La destra repubblicana boccia Mitt Romney

Anthony M. Quattrone

L'ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, il 21 gennaio 2012 durante le primarie del South Carolina (AP Photo/Charles Dharapak)

Superando ampiamente il vantaggio già previsto dai sondaggi, l’ex presidente della Camera americana, Newt Gingrich, ha vinto la terza tappa delle primarie repubblicane, quelle svolte in South Carolina il 21 gennaio 2012, ottenendo 40,4 percento del voto, battendo l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, che ha registrato 27,8 percento.  Il terzo posto è andato all’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum con 17 percento, mentre al quarto posto si è posizionato il deputato del Texas, Ron Paul, ispiratore del movimento ultra conservatore “Tea Party” con 13 percento.

Il voto degli elettori repubblicani del South Carolina conferma che Romney non è particolarmente gradito alla destra conservatrice ed evangelica.  Infatti, Gingrich e Santorum, due candidati che hanno l’appoggio della destra conservatrice e degli evangelici, hanno sommato 57 percento in South Carolina.

Ora, nella gara per l’assegnazione dei 2.286 delegati che avranno il diritto di voto durante la “convention” repubblicana che si terrà il 27 agosto 2012 a Tampa, in Florida, il favorito, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, potrà contare su 33 delegati, seguito da Gingrich con 25, da Santorum con 14 e Ron Paul, con 4.

Nelle prime tre competizioni elettorali, gli elettori repubblicani hanno dato la vittori a tre diversi candidati.  Nella prima gara, quella svolta in Iowa il 3 gennaio 2012, in un primo momento la vittoria era stata data a Romney per 8 voti, ma, dopo un riconteggio, Santorum si è aggiudicato la competizione con 34 voti di scarto.  Nella seconda gara, nel New Hampshire, Romney ha battuto Ron Paul per 39,3 a 22,9 percento, in linea con quanto previsto dai sondaggi.  Con la conclusione della terza competizione in South Carolina, sono rimasti in gara Romney, Gingrich, Santorum, e Ron Paul, mentre si sono ufficialmente ritirati l’ex presidente della Banca federale di Kansas City, Herman Cain, la deputata del Minnesota, Michele Bachmann, l’ex governatore dello stato dello Utah Jon Huntsman e, poco prima delle primarie in South Carolina, il governatore del Texas, Rick Perry.

La prossima tappa per i candidati repubblicani è la competizione in Florida, che si svolgerà il 31 gennaio 2012, con il meccanismo dell’asso piglia tutto, dove il vincitore si aggiudicherà tutti i 50 delegati in palio.  Nei sondaggi condotti in Florida prima dei risultati delle primarie del South Carolina, Mitt Romney avrebbe 40 percento del gradimento, contro  22 per Newt Gingrich, 15 per Rick Santorum e 9 per Ron Paul.  Secondo quanto riportato dalla Cnn, Romney avrebbe già speso oltre 2 milioni di dollari per spot televisivi in Florida, mentre gli altri candidati non hanno speso nulla, forse perché il meccanismo dell’asso piglia tutto renderebbe inutile investire i fondi elettorali per un secondo o terzo posto.

E’ interessante notare in questa fase come lo staff elettorale del presidente Barack Obama rimodula gli attacchi contro i candidati repubblicani secondo i risultati delle primarie e le rilevazioni dei sondaggi.  Il candidato che preoccupa di più la Casa Bianca rimane Mitt Romney, sia per i risultati dei sondaggi, sia per la forza economica che l’ex governatore del Massachusetts può mettere in campo, ed è contro di lui che si focalizza l’attenzione democratica.  Secondo gli ultimi sondaggi pubblicati da Real ClearPolitics, un generico candidato repubblicano potrebbe battere Obama con uno scarto di 1,2 percento, con 43,6 per un repubblicano contro il 44,2 per Obama.  Invece, quando si raffronta Obama contro un candidato specifico, il presidente è vincente, ma nel caso di Romney, per pochissimo, cioè per 46.9 a 45 percento.  Contro gli altri candidati, il margine a favore di Obama è più tranquillo: contro Gingrich, per 50,6 a 39,6 percento; contro Santorum, per 50,1 a 40,3 percento; contro Ron Pau, per 46,8 a 41,7 percento.

I gruppi democratici hanno inviato milioni di messaggi indirizzati agli elettori indipendenti a proposito della dichiarazione dei redditi di Romney, sollevando grande interesse per la cifra relativamente bassa che l’ex governatore paga in termini percentuali.  Romney, che ha ammesso che paga attorno al 15 percento, è sotto pressione per rendere pubblica la dichiarazione dei redditi del 2011, che normalmente deve essere compilata entro il 15 aprile di ogni anno.  Secondo gli analisti democratici, le proposte fiscali che Obama metterebbe in campo se fosse rieletto e se il suo partito riuscisse a ottenere la maggioranza sia alla Camera, sia al Senato, porterebbero all’aumento delle tasse per i ricchi dal 15 percento al 24.  Le proposte di Romney e degli altri candidati repubblicani, mirerebbero a conservare la tassazione a 15 percento, alzandola per i ceti medi o tagliando ulteriormente le spese del governo federale.

