti finanziari alla maggiore prudenza nell’emissione delle carte di credito.
Sono oltre 700 milioni le carte di credito in circolazione negli Stati Uniti. In media, ogni cittadino americano ha 2,3 carte di credito a testa. Il settantotto percento delle famiglie americane ne ha almeno una. Le famiglie in ritardo nei pagamenti per gli acquisti fatti con una carta di credito, hanno, in media, 5.700 euro di debito nei confronti degli istituti finanziari. Secondo la Federal Reserve, gli americani hanno un debito attivo di quasi 1.900 miliardi d’euro, con l’esclusione dei mutui sulle case. Al 31 marzo 2009, il debito per le sole carte di credito è pari a ben 730 miliardi. In breve, escludendo il debito pubblico, ogni cittadino americano, adulto o bambino, occupato o disoccupato, ha, in media, un debito personale che si aggira attorno ai sei mila euro, non contando il debito dovuto per i mutui per l’acquisto degli immobili.
La facilità con cui si poteva ottenere, fino a poco tempo fa, una carta di credito negli Usa, ha creato una vera dipendenza se non addirittura un’assuefazione da parte dei consumatori americani, nei confronti dei soldi di plastica. Le organizzazioni dei consumatori hanno spesso lamentato che gli allegati dei contratti per l’emissione delle carte, fossero poco trasparenti, inique e piene di clausole vessatorie. In caso di ritardato pagamento, scattano forti penali e un generale innalzamento dei tassi d’interesse. I documenti contrattuali sono scritti in un linguaggio indecifrabile per un cittadino medio americano, usando un carattere minuscolo, illeggibile ad occhio nudo. I contratti sono lunghissimi, scritti con tante parti, da scoraggiare la lettura anche da parte di un professore di economia. Il 23 aprile 2009, il presidente Obama, dopo un incontro alla Casa Bianca con i rappresentanti dei maggiori istituti finanziari, ha stabilito alcune priorità per la riforma del sistema delle carte di credito. Il presidente ha chiesto, appunto, l’uso di un linguaggio semplice, con caratteri di stampa più leggibili, e l’eliminazione di molte clausole vessatorie nei contratti per l’erogazione di una carta. Leggi tutto l’articolo
President Barack Obama met with healthcare stakeholders in the Roosevelt Room at the White House on May 11, 2009. Photo from www.healthreform.gov.
L’impegno elettorale del presidente Barack Obama di riformare il sistema sanitario americano sembrava dover passare in secondo piano rispetto ad altri temi come la crisi economica e l’impegno militare in Iraq ed in Afghanistan. Nei primi cento giorni della sua amministrazione, Obama ha effettivamente dedicato il grosso del suo impegno proprio all’economia e alle due guerre in corso.
Dietro le quinte, tuttavia, i suoi collaboratori hanno intrecciato una fitta rete di contatti con chi fornisce prestazioni sanitarie, con chi le finanzia, e con i fruitori delle prestazioni. L’obiettivo dello staff del presidente era ed è quello di evitare che Obama finisse nelle trappole in cui sono caduti i coniugi Clinton nel 1992, durante l’ultimo tentativo dei democratici di riformare la sanità. Il presidente Bill Clinton e sua moglie Hillary riuscirono ad alienare tutte le parti interessate alla riforma, quando, nell’arco di poche settimane proposero, per poi abortire, una proposta di riforma confusa, non condivisa, e facilmente attaccabile sia dall’industria medica, sia dalle assicurazioni sanitarie.
E’ da diversi mesi che l’amministrazione Obama utilizza ogni occasione possibile per collegare l’alto costo della spesa sanitaria con la crisi economica. La spesa sanitaria degli americani ammonterà a circa 40 mila miliardi di dollari nell’arco dei prossimi dieci anni. Secondo Obama e i democratici nel Congresso, la riduzione del costo della salute potrebbe contribuire ad influenzare in modo decisivo l’andamento dell’economia americana, incidendo in particolare sia sul costo del lavoro, per chi ha un’assicurazione medica aziendale, sia sulle spese sostenute dagli enti federali e statali, per chi ha diritto all’assistenza pubblica.
