Il debito pubblico americano – una crisi voluta

Barack Obama incontra il 14 luglio 2011 alla Casa Bianca (da sinistra a destra) lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, il leader della maggioranza democratica al Senato Harry Reid e il leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnell. Foto EPA.

Anthony M. Quattrone

Il presidente americano Barack Obama sta affrontando enormi difficoltà nel cercare di far raggiungere un compromesso fra democratici e repubblicani nel Congresso per ridurre il debito pubblico federale a lungo termine e, nel frattempo, di far alzare il tetto legale dello stesso debito entro il 4 agosto 2011, quando è previsto il suo sforamento e la potenziale inadempienza degli USA nei confronti dei creditori. Nel suo ultimo discorso radiofonico periodico che tiene ogni sabato, il Presidente ha parlato in termini apocalittici di quello che potrebbe succedere se gli USA dichiarassero la bancarotta fra tre settimane, affermando che per gli USA e per il mondo sarebbe “un Armageddon economico”.  Se repubblicani e democratici non trovassero l’accordo, il Presidente ordinerà di non pagare le pensioni sociali, di non pagare i dipendenti del governo federale, né i militari, pur di evitare la bancarotta e l’inadempienza nei confronti dei creditori internazionali.  Trentadue percento del debito pubblico americano è controllato da stranieri, fra cui le banche centrali della Cina, del Giappone, e dell’Inghilterra.

Obama non può, tuttavia, prendere decisioni unilaterali per alzare il debito.  Infatti, la sezione 8 del primo articolo della Costituzione Americana riconosce al Congresso l’autorità di emettere titoli di debito del governo federale.  Il Congresso ha emesso titoli a copertura di spese specifiche con atti individuali fino al 1917 quando ha deciso di semplificare le procedure creando un tetto statutario del debito.  Dal 1917 fino agli anni 60, il Congresso ha alzato il limite in diverse occasioni, e, negli anni cinquanta lo ha anche abbassato in due occasioni.  Dagli anni sessanta ad oggi, il Congresso lo ha alzato ben 60 volte, ponendo un nuovo tetto di 14,294 miliardi di dollari il 12 febbraio 2010.  Ad oggi, il governo federale avrebbe già superato la soglia, ma, attraverso una serie di procedure contabili, è riuscito nel posticipare alcuni pagamenti fra agenzie federali, ritardando di fatto il superamento del limite statutario.  Gli esperti pongono il debito federale americano registrato il 29 giugno 2011 a 14,46 mila miliardi di dollari, pari al 98,6% del prodotto interno lordo registrato per il 2010, che si è attestato a 14,66 mila miliardi di dollari.

Fino ad ora è stato difficile per il Congresso raggiungere una decisione sul debito pubblico perché i repubblicani che controllano la Camera non vogliono sentir parlare di innalzamento delle tasse per le classi più avvantaggiate, mentre i democratici che controllano il Senato non vogliono accettare tagli molto incisivi nei confronti dei programmi sociali.  La posta in gioco è alta per il presidente, i senatori e i deputati perché è già iniziata la campagna elettorale del 2012, quando ci saranno le presidenziali, il rinnovo totale della Camera e di un terzo del Senato.  I politici dei due schieramenti si attaccano sul debito pubblico a lungo termine da lasciare sulle spalle delle future generazioni, sulla spesa federale corrente, sul potenziale innalzamento delle tasse per i ceti più agiati, e sulla riduzione dei programmi sociali per gli anziani e per i ceti svantaggiati.

Obama vorrebbe apparire agli americani come il mediatore “centrista” fra democratici e repubblicani nel Congresso.  Con il discorso di sabato, e con le notizie battute da alcune agenzie che lo vedrebbero infuriato con i leader del Congresso, forse Obama è riuscito a spingere le parti verso il compromesso.  Durante i programmi televisivi della domenica mattina tradizionalmente dedicati alla politica, si sono alternati senatori e deputati democratici e repubblicani, manifestando l’intenzione di trovare un accordo. Il senatore democratico dell’Illinois, Richard J. Durbin appoggia la proposta di Obama di tagliare 4 mila miliardi di spesa federale nei prossimi dieci anni, mentre il senatore repubblicano dell’Oklahoma, Tom Coburn, propone una riduzione di quasi 9 mila miliardi nello stesso periodo.  Forse è più realistica la notizia riferita dal sempre ben informato “Politico” che vorrebbe il leader repubblicano del Senato, Mitch McConnell, e il suo collega democratico Harry Reid al lavoro per raggiungere un compromesso basato su tagli alla spesa per 1,5 mila miliardi di dollari accoppiato alla decisione di innalzare il debito federale.  Il Congresso dovrà decidere entro la fine di questa settimana sul da farsi, perché dopo mancherebbero i tempi tecnici per evitare “un Armageddon economico”.

Pubblicato da “Il Denaro” il 21 luglio 2011.