Obama gode in questo momento di un gradimento relativamente basso, attorno a 45 percento, ma molto superiore a quello per il Congresso, che rimane attorno al 13 percento.  Con questo livello di gradimento, Obama deve ottenere il massimo dalle divisioni interne allo schieramento repubblicano, sperando che l’antipatia della destra radicale nei confronti di Romney rimanga alta, così come la paura della destra moderata nei confronti di Gingrich.

Il prossimo evento importante per compiere le rilevazioni sul gradimento nei confronti di Obama sarà il discorso che il presidente americano terrà il 24 gennaio 2012 quando parlerà alla nazione in occasione dell’appuntamento annuale sullo “stato dell’unione”.

Pubblicato da “Il Denaro” il 24 gennaio 2011 con il titolo: Primarie americane, Romney inciampa a destra

La disoccupazione americana scende, Obama cresce nei sondaggi

Gerardo Alvarado (L) and Jeffrey Baltzley work on pipefitting during a class at the Air Conditioning, Refrigeration and Pipefitting Education Center on January 5 in Opa Locka, Florida. The US economy added more jobs in December and the unemployment rate fell again, but economists said big challenges remained to sustaining the jobs market recovery this year. (AFP Photo/Joe Raedle)

Anthony M. Quattrone

Negli ultimi mesi del 2011, il presidente americano Barack Obama è diventato molto più aggressivo e determinato nell’attaccare l’immobilismo e l’ostruzionismo del Congresso americano, dove i repubblicani, che controllano la Camera, riescono a paralizzare quasi tutte le iniziative proposte dalla Casa Bianca.  Obama accusa il Congresso di non essere più capace di risolvere i problemi del Paese, sia per incapacità, sia per interessi di parte.  Obama ha abilmente colto l’occasione che si è presentata a fine dicembre quando l’ostruzionismo di destra rischiava di far saltare alcuni tagli fiscali per il ceto medio.  Il presidente ha suonato l’adunata per i suoi sostenitori, lanciando una fortissima campagna di opinione contro il partito repubblicano, accusandolo di sostenere solo gli americani più ricchi, a discapito delle classi medie.  I deputati e senatori repubblicani hanno suonato la ritirata, votando il 30 dicembre 2011 a favore della proposta fiscale di Obama, dopo aver ricevuto migliaia di telefonate, email e lettere di protesta da parte di elettori inviperiti per la presa di posizione del partito.  Obama ha potuto così rafforzare l’immagine del decisionista che lotta contro la casta di Washington, in nome del popolo americano.

Il presidente è anche partito all’attacco delle spese del Dipartimento della Difesa, dando al Segretario Leon Panetta il difficile compito di individuare una strategia complessiva che permettesse agli Stati Uniti di rimanere la principale potenza militare nel mondo, eliminando sprechi e ridondanze.  Il 5 gennaio 2012, Obama e Panetta hanno presentato la nuova strategia per la Difesa americana, che abbandona, dopo 60 anni, la dottrina delle “due guerre”, ovvero la capacità di combattere guerre separate su due fronti.  Secondo le stime del Dipartimento della Difesa, si dovranno tagliare almeno 450 miliardi di dollari di spesa nei prossimi dieci anni.  Il messaggio che Obama sta facendo trapelare è che gli americani devono concentrarsi sulle spese in patria, mirando a non abbassare la guardia nel campo della sicurezza, attraverso l’efficienza e il vantaggio tecnologico.

Ora Obama sta sfruttando abilmente anche la situazione favorevole che si è creata con le buone notizie sull’andamento dell’economia USA e in particolare sui dati della disoccupazione.  La notizia del 6 gennaio 2012, che la disoccupazione americana è scesa a 8,5 percento, da 9,1 del dicembre 2010, e che nel 2011 sono stati aggiunti oltre 1,5 milioni di posti di lavoro, va letta assieme al miglioramento della fiducia rispetto all’economia espressa dai consumatori americani nei dati riassunti nel “Consumer Confidence Index”, dal 55,2 di novembre al 64.5 di dicembre, superando anche le migliori previsioni degli analisti, che si erano attestate a 59 percento. L’andamento dell’economia e in particolare i dati sulla disoccupazione sono, secondo molti osservatori, i fattori più importanti che possono influenzare come voteranno gli americani il prossimo novembre per le elezioni presidenziali, per rinnovare un terzo del Senato e l’intera Camera.

Mentre Obama costruisce la sua strategia del consenso basandosi sulla lotta contro i vecchi poteri di Washington, sulle buone notizie dall’economia, e sulle proposte a tutela del vastissimo ceto medio americano, i repubblicani sono impegnati, senza esclusioni di colpi, nelle primarie in corso per scegliere il candidato da opporre al presidente democratico in carica il prossimo novembre.  Il 3 gennaio 2012 si sono svolte le primarie in Iowa, dove l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, ha sconfitto l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, per soli otto voti, con 30.015 voti contro 30.007, ottenendo 24,6% contro 24,5% del suo concorrente. Il terzo posto è andato al deputato del Texas, Ron Paul, ispiratore del movimento ultra conservatore “Tea Party” con il 21,4%. Il quarto posto è andato all’ex presidente della Camera, Newt Gingrich. Il governatore del Texas, Rick Perry, è arrivato quinto, ottenendo il 10,3% dei voti.  Gli altri candidati, la deputata del Minnesota, Michelle Bachman, l’ex governatore dello stato dello Utah, Jon Huntsman, e l’ex presidente della Banca federale di Kansas City, Herman Cain non hanno raggiunto nemmeno il 10 percento, con quest’ultimo che ha ottenuto soli 58 voti. Leggi tutto l’articolo