Il primo risultato del lavoro tessuto dai collaboratori di Obama è la riunione che il presidente ha presieduto lunedì, 11 maggio 2009, alla Casa Bianca, fra i rappresentanti delle assicurazioni mediche, delle organizzazioni degli enti ospedalieri, delle associazioni dei medici, dell’industria farmaceutica, dei produttori delle attrezzature mediche, dei rappresentanti degli imprenditori, dei sindacati, e delle associazioni dei pazienti, cogliendo di sorpresa gli osservatori politici Usa. Leggi tutto l’articolo
The current United States Supreme Court, the highest court in the United States in a 2006 photo by Steve Petteway. Top row (left to right): Associate Justice Stephen G. Breyer, Associate Justice Clarence Thomas, Associate Justice Ruth Bader Ginsburg, and Associate Justice Samuel A. Alito. Bottom row (left to right): Associate Justice Anthony M. Kennedy, Associate Justice John Paul Stevens, Chief Justice John G. Roberts, Associate Justice Antonin G. Scalia, and Associate Justice David H. Souter, who has resigned on 1 May 2009.
Su nove giudici, uno è dimissionario e 5 hanno superato settanta anni d’età
Anthony M. Quattrone
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, potrà influenzare la composizione della Corte Suprema americana per il prossimo ventennio attraverso la probabile sostituzione di diversi giudici che, durante il suo mandato, potranno decidere di ritirarsi per motivi d’età. Dei nove giudici che compongono la Corte Suprema, quattro sono settantenni, mentre uno ha raggiunto gli 89 anni d’età. In America, i giudici della massima Corte hanno dei mandati a vita, su nomina del Presidente, con la conferma del Senato. La Corte è abitualmente chiamata ad interpretare le leggi riguardanti temi etici, quelli sui diritti civili, e quelli sui rapporti fra le diverse istituzioni e apparati dello Stato.
Il primo giudice da sostituire è David Souter, sessantanove anni, il quale ha annunciato le sue dimissioni il primo maggio. Il presidente repubblicano George H. W. Bush aveva nominato Souter alla Corte Suprema nel 1990, perchè era convinto che il giudice fosse un “conservatore puro”. Durante il corso degli ultimi anni, tuttavia, Souter ha votato diverse volte assieme alla minoranza progressista nella massima Corte, specialmente sui temi inerenti ai poteri presidenziali, la pena capitale, l’aborto, e i diritti delle minoranze. Pertanto, la scelta di Obama, il quale sarà sicuramente orientato verso un progressista, non dovrebbe alterare l’attuale equilibrio politico della Corte, dove i conservatori sono la maggioranza. Sette giudici nominati da presidenti repubblicani e due dal democratico, Bill Clinton, compongono l’attuale Corte Suprema.
Il sistema della separazione dei poteri e del loro bilanciamento, prevista dai Padri fondatori della Costituzione americana, assegna alla Corte un ruolo che dovrebbe, almeno in teoria, esimersi dalla politica corrente. La Corte dovrebbe, in sostanza, fungere da massimo rappresentante del potere giudiziario, equilibrando quello dell’esecutivo diretto dal Presidente, e di quello legislativo del Congresso, interpretando e applicando il diritto federale.
Gli organi d’informazione americani speculano sulla possibile scelta di Obama citando le dichiarazione fatte durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008. Obama sostenne, lo scorso ottobre, che per la nomina di un giudice per la Corte Suprema, avrebbe scelto “qualcuno che rispettasse la legge, che non credesse che il suo ruolo è di legiferare, che avesse anche un’idea di quello che sta succedendo nel mondo reale, e che riconoscesse che uno dei ruoli principali delle corti è proteggere chi non ha una voce”.
Durante una conferenza stampa tenuta il primo maggio, Obama ha spiegato che sceglierà qualcuno “che ha non solo una mente brillante e indipendente, con un’esperienza marcata dall’eccellenza e dall’integrità, ma che manifesta anche la qualità dell’empatia”. Obama cerca qualcuno che “capisce che la giustizia non è un’astratta teoria legale o una nota in fondo ad una pagina in un libro di casi giudiziari”. Il presidente vorrebbe qualcuno che capisce come la giustizia e le leggi influenzano la realtà quotidiana delle persone comuni, impegnate a guadagnare da vivere per sostenere le proprie famiglie. Obama cerca, in breve, una persona compassionevole nei confronti dell’americano comune. Leggi tutto l’articolo
Popolarità ai massimi storici per il presidente americano
President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young
Anthony M. Quattrone
I primi cento giorni della presidenza di Barack Obama sono stati caratterizzati dalla frenetica attività del giovane presidente e di tutto il suo governo, nel portare avanti un programma di cambiamento nella politica americana. La data dei primi cento giorni non ha nessun riferimento legale o istituzionale in America, ma è diventato un punto di riferimento per comprendere lo stile, e per tracciare alcune traiettorie che andranno a caratterizzare i rimanenti tre anni e nove mesi di un primo mandato presidenziale.