Il Thanksgiving Day americano: festa degli immigrati

Il presidente Obama "grazia" il tacchino "Liberty" alla presenza delle figlie Sasha e Malia, mercoledì 23 novembre 2011. (foto Associated Press)

Anthony M. Quattrone

Il Thanksgiving Day, celebrato negli Stati Uniti ogni anno nel quarto giovedì di novembre, è la festa degli immigrati. E’ una festa speciale perché nasce dal basso e non da una decisione imposta dallo stato o dalle autorità religiose. E’ la festa di un paese di immigranti che ringraziano, chi un dio, chi uno spirito superiore, e chi le semplici circostanze, per aver avuto la possibilità di una nuova vita emigrando dai paesi di provenienza, afflitti da crisi economiche, da carestie, da guerre fratricide, e da persecuzioni religiose, politiche o filosofiche.

La storia, o forse la leggenda, vuole che il “giorno del ringraziamento” nasca nel lontano 1621 quando gli abitanti della colonia di Plymouth, nell’odierna Massachusetts, ringraziarono la Provvidenza per quello che fu il loro primo buon raccolto, ricordando che durante l’inverno precedente la metà della popolazione della colonia perì per stenti e malattie. In quell’occasione, gli immigranti e la popolazione indigena, gli indiani della tribù Wampanoag, festeggiarono assieme, in pace, unendo tradizioni simili, quelle europee e quelle degli indiani d’America, per celebrare la conclusione del periodo della raccolta.

George Washington, il primo presidente americano, recepì il sentimento popolare, e proclamò il primo Thanksgiving Day nazionale, consigliando agli Stati della nuova repubblica americana di celebrarlo il 26 novembre 1789. Il presidente Abraham Lincoln fu il primo presidente ad ufficializzare la festa nazionale del Thanksgiving, quando, in piena Guerra Civile, nel 1863, stabilì di celebrarlo nell’ultimo giovedì di novembre. Il presidente Franklin Delano Roosevelt, quasi ottanta anni più tardi, nel 1939, decise che il Thanksgiving fosse celebrato nel penultimo giovedì di novembre, prolungando il periodo dello shopping natalizio, che tradizionalmente iniziava dopo il ringraziamento, per favorire i commercianti in un’America ancora nel pieno della Grande Depressione.

La decisione di Roosevelt fu ignorata dalla maggior parte degli Stati che continuarono a festeggiare il Thanksgiving nell’ultimo giovedì di novembre, rimanendo fedeli alla decisione di Lincoln. Il compromesso fu raggiunto solo nel dicembre 1941, quando Roosevelt ratificò una decisione del Congresso, stabilendo che la festività federale del Thanksgiving Day fosse celebrata nel quarto giovedì di novembre. Così, quando ci sono cinque giovedì nel mese di novembre, la festività è celebrata nel penultimo giovedì, mentre, quando ce ne sono quattro, la festività si celebra nell’ultimo giovedì del mese. Un compromesso che preserva la tradizione con esigenze puramente economiche.

Nel mondo il giorno del Thanksgiving americano è associato al consumo di tacchino, che la tradizione mette al centro del pranzo del ringraziamento. E’ diventata una tradizione anche la “grazia presidenziale” che il presidente americano concede nel giorno della vigilia al tacchino che gli allevatori donano alla Casa Bianca, destinandolo a un allevamento dove potrà vivere in modo confortevole il resto dei suoi giorni. Quest’anno, il presidente Barack Obama ne ha graziati due durante una piccola cerimonia alla Casa Bianca,  “Liberty” e “Peace”, che sono di 19 settimane e pesano circa 20 kg a testa.

Gli italo-americani, cui la stragrande maggioranza è composta dai discendenti della diaspora causata dalla crisi economica dovuta all’occupazione piemontese dell’ex Regno delle Due Sicilie, hanno integrato il tacchino “americano” nei tipici pranzi festivi delle proprie terre di origine. E così, assieme al tacchino, ci sono lasagne, cannelloni, maccheroni, spinaci, broccoli, fagiolini, e dolci tipicamente meridionali, come le sfogliatelle napoletane e i cannoli siciliani, il tutto con buone dosi di vini italiani. Il pranzo italo-americano del Thanksgiving è, ovviamente, spesso al centro delle trasmissioni televisive, ed è considerato una prelibatezza da imitare e replicare a tutti i costi.

Finito la festa, si torna all’economia: il giorno dopo il Thanksgiving, chiamato “Black Friday” (venerdì nero), decreta l’inizio della periodo dello shopping natalizio, con moltissimi grandi negozi che prolungano l’apertura per la vendita dalle quattro del mattino fino alla mezzanotte, scontando molti prodotti, sperando di portare il foglio contabile in zona positiva, associato al colore nero. Gli americani si augurano che il Thanksgiving 2011, appena celebrato, sia l’ultimo di un periodo molto difficile per il Paese, caratterizzato dalla grande crisi economica in corso, sperando che il Thanksgiving Day del 2012 si possa celebrare con tanti buoni motivi per esprimere un vero e sentito “ringraziamento”.

Pubblicato  da “Il Denaro”il 25 novembre 2011

Mentre i repubblicani discutono, Obama raccoglie fondi

Il candidato repubblicano Newt Gingrich ( al centro) è in vantaggio di pochi punti su Mitt Romney. Fotografia: Chris Keane/Reuters

Anthony M. Quattrone

I due maggiori partiti americani, il democratico e il repubblicano, sono ormai proiettati verso le elezioni del novembre 2012, quando si eleggerà il nuovo presidente, si rinnoverà l’intera Camera, si voterà per un terzo del Senato, e saranno in gara le cariche per tredici governatori di undici stati e due territori. I democratici tenteranno di conservare la Casa Bianca e la maggioranza al Senato, sperando di riconquistare la Camera, persa nelle elezioni di “mid-term” del 2010 e difendere nove cariche di governatore. I repubblicani, sfruttando il malcontento popolare per il perdurare della crisi economica, tenteranno il colpo, spodestando Barack Obama, consolidando le posizioni acquisite alla Camera e cercando di diventare di nuovo la maggioranza al Senato, che hanno perso nel 2006, e di conquistare altre cariche di governatore.

Oggi è particolarmente difficile avanzare pronostici perché se da un lato il Presidente Obama registra un gradimento abbastanza basso, attorno al 44 percento, nessuno dei suoi avversari repubblicani riesce, almeno per ora, a conquistare la simpatia e la fiducia della maggioranza degli elettori. I repubblicani soffrono anche per la bassissima considerazione che gli elettori manifestano nei confronti del Congresso, spesso paralizzato dalla rigidità repubblicana nei confronti di qualsiasi proposta portata avanti dal Presidente Obama o dal gruppo democratico. I sondaggi indicano un gradimento che non supera il 15 percento per il Congresso!

Nei confronti fra Obama e ciascuno dei pretendenti repubblicani, i sondaggi danno il presidente in carica vincente in tutti i casi con margini che vanno dai 14 punti contro la deputata del Minnesota, Michelle Bachman, a quasi 2 punti contro l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney. Obama è in vantaggio contro l’ex presidente della Camera, Newt Gingrich per 7 punti, e contro il deputato del Texas, ispiratore del movimento ultra conservatore “Tea Party”, Ron Paul, per 6 punti. Obama è in vantaggio di 9 punti contro l’ex presidente della Banca federale di Kansas City, Herman Cain, il governatore del Texas, Rick Perry, e l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum. E’ interessante tuttavia, e preoccupante per i democratici, che Obama risulta vincente per meno di un punto percentuale quando nei sondaggi è raffrontato contro un repubblicano generico, senza specificarne il nome. Leggi tutto!

Iraq: finalmente si torna a casa

From the New York Times on 22 October 2011: "After a decade of war, we're turning the page and moving forward," the president told supporters in an e-mail on Saturday. (Photo: Doug Mills/The New York Times)

Anthony M. Quattrone

L’annuncio fatto dal presidente americano, Barack Obama, venerdì 21 ottobre 2011, che gli Stati Uniti ritireranno tutte le truppe dall’Iraq entro il 31 dicembre 2011 ha colto di sorpresa analisti e osservatori. E’ vero che la data del ritiro era già stata concordata nell’agosto del 2008 fra il predecessore di Obama, il presidente George W. Bush, e il primo ministro Nuri al-Maliki, ma è anche vero che iracheni e americani stavano trattando da diversi mesi sulla possibilità di lasciare in Iraq un contingente di circa cinque mila soldati americani come consiglieri o con compiti di addestramento delle forze di sicurezza irachene.  Lo scoglio maggiore, almeno ufficialmente, rimaneva il trattato sullo stato legale delle forze americane in Iraq, con la richiesta del Pentagono di garantire la loro immunità dinanzi alla legge irachena.  Dovunque, attraverso trattati internazionali o accordi bilaterali, sono presenti le forze americane, il Pentagono è stato sempre molto fermo per quanto riguarda la giurisdizione sui propri militari da parte delle corti marziali Usa e non dei tribunali locali o internazionali, anche nel caso di accuse di violazione della legge locale o internazionale.

Il rimpatrio di circa 40 mila soldati americani avviene dopo quasi nove anni dall’invasione dell’Iraq avvenuta nel marzo 2003.  Da allora, sono morti 4.481 soldati americani, 316 soldati di paesi alleati, oltre 55 mila insorti iracheni, e oltre centomila civili iracheni.  L’America conta anche 32 mila feriti fra i suoi militari, di cui il 20 percento soffre di gravi danni celebrali o spinali.