E’ con la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che gli americani sentirono parlare, per la prima volta, dei “primi cento giorni” di una presidenza, perché il nuovo presidente, proprio all’inizio della sua amministrazione, lanciò un rilevante numero di nuovi programmi, particolarmente audaci, per risollevare l’America della Grande Depressione. Roosevelt, come Obama oggi, si trovò ad affrontare una forte crisi bancaria ed un’enorme massa di americani senza lavoro. Nel caso di Roosevelt, però, il periodo dei cento giorni non partì con l’inaugurazione del 20 gennaio 1933, ma dall’inizio del mese di marzo e si concluse a metà giugno. Gli storici dibattono ancora sulla reale utilità delle misure economiche attuate da Roosevelt, ma nessuno nega l’importanza dello stimolo psicologico che l’attivismo presidenziale creò, e che, senza dubbio, aiutò il paese a risorgere.
Solo il presidente Ronald Reagan, nei primi cento giorni della sua presidenza, dal 20 gennaio al 29 aprile 1981, riuscì ad eguagliare Roosevelt nell’implementare un radicale cambio di rotta, tale da risollevare il paese dalla stagnazione, che si manifestava non solo in campo economico, ma forse anche in quello militare, con riflessi nella politica estera. Nell’arco dei primi 100 giorni, Reagan riuscì a far approvare dal Congresso il taglio delle tasse, nuove priorità di spesa, e una generale capitalizzazione del bilancio della difesa. Molti opinionisti americani attribuiscono a Reagan il merito di un lungo periodo di crescita dell’economia americana, e anche lo sgretolamento dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia.
Obama, come Roosevelt 76 anni fa, cerca di riformare il capitalismo americano per salvarlo, non per sovvertirlo. Secondo il professor Allan Lichtman dell’American University, “Obama ha attuato grandi cambiamenti, ma sempre all’interno del normale arco conservatore-progressista. Si, il pendolo è oscillato, ma dalla corrente principale conservatrice, a quella principale del liberalismo”. Obama non ha nazionalizzato le banche, ma ha negoziato l’acquisto dei loro titoli “tossici”. Obama non cerca di sostituire le assicurazioni mediche private con un’assicurazione governativa, ma cerca di mettere proprio le assicurazioni al centro del nuovo piano che dovrebbe garantire a tutti gli americani la copertura sanitaria. E anche sulla questione delle tasse, Obama non vuole alzare le tasse per il 95 percento degli americani, ma solo per il 5 percento, riportandoli alle quote pagate quando era presidente il repubblicano, idolo dei conservatori, proprio Ronald Reagan.
Secondo William Galston, un ricercatore della Brookings Institution, un ex collaboratore del presidente democratico Bill Clinton, “Obama è un Reagan con il segno negativo”. Per il ricercatore, oggi Obama “sta tentando di disfare e annullare il reaganismo e Reagan stesso”, così come Reagan tentò di smontare completamente il sogno del presidente democratico Lyndon B. Johnson, di creare una “Grande Società” americana, finanziata dal governo. In pratica, Obama sta cercando di invertire un detto di Reagan, che stabiliva che “il governo non è parte della soluzione, ma è il problema”. Oggi, anche per molti conservatori americani, con l’eccezione dei liberisti puri, il governo non è il problema, ma è necessariamente l’ancora di salvezza dell’economia. Le differenze fra conservatori e liberal riguardano, semmai, più il grado dell’intervento governativo, ma non dell’intervento stesso. Leggi tutto l’articolo
Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press
Pubblicata la corrispondenza segreta che autorizzava la tortura
Anthony M. Quattrone
L’American Civil Liberties Unionaveva chiesto ufficialmente al governo americano di rendere pubblica la corrispondenza segreta dell’amministrazione del presidente George W. Bush riguardante l’uso di metodi di interrogazione particolarmente duri, che erano stati autorizzati a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Il presidente Barack Obama, ha dato l’autorizzazione, il 16 aprile 2009, per la pubblicazione della corrispondenza relativa alle opinioni legali espresse dal ministero della giustizia nel 2005.