La tempistica dell’annuncio di Obama sembrerebbe conciliare due esigenze del Presidente, una politica e l’altra tecnica.  La prima, quella politica, era di sfruttare la notizia della morte di Gheddafi in Libia, dove gli americani hanno speso pochissimo, senza inviare nessun soldato e senza vittime fra i militari Usa, legandola alla promessa elettorale di ritirare tutte le truppe americane dall’Iraq.  Il presidente ha potuto, così, inviare ai suoi oppositori, sia nel partito democratico sia in quello repubblicano, un doppio messaggio: è un presidente affidabile in politica estera e mantiene le promesse fatte.  Aveva promesso di ridurre le truppe in Iraq per mandarle in Afghanistan per condurre la caccia ai terroristi di al-Qaeda, e l’ha fatto nel 2010. Aveva promesso di catturare o eliminare Osama bin Laden anche fosse stato necessario sconfinare in Pakistan, è l’ha fatto.  Aveva promesso di usare alleanze internazionali per nuove missioni, e l’ha fatto nel caso della Libia, partecipando alle operazioni affidate a un comandante canadese, con grande partecipazione europea, con inglesi e francesi in primo piano.  Aveva promesso di ritirare completamente le truppe Usa dall’Iraq, e lo sta facendo.  Da quel che si vede e si ascolta durante i dibattiti che si stanno svolgendo in questi giorni fra i candidati repubblicani per le primarie presidenziali, le critiche a Obama per la politica estera sono tiepide o inesistenti.

La seconda esigenza del Presidente è di carattere tecnico.  E’ necessario dare il tempo utile ai 40 mila militari americani per lasciare l’Iraq nel modo più efficiente possibile e in piena sicurezza. Il nuovo ministro della Difesa, Leon Panetta, dopo aver diretto come capo della CIA la brillante operazione che ha portato all’eliminazione di Osama bin Laden, ora dovrà dirigere l’uscita dall’Iraq in modo organizzato, risparmiando critiche al Presidente che sicuramente arriverebbero se dovessero esserci attacchi mortali contro i soldati Usa mentre vanno via o se si lasciassero agli iracheni troppi materiali, armi e attrezzature pagate con le tasse dei contribuenti americani.

In un articolo pubblicato sul New York Times del 22 ottobre 2011, Mark Landler fa notare, tuttavia, che la forza che Obama sta dimostrando come “presidente di guerra” e il grosso successo che ha ottenuto con le operazioni anti-terrorismo potrebbero non servire per la sua rielezione il prossimo novembre.  Le uccisioni di Osama bin Laden il 2 maggio 2011, del suo probabile successore Anwar al-Awlaki il 30 settembre 2011, la morte di Gheddafi il 20 ottobre 2011, e il ritiro delle truppe americane dall’Iraq entro la fine dell’anno, sono importanti, ma in America è sempre stata la condizione dell’economia a determinare l’elezione o la rielezione di un presidente.  Se la debole ripresa economica non si trasformasse in un aumento dell’occupazione prima del prossimo autunno, Obama potrebbe contare soltanto sul poco entusiasmo che gli americani stanno dimostrando nei confronti dei repubblicani sia al Congresso sia nelle primarie per la scelta dello sfidante per le presidenziali del 2012.  Nessun candidato repubblicano, per il momento e per la gioia di Obama, riesce a creare emozioni forti fra gli americani.

Pubblicato da “Il Denaro” il 26 ottobre 2011

Il debito pubblico americano – una crisi voluta

Barack Obama incontra il 14 luglio 2011 alla Casa Bianca (da sinistra a destra) lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, il leader della maggioranza democratica al Senato Harry Reid e il leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnell. Foto EPA.

Anthony M. Quattrone

Il presidente americano Barack Obama sta affrontando enormi difficoltà nel cercare di far raggiungere un compromesso fra democratici e repubblicani nel Congresso per ridurre il debito pubblico federale a lungo termine e, nel frattempo, di far alzare il tetto legale dello stesso debito entro il 4 agosto 2011, quando è previsto il suo sforamento e la potenziale inadempienza degli USA nei confronti dei creditori. Nel suo ultimo discorso radiofonico periodico che tiene ogni sabato, il Presidente ha parlato in termini apocalittici di quello che potrebbe succedere se gli USA dichiarassero la bancarotta fra tre settimane, affermando che per gli USA e per il mondo sarebbe “un Armageddon economico”.  Se repubblicani e democratici non trovassero l’accordo, il Presidente ordinerà di non pagare le pensioni sociali, di non pagare i dipendenti del governo federale, né i militari, pur di evitare la bancarotta e l’inadempienza nei confronti dei creditori internazionali.  Trentadue percento del debito pubblico americano è controllato da stranieri, fra cui le banche centrali della Cina, del Giappone, e dell’Inghilterra.

Obama non può, tuttavia, prendere decisioni unilaterali per alzare il debito.  Infatti, la sezione 8 del primo articolo della Costituzione Americana riconosce al Congresso l’autorità di emettere titoli di debito del governo federale.  Il Congresso ha emesso titoli a copertura di spese specifiche con atti individuali fino al 1917 quando ha deciso di semplificare le procedure creando un tetto statutario del debito.  Dal 1917 fino agli anni 60, il Congresso ha alzato il limite in diverse occasioni, e, negli anni cinquanta lo ha anche abbassato in due occasioni.  Dagli anni sessanta ad oggi, il Congresso lo ha alzato ben 60 volte, ponendo un nuovo tetto di 14,294 miliardi di dollari il 12 febbraio 2010.  Ad oggi, il governo federale avrebbe già superato la soglia, ma, attraverso una serie di procedure contabili, è riuscito nel posticipare alcuni pagamenti fra agenzie federali, ritardando di fatto il superamento del limite statutario.  Gli esperti pongono il debito federale americano registrato il 29 giugno 2011 a 14,46 mila miliardi di dollari, pari al 98,6% del prodotto interno lordo registrato per il 2010, che si è attestato a 14,66 mila miliardi di dollari.

Fino ad ora è stato difficile per il Congresso raggiungere una decisione sul debito pubblico perché i repubblicani che controllano la Camera non vogliono sentir parlare di innalzamento delle tasse per le classi più avvantaggiate, mentre i democratici che controllano il Senato non vogliono accettare tagli molto incisivi nei confronti dei programmi sociali.  La posta in gioco è alta per il presidente, i senatori e i deputati perché è già iniziata la campagna elettorale del 2012, quando ci saranno le presidenziali, il rinnovo totale della Camera e di un terzo del Senato.  I politici dei due schieramenti si attaccano sul debito pubblico a lungo termine da lasciare sulle spalle delle future generazioni, sulla spesa federale corrente, sul potenziale innalzamento delle tasse per i ceti più agiati, e sulla riduzione dei programmi sociali per gli anziani e per i ceti svantaggiati.

Obama vorrebbe apparire agli americani come il mediatore “centrista” fra democratici e repubblicani nel Congresso.  Con il discorso di sabato, e con le notizie battute da alcune agenzie che lo vedrebbero infuriato con i leader del Congresso, forse Obama è riuscito a spingere le parti verso il compromesso.  Durante i programmi televisivi della domenica mattina tradizionalmente dedicati alla politica, si sono alternati senatori e deputati democratici e repubblicani, manifestando l’intenzione di trovare un accordo. Il senatore democratico dell’Illinois, Richard J. Durbin appoggia la proposta di Obama di tagliare 4 mila miliardi di spesa federale nei prossimi dieci anni, mentre il senatore repubblicano dell’Oklahoma, Tom Coburn, propone una riduzione di quasi 9 mila miliardi nello stesso periodo.  Forse è più realistica la notizia riferita dal sempre ben informato “Politico” che vorrebbe il leader repubblicano del Senato, Mitch McConnell, e il suo collega democratico Harry Reid al lavoro per raggiungere un compromesso basato su tagli alla spesa per 1,5 mila miliardi di dollari accoppiato alla decisione di innalzare il debito federale.  Il Congresso dovrà decidere entro la fine di questa settimana sul da farsi, perché dopo mancherebbero i tempi tecnici per evitare “un Armageddon economico”.

Pubblicato da “Il Denaro” il 21 luglio 2011.

Andare via dall’Iraq

Members of the Iraqi Sadr Movement's Mahdi Army march in Baghdad's predominantly Shiite suburb of Sadr City during a parade demanding the withdrawal of US forces from Iraq. (AFP/Ahmad al-Rubaye)

Anthony M. Quattrone

Circa 4.500 soldati americani e 120 mila iracheni hanno perso la vita in Iraq da quando nel marzo 2003 il presidente George W. Bush decise di iniziare una guerra cui mancavano credibili giustificazioni. L’Iraq non poneva un imminente pericolo per gli Stati Uniti d’America, né era sospettata di essere il mandante dell’attacco terroristico del settembre 2001.  In America, oggi ci sono circa 32 mila veterani della guerra in Iraq che soffrono di gravi mutilazioni dovute alle ferite riportate in combattimento.  In Iraq i soldati americani continuano a morire.  Eppure, il presidente americano Barack Obama aveva promesso nella sua campagna elettorale che avrebbe rimosso le truppe da combattimento dall’Iraq entro il giugno 2010 per concentrarsi sull’Afghanistan, il luogo dove, secondo molti analisti, è più probabile un rigurgito del terrorismo internazionale antiamericano.

Con la brillante operazione che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, il presidente americano ha dimostrato che l’uso dell’intelligence e delle forze speciali, accoppiato con la pazienza, può portare a risultati molto più efficienti con costi relativamente bassi in termini di vite umane e di dispendio di risorse finanziarie.  L’invasione dell’Afghanistan, seguita da quella dell’Iraq, con l’enorme costo in vite umane d’inermi civili, di militari americani, afgani, iracheni, delle formazioni irregolari delle diverse parti in lotta, oltre ai costi materiali che hanno in sostanza sbancato il tesoro americano, lasciato in attivo dal presidente Bill Clinton, e portato distruzioni non ancora risolte in tante zone dei paesi che hanno subito la guerra, dovrebbero fungere da monito a chiunque pensi di utilizzare la guerra come metodo per risolvere questioni di polizia internazionale o come lotta al terrorismo.

La guerra in Iraq è costata al contribuente americano circa 750 miliardi di Euro fino ad oggi.  Il presidente ha proposto di includere nel bilancio federale del 2012 circa 14 miliardi di Euro per sostenere le spese per circa 46 mila soldati americani che sono ancora in Iraq.  Anche se questi soldati non partecipano in azioni di guerra, sono, di fatto, oggetto di attacchi militari, e l’elettore americano non riesce a comprendere perché ci siano ancora militari americani in Iraq.  Gli americani non comprendono bene i segnali che stanno ricevendo dal governo di Barack Obama, perché, se da un lato si conferma il ritiro di tutte le truppe entro il 31 dicembre 2011, dall’altro il segretario alla difesa, Robert Gates e il capo di stato maggiore delle forze armate, l’ammiraglio Mike Mullen, indicano l’assenso americano a rimanere in Iraq oltre tale data se il governo di Nouri al-Maliki lo richiedesse.  Entrambi, tuttavia, manifestano preoccupazione perché il tempo stringe e se non arrivasse entro poche settimane un cenno da parte irachena, mancherebbe il tempo per attuare le necessarie iniziative logistiche per assicurare la presenza americana nel paese oltre il 31 dicembre 2011.