Dopo la pubblicazione della corrispondenza, politici, giornalisti, funzionari governativi, militari, ex agenti della Cia, opinionisti, e semplici cittadini stanno partecipando in un ampio dibattito che si sta sviluppando attraverso tutti gli organi d’informazione, nelle università, e nelle istituzioni dello Stato, scatenando passioni estreme sia a destra, sia a sinistra. A destra si accusa il presidente di aver danneggiato la sicurezza del paese attraverso quest’atto di trasparenza. A sinistra, Obama è accusato di complicità con chi ha ordinato ed eseguito interrogatori che rasentano la tortura, perchè si rifiuta, per il momento, di prendere iniziative legali nei confronti di alcuni membri della precedente amministrazione di George W. Bush, e, in particolare, contro i più alti funzionari degli organismi della sicurezza.
La polemica sulla divulgazione della corrispondenza della Cia e sulla punibilità di chi ha ordinato ed eseguito gli interrogatori che oggi sono sotto accusa, non riesce però a mettere in secondo piano un dibattito ancora più importante sul rapporto fra valori e sicurezza. Sono molti gli americani che si chiedono se la necessità di garantire la sicurezza nazionale può essere usata come motivo per violare alcuni valori basilari della cultura americana, come la ripugnanza per ogni forma di tortura e il rispetto per la dignità umana, anche per quella del peggiore nemico degli Usa.
L’apparente dicotomia fra sicurezza nazionale e il concetto di stato di diritto è evidenziato in tutti i dibattiti in corso. Da un lato ci sono i rappresentanti dell’amministrazione Bush, come l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, e l’ex ministro della giustizia, Michael B. Mukasey, i quali hanno sottolineato in un articolo scritto per il Wall Street Journal del 17 aprile 2009, intitolato “Il presidente si lega le mani sul terrore”, che i metodi adottati per gli interrogatori erano legittimi e hanno funzionato. Il capogruppo repubblicano della Camera, John Boehner, ha dichiarato che la pubblicazione della corrispondenza sui sistemi d’interrogatorio è stata fatta senza prendere in considerazione quanto ha compiuto il governo Bush per rendere sicuro il paese, e che Obama farebbe bene a concentrarsi su come continuare a tenere l’America sicura. L’ex vice presidente Dick Cheney, uno dei fautori dell’uso di metodi d’interrogatorio duri, afferma che proprio attraverso l’uso di questi interrogatori, l’America è riuscita ad ostacolare i piani dei terroristi di Al Qaeda per effettuare altri attacchi sul territorio Usa.
Dall’altro lato, ci sono i deputati e i senatori democratici che vogliono aprire inchieste proprio su come il governo Bush sia arrivato alla decisione di autorizzare metodi d’interrogatorio che rasentano, a loro dire, la tortura. La senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha dichiarato che la sua commissione, quella dell’Intelligence, ha già iniziato un’indagine a tale proposito. Alcuni membri del Congresso vorrebbero la creazione di una “Truth Commission” (una commissione verità), per portare alla luce sia la procedura decisionale, sia le fondamenta legali su cui si sono basate le autorizzazioni date alla Cia e ad altri organismi che hanno partecipato negli interrogatori di prigionieri sospettati di essere terroristi. Leggi tutto l’articolo
President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)
Anthony M. Quattrone
Con la canzone “South of the Border” (A sud della frontiera) del 1939, resa famosa nella versione di Frank Sinatra nel 1953, e con cartoni animati come Speedy Gonzales (il “topo più veloce del Messico”), due o tre generazioni di americani sono cresciute con un’immagine molto romanzata, e poco veritiera del Messico. La città di Tijuana, oltre il confine fra la California e il Messico, era famosa già negli anni venti, in pieno proibizionismo, ed erano tantissimi gli americani che passavano weekend edonistici “south of the border”, dove si poteva bere alcol e giocare nei famosi casinò come l’Agua Caliente. Nell’immaginario collettivo americano, il Messico ha rappresentato, o forse rappresenta ancora per alcuni, una dimensione più umana e “lenta” del vivere quotidiano, dove pane, amore, e fantasia regnano, e la frenesia della vita moderna passa in secondo ordine.
La notizia, riportata con grande risalto dalla stampa Usa, che circa 11 mila persone sono state uccise in Messico dal dicembre 2006 ad oggi a causa della guerra fra bande di trafficanti di droga per il controllo del mercato Usa, e fra queste bande e le forze di sicurezza messicane, sta portando alla luce la dura realtà a sud della frontiera. Il presidente Barack Obama si è fermato ieri a Mexico City, in occasione del viaggio verso Trinidad e Tobago, dove si svolgerà oggi il quinto Summit delle Americhe, per incontrare il presidente messicano Calderón, e manifestargli il suo appoggio nella lotta contro i cartelli della droga. Prima di partire, Obama ha preso diverse iniziative per mostrare il suo sostegno a Calderón. Il presidente ha nominato Alan Bersin, un ex procuratore federale, al ruolo di “zar” della frontiera, dove avrà il compito di lavorare con le autorità messicane per controllare meglio la lunga e porosa frontiera fra i due paesi. L’amministrazione Obama ha aggiunto i cartelli di Sinaloa, Los Zetas, e La Famiglia Michoacana, alla lista di pericolose organizzazioni criminali internazionali coinvolte nel traffico di narcotici. Con quest’atto formale, il governo americano potrà sequestrare conti bancari e proprietà di questi cartelli negli Usa, o delle persone a loro legati.
E’ interessante notare che, mentre fino a qualche tempo fa, erano gli americani che chiedevano di rendere la frontiera meno permeabile, cercando di impedire l’arrivo di milioni di immigranti illegali dal Messico e fiumi di droga provenienti dall’America Latina, ora sono le autorità messicane che chiedono più controlli per impedire l’afflusso di armi americane, che finiscono per rinforzare gli apparati paramilitari dei cartelli della droga.
Secondo un articolo dell’International Herald Tribune del 15 aprile, che cita fonti del ministero della giustizia Usa, novanta percento delle 10 mila armi che sono state sequestrate in Messico l’anno scorso, proviene dagli Stati Uniti, particolarmente dall’Arizona, dal Texas, e dalla California. In molti casi, le armi sequestrate sono di qualità superiore a quelle in dotazione alle stesse forze armate messicane, e sono, ovviamente, impiegate dai cartelli della droga. Leggi tutto l’articolo
Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)
Anthony M. Quattrone
La razionalizzazione del bilancio di previsione per il Dipartimento della difesa americano per il prossimo anno fiscale, che negli Usa inizia il primo ottobre, sarà una nuova ardua sfida per il presidente Barack Obama. E’ in corso un durissimo braccio di ferro fra il Segretario della difesa, Robert Gates, e le potenti lobby che rappresentano gli interessi dell’immenso apparato industriale – militare, le quali, in America, hanno la capacità di influenzare, attraverso vari meccanismi, trasparenti e non, l’intera procedura decisionale concernente la sicurezza nazionale.
Se da un lato, Gates cerca di creare una concordanza fra le reali necessità del Dipartimento della difesa e le voci di spesa, dall’altro, le lobby cercano di influenzare le decisioni attraverso una campagna d’informazione nei confronti dell’opinione pubblica utilizzando due temi particolarmente sensibili e correnti in questo momento: la sicurezza nazionale e la difesa dei posti di lavoro. Il Segretario Gates parte in svantaggio nel portare avanti la razionalizzazione, perché, da un punto di vista istituzionale, non è l’esecutivo, di cui fa parte, bensì il legislativo che controlla le stringhe della borsa della spesa. Pertanto, negli Usa, quando le lobby trovano ostacoli nel convincere i militari a fare alcune spese, come l’acquisizione di sistemi d’arma totalmente inutili, cercano di influenzare i membri del Congresso che alla fine dovranno approvare il bilancio. E così, anche un progetto molto analitico e razionale, proposto dai vertici delle forze armate, potrebbe essere svilito attraverso delle “earmarks” (“segnalibri”), apposti da deputati e senatori, direttamente influenzati dalle lobby.