Per molti osservatori americani, il tempo in Iraq è scaduto, anche perché gli iracheni sarebbero capaci di gestire al meglio le questioni di sicurezza interna usando le loro forze armate che sono ben addestrate ed equipaggiate, e superano numericamente gli insorti.  La tabella di marcia del ritiro americano è anche alla base dell’appoggio che il religioso sciita Moktada al-Sadr ha dato al governo in carica.  Sadr ha chiaramente minacciato la ricostituzione dell’esercito irregolare del Mahdi se gli americani non lasciassero il territorio iracheno come annunciato e, farebbe anche cadere l’attuale governo del primo ministro Maliki, gettando il paese in una crisi politica e militare.

Il 30 giugno 2010 era il termine che il presidente Obama aveva posto per il ritiro di tutte le truppe di combattimento americane in Iraq.  Ora Obama deve mantenere la promessa di portare a casa gli altri soldati, quei 46 mila che sono ancora in Iraq senza ruolo di combattimento ma che muoiono, che sono feriti e che costano a testa circa 300 mila euro all’anno per rimanere in Iraq.  Dopo la morte di Osama bin Laden è sempre più difficile convincere il contribuente americano a lasciare anche un solo soldato in Iraq. E forse, fra poco, sarà difficile convincerlo a lasciare anche un solo soldato in Afghanistan.

Fed, più trasparenza per il futuro

Prima conferenza stampa della Fed americana

Anthony M. Quattrone

Federal Reserve Chairman Ben Bernanke speaks during a news conference at the Federal Reserve in Washington, Wednesday, April 27, 2011. (AP Photo/Susan Walsh)

Il fatto che Ben Bernanke, il presidente della Fed, la banca centrale americana, abbia tenuto una conferenza stampa lo scorso 27 aprile 2011, rispondendo dal vivo a domande sulle decisioni inerenti alla politica monetaria a stelle e strisce, è una notizia già per se.  Il Federal Reserve System, informalmente chiamato la Fed, è stato istituito nel 1913 dal Congresso americano a seguito di una serie di gravi crisi monetarie per prevenire e governare eventuali crisi finanziarie.  Bernanke è il chairman della Fed dal 2006, e il suo mandato è stato confermato dal presidente americano Barack Obama fino al 2014.

La Fed è un animale molto strano.  L’organo direttivo della Fed è composto dai presidenti di dodici Federal Reserve Bank regionali e da sette governatori nominati dal presidente americano.  I membri del consiglio direttivo della Fed, una volta nominati, non possono essere rimossi se non alla fine del mandato.  Le decisioni della Fed, un’agenzia pubblica indipendente dal governo federale americano, non sono soggette al controllo da parte né del potere esecutivo, né del legislativo.  In un sistema di “checks and balances”, la Fed gioca un ruolo fondamentale nel controbilanciare il potere esecutivo e legislativo nella gestione dell’economia americana attraverso la politica monetaria centrale.  Ben Bernanke è il quattordicesimo chairman della Fed dalla sua costituzione ed è uno dei tre in vita, assieme a Paul Volcker (1979-1987) e Alan Greenspan (1987-2006).

Non sono pochi gli americani che incolpano la Fed di ogni male del Paese.  I fautori delle più complesse versioni delle teorie del complotto indicano nella Fed il vertice dei poteri forti che rappresentano i banchieri mondiali.  La segretezza delle operazioni della Fed ha contribuito sin dalla sua fondazione nel generare e sostenere le più svariate formulazioni delle teorie del complotto.  Un filo conduttore che collega le varie teorie contro la Fed è di carattere antisemita che mette in primo piano i banchieri ebraici come i Rothschild.  La trasparenza delle decisioni della Fed è pertanto diventata una fondamentale necessità sia per contrastare le teorie complottistiche, sia per ridurre il malumore per le decisioni che l’autorità monetaria prende periodicamente in risposta alle condizioni dell’economia a stelle e strisce. “E’ stato un fatto positivo” ha scritto il New York Times in un editoriale del 27 aprile 2011, “vedere Ben Bernanke incontrare la stampa mercoledì, in quello che è il primo della serie d’incontri programmati ogni trimestre, con domande e risposte.  Si vede che la Fed ha imparato, anche se nel modo più difficile, che deve lavorare per creare comprensione e consenso per le sue politiche.”