Gates vorrebbe ridurre la spesa per quegli armamenti che sono necessari per combattere guerre di tipo convenzionale, e aumentare, invece, la capacità dei militari americani nell’affrontare le forze e le tattiche di combattimento non convenzionali, come quelle utilizzate in Afghanistan ed in Iraq. Nel tentativo di razionalizzare la spesa, Gates ha proposto, per esempio, di ridurre la commessa per il caccia F-22, dall’attuale previsione di 381 esemplari a 187, che costano circa 80 milioni di euro cadauno, non solo per rendere disponibili più risorse per acquistare armamenti necessari per la guerra non convenzionale, ma anche perché è già in corso la produzione del caccia F-35, più moderno ed economico dell’F-22. La decisione di Gates è stata immediatamente contrastata dai membri del Congresso eletti in Georgia, dove la produzione dell’F-22 crea occupazione per due mila lavoratori. Il deputato repubblicano della Georgia, Tom Price, ha dichiarato che “questa decisione causerà non solo la perdita di migliaia di posti di lavoro durante un periodo critico, ma danneggia anche le risorse a disposizione per la difesa nazionale”. Il senatore repubblicano della Georgia, Saxby Chambliss è dell’opinione che “l’amministrazione Obama è disposta a sacrificare le vite dei militari americani pur di finanziare programmi domestici sostenuti dal presidente”. Il deputato democratico della Georgia, Ike Skelton, presidente della Commissione difesa della Camera, fa quadrato con i colleghi repubblicani del suo stato, indicando che in ultima analisi sarà il Congresso, e non il Dipartimento della difesa, che dovrà decidere sulla spesa. In breve, la riforma del bilancio della Difesa è una strada tutta in salita per l’amministrazione Obama. Leggi tutto l’articolo
Obama non esclude l’uso della forza in Asia centrale
U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs
Anthony M. Quattrone
E’ noto che gli americani adorano creare acronimi ogni volta che possono abbreviare un titolo troppo lungo, o anche quando hanno difficoltà nel pronunciare qualche parola con troppe sillabe. Qualche volta un acronimo serve anche per creare nuovi slogan, parole d’ordine, o per ripresentare qualcosa di vecchio con un nome diverso.
Il presidente americano Barack Obama usa l’acronimo Af-Pak per designare la zona geografica che comprende l’Afghanistan ed il Pakistan, e ha designato il diplomatico di carriera, l’ambasciatore Richard Holbrooke, come suo speciale rappresentante per quella zona. Nel creare l’acronimo Af-Pak, la nuova amministrazione Usa focalizza la sua politica contro il terrorismo internazionale proprio sul rapporto stretto che c’è fra i due paesi che condividono una frontiera tanto lunga, quanto permeabile, creando una visione d’indivisibilità dei loro destini.
E così, i cittadini americani sentiranno sempre di più i commentatori televisivi e radiofonici parlare di Af-Pak, e leggeranno sui giornali quest’acronimo, perché è l’intenzione di Obama portare la guerra contro il terrorismo proprio nell’Af-Pak, con molta più forza di quanto abbia fatto il suo predecessore. La novità della strategia di Obama è che il presidente sembrerebbe non escludere la possibilità che le forze Usa dislocate in Afghanistan potrebbero, se necessario, sconfinare all’interno del Pakistan per dare la caccia ad al Qaeda, e che, nel frattempo vanno moltiplicati tutti gli interventi per catturare la simpatia degli afgani e dei pakistani attraverso iniziative che mirano direttamente a migliorare le condizioni di vita di entrambi i popoli. Secondo il piano del presidente, un primo intervento prevede che centinaia di consiglieri civili (esperti in agricoltura, didattica, legge, ecc.) partiranno per l’Afghanistan proprio per lavorare sul miglioramento delle condizioni di vita del popolo.
L’amministrazione Obama accusa il precedente governo del presidente George W. Bush, di essersi fatto distrarre dalla questione irachena, completamente sottovalutando la situazione nell’Af-Pak. Per molti osservatori Usa, la decisione di trasferire il grosso delle truppe e delle risorse americane dall’Afghanistan all’Iraq, dal 2003 in poi, ha permesso ai Taleban di riconquistare territori lungo il confine Af-Pak, causando il graduale, ma costante deterioramento della situazione nell’Afghanistan, ricreando una condizione favorevole alla guerriglia contro il governo del paese, e permettendo anche il rafforzamento della presenza di al Qaeda oltre il confine.