La politica della Fed non potrà risolvere l’alto tasso di disoccupazione, la caduta del valore degli immobili, la debole crescita dei redditi, e l’erosione del settore manifatturiero, che secondo Bernanke sono i maggiori problemi dell’economia americana, senza un cambio di rotta nella politica fiscale decisa da parte del presidente e del Congresso.  L’editoriale del New York Times rileva che solo la politica fiscale può affrontare questi temi, e questo sarà possibile solo se il Senato, controllato dai democratici, e la Camera, controllata dai repubblicani, troveranno un accordo su come racimolare più fondi e investirli in specifici programmi, progetti, e sforzi tendenti verso la ripresa economica.  Nel frattempo, la Fed va avanti per la sua strada, continuando a regolare la quantità di moneta in circolazione e le condizioni creditizie dell’economia. Bernanke ha confermato che giugno finirà il secondo round da 600 miliardi di dollari di acquisti di titoli pubblici e che i tassi d’interesse sui fondi federali rimarranno fra lo zero e 0,25% per ora.

Bernanke prevede che il tasso d’inflazione per il 2011 si assesterà fra l’1,3 e l’1,6% e la crescita del prodotto interno lordo sarà fra il 3,1 e il 3,3%.  La notizia più importante per la maggioranza degli americani e per il presidente Obama, già impegnato nella campagna elettorale del 2012, è che il tasso di disoccupazione in Usa dovrebbe scendere all’8,4-8,8% nel 2011.

–Pubblicato in terza pagina su “Il Denaro” del 5 maggio 2010:    http://news.denaro.it/blog/2011/05/05/fed-piu-trasparenza-per-il-futuro/

Terrorismo: Obama fra sicurezza e libertà

Anthony M. Quattrone

An image of terror suspect Faisal Shahzad is seen on a screen during a press conference at the US Justice Department in Washington, DC, on May 4. The United States charged for the first time that the Pakistani Taliban was behind a Pakistani-American's failed attempt to detonate a car bomb in the heart of New York City. (AFP/File/Jewel Samad)

Sembrerebbe che uno degli obiettivi principali del terrorismo internazionale sia quello di mettere in crisi l’equilibrio che, nel corso della loro storia, gli americani sono riusciti a creare fra sicurezza e libertà. Dagli eventi del settembre 2001 ad oggi, ogni attacco all’America crea nell’americano medio la disponibilità nel sacrificare alcune libertà in cambio di più sicurezza. L’evento del primo maggio a New York, dove un cittadino naturalizzato americano, nato in Pakistan, Faisal Shahzad, ha cercato di far saltare in aria una Nissan Pathfinder del 1993, imbottita di esplosivi in modo amatoriale, nel cuore della Grande Mela, a pochi passi da una Times Square strapiena di turisti, ha fatto tornare alla ribalta l’apparente dicotomia fra libertà e sicurezza.

E’ strano che proprio in questa circostanza, dove in appena 53 ore le autorità hanno arrestato il presunto attentatore, gli americani possano lasciarsi condizionare da chi propone nuove misure di sicurezza che limiterebbero ulteriormente le libertà individuali dei cittadini. I terroristi otterrebbero, di fatto, una “vittoria collaterale” se riescono a spaventare il cittadino medio, mettendolo alla mercé di chi vuole limitare ulteriormente le libertà individuali. Anche in questo caso, i terroristi, attraverso un attentato fallito, come quello dello scorso dicembre, quando un altro dilettante, Umar Faouq Abdulmuttalab, ha cercato di farsi esplodere sul volo natalizio da Amsterdam a Detroit, potrebbero ottenere una vittoria collaterale. Leggi tutto l’articolo

Obama e la riforma del sistema finanziario Usa

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama talks with New York City firefighters from Rescue 1, Engine 260 and Engine 228, after posing for a photo at the Wall Street Heliport in New York Thursday, April 22, 2010. President Obama spoke about financial reform at the Great Hall at Cooper Union. (AP Photo/Alex Brandon)

Già nel marzo 2007 il giovane senatore dell’Illinois, Barack Obama, chiedeva a Ben S. Bernanke, presidente della Federal Reserve americana, e a Henry M. Paulson, segretario del tesoro del presidente George W. Bush, di convocare una conferenza di esperti per discutere i primi segnali di turbolenza nei mercati finanziari e immobiliari. Durante la campagna elettorale per la presidenza, ed in particolare durante la crisi finanziaria del settembre 2008, Obama ha reclamato a gran voce la necessità di colmare i vuoti legislativi nelle regole che disciplinano il sistema finanziario Usa. La filosofia che guida l’iniziativa politica di Obama nel campo finanziario è la necessità da parte del governo di usare tutta la sua forza per dare regole sicure, efficienti, e trasparenti per evitare che comportamenti spregiudicati e di dubbia correttezza possano danneggiare sia le imprese, sia gli investitori.

Il 21 aprile 2010, Obama ha dichiarato in un’intervista con l’emittente televisiva CNBC e con il New York Times che “durante la nostra storia, ci sono stati dei momenti in cui il settore finanziario è andato fuori orbita” come nel caso della Grande Depressione del 1929. Per Obama “siamo arrivati ad uno di quei momenti, dove è necessario aggiornare le regole del gioco” per ricostruire un sentimento di fiducia da parte del Paese nei confronti del settore finanziario. La riforma di Wall Street è necessaria perché non si può permettere che comportamenti scorretti e spregiudicati da parte d’alcuni operatori possano creare una situazione come quell’attuale, dove, secondo il presidente, “la crisi economica ha distrutto otto milioni di posti di lavoro e ha bruciato migliaia di miliardi di risparmi delle famiglie.” leggi tutto l’articolo