L’amministrazione Obama vorrebbe affrontare in modo decisivo la questione Af-Pak, con un approccio che abbini l’uso della forza militare in combinazione con massicci interventi nel campo civile. Il 27 marzo 2009, Obama ha annunciato l’invio d’altri 4.000 militari in Afghanistan, in aggiunta ai 17 mila già pianificati a febbraio, per “sconvolgere, smantellare, e sconfiggere” la rete di al Qaeda in Afghanistan ed in Pakistan e per “prevenire il ritorno dei terroristi in entrambi i paesi nel futuro”. Le nuove truppe dovrebbero addestrare la polizia e le forze armate afgane, con l’intento di creare le condizioni per aumentare il numero dei militari afgani dalle 83.000 unità di oggi, a 134.000 entro la fine del 2011. Leggi tutto l’articolo
President Barack Obama speaks during a news conference, Tuesday, March 24, 2009, in the East Room of the White House in Washington. (AP Photo/Ron Edmonds)
Anthony M. Quattrone
L’attuale crisi economica sta portando alla superficie alcune contraddizioni interne alla società americana, legate direttamente alla cultura dell’eccesso, che potrebbero portare ad una crisi culturale e strutturale di portata storica, se non sono risolte in modo soddisfacente. Lo scandalo degli eccessi legati agli stipendi milionari di quei manager, che, apparentemente, hanno portato allo sfascio le maggiori imprese finanziarie americane, è costantemente all’attenzione dell’opinione pubblica americana.
Sarà interessante vedere come la leadership americana, intesa in senso lato, riuscirà a trovare un nuovo equilibrio fra diritti civili e solidarietà, da un lato, e iniziativa privata e merito dall’altro.
La cultura dominante in America, quella del cosiddetto “mainstream”, è anche il risultato della mediazione costante fra questi quattro concetti. La mediazione culturale realizza sia nella politica, sia nella vita di tutti i giorni, un equilibrio fra la necessità di garantire i diritti civili e la solidarietà, alla base della stessa cultura democratica americana, d’ispirazione giudaico-cristiana, e la promozione dell’iniziativa privata e del merito, caratteristiche specifiche del pensiero cristiano-protestante, e considerate centrali per l’avanzamento della società americana. E’ durante un periodo di crisi economica particolarmente grave, come quella in atto, che l’equilibrio fra diritti civili e solidarietà da un lato, e iniziativa privata e merito dall’altro, è messo duramente alla prova, mettendo in crisi lo stesso modello di vita americano.
La differenziazione politica fra democratici e repubblicani, fra liberal e conservatori, non sempre segue traiettorie facilmente rintracciabili nei quattro concetti, e, spesso, le differenze sono sfumature piuttosto che vere contrapposizioni. E’ difficile trovare in America un movimento di dimensione nazionale che non ha al suo interno chi abbraccia posizioni che sembrerebbero contraddittorie dal punto di vista della contrapposizione, per esempio, fra gli interessi legati alla solidarietà e quelli legati al merito. E’ facile trovare nella destra americana chi spinge per un liberismo puro, mentre propone misure private per aiutare chi è in difficoltà. E a sinistra c’è chi legifera la solidarietà con fondi pubblici, con decreti a protezione delle entrate economiche per i più deboli, mentre favorisce politiche economiche legate al liberismo più sfrenato. La mancanza di partiti ideologici in America porta all’affievolirsi delle differenze fondamentali fra i partiti per quanto riguarda i concetti generali su cui si fonda il paese, mentre, di volta in volta, è probabile che, durante particolari momenti storici, gli accenti su un tema concernente i diritti civili, la solidarietà, l’impresa privata, o il merito possono prendere il sopravvento nel paese, creando nuovi equilibri.
L’iniziativa privata e il concetto del merito hanno ripreso vigore in America negli anni ottanta con la presidenza repubblicana di Ronald Reagan, alle volte mettendo in dubbio anche alcuni diritti sociali e di solidarietà acquisiti nei cinquanta anni precedenti. Neanche Bill Clinton, l’unico democratico eletto dopo la presidenza Reagan, è riuscito a riportare l’accento del paese sui diritti e la solidarietà, anche perchè il generale benessere creato dalla favorevole congiuntura economica durante la sua presidenza, creava meno richieste di solidarietà. Con l’avvento del repubblicano George W. Bush alla presidenza nel 2001, l’impresa privata ha potuto godere di una presenza benevola alla Casa Bianca, sia per le politiche fiscali favorevoli all’impresa e ai grandi investitori, sia per le aperture nei confronti dell’impresa privata, anche in quei settori che prima erano di specifica competenza dello Stato, come nel caso della privatizzazione di alcune attività delle forze armate. Leggi tutto l’articolo