Obama va a picco nei sondaggi

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama walks toward Marine One on the South Lawn of the White House in Washington, Thursday, July 15, 2010. REUTERS/Larry Downing

I sostenitori di Barack Obama sono sbigottiti dalla lenta ma inesorabile erosione della credibilità e della popolarità del presidente americano nei sondaggi svolti negli ultimi mesi.  Obama sembra intrappolato in una ragnatela di eventi negativi, incapace di riprendere l’iniziativa politica.  La crisi economica, il disastro ecologico nel Golfo del Messico, e il perdurare di una guerra senza fine e senza vittoria in Afghanistan formano una miscela esplosiva per gli indici che misurano la fiducia e il gradimento del popolo americano nei confronti del presidente, a meno di quattro mesi dalle elezioni di novembre, quando sarà rinnovata l’intera Camera e un terzo del Senato.

La crisi economica ereditata dall’amministrazione Bush non sembra dare ancora segnali tangibili di inversione di marcia. Sono ancora milioni gli americani disoccupati e che non hanno la benché minima idea di quando e dove torneranno nella forza lavoro.  Il tasso di disoccupazione è ancora vicino al dieci percento, e, secondo i verbali di una riunione tenuta dai i vertici della Federal Reserve Bank, la banca centrale americana, il 22 giugno 2010, gli uomini di Ben Bernanke hanno alzato le forchette per la disoccupazione del 2011 a 8,3-8,7 percento, dal precedente 8,1-8,5, e per quella 2012 al 7,1-7,5 percento, dal precedente 6,6-7,5.

Secondo i dati pubblicati a fine giugno dal governo Usa, a maggio è aumentato il numero delle nuove richieste di sussidi di disoccupazione, in contrasto con le previsioni degli analisti che prevedevano un leggero calo. A maggio sono anche aumentate le richieste di sussidi pre-esistenti, le cui proroghe richiederanno l’approvazione del Congresso per fornire la copertura finanziaria.

La vendita al dettaglio è calato di 1,1 percento a maggio e di un ulteriore mezzo punto a giugno, secondo i dati pubblicati dal governo Usa il 14 luglio 2010.  Le proiezioni negative sull’occupazione hanno anche costretto la banca centrale a rivedere le stime del prodotto interno lordo (Pil) per i prossimi anni, perché l’alto tasso di disoccupazione influenzerà, ovviamente, la spesa delle famiglie, riducendo i consumi, che rappresentano circa settanta percento del Pil.  La massima crescita del Pil americano, prevista dai banchieri centrali, è stata ridotta di 0,2 punti percentuali per il 2010, dal 3,7 a 3,5 percento, e di 0,3 punti dal 4,5 a 4,2 percento per il 2011. Leggi tutto

Arizona: Grana immigrazione per i repubblicani

La nuova legge in materia varata dallo Stato dell’Arizona fa perdere ai repubblicani i consensi degli ispanici

In this Monday, April 10, 2006 picture, immigration rights supporters hold a rally in downtown Los Angeles. (AP Photo/Kevork Djansezian)

Anthony M. Quattrone

Il tema immigrazione è scoppiato fra le mani dei leader repubblicani americani nel momento meno opportuno, a sei mesi dalle elezioni di mid-term del prossimo novembre, quando saranno rinnovate un terzo dei seggi del Senato, l’intera Camera dei Deputati, e andranno in gara 36 cariche di governatore dei 50 Stati dell’unione. Le proteste in America stanno montando contro una legge sull’immigrazione clandestina approvata il 23 aprile 2010 dal governatore dell’Arizona, la repubblicana Jan Brewer. Diversi consigli comunali in varie parti degli Stati Uniti, molte organizzazioni culturali e sportive, e rappresentanti delle associazioni che tutelano i diritti delle minoranze chiedono il formale boicottaggio dello Stato dell’Arizona, fino a quando rimarrà in vigore la nuova legge. Le organizzazioni che rappresentano la comunità ispano-americana sono fra le più attive nel protestare contro la nuova legge, creando notevoli difficoltà per i dirigenti politici repubblicani, compagni di partito della governatrice Brewer e della maggioranza che controlla il ramo legislativo dello Stato dell’Arizona..

Secondo il New York Times, la legge approvata dallo Stato dell’Arizona “trasforma in sospetti criminali tutti gli abitanti di origine ispanica dell’Arizona, anche se sono immigrati con regolare permesso di soggiorno, o cittadini americani”. Secondo la versione finale della legge, sarà possibile per la polizia chiedere alle persone fermate perchè sospettate di aver violato una legge, i documenti relativi all’immigrazione. Secondo alcuni osservatori, diventerebbe buona prassi per un cittadino americano che viaggia in Arizona, di avere con se il passaporto perché, da come è stata emanata la legge, l’onere della prova di cittadinanza o di presenza legale nello Stato è totalmente a carico del fermato, e in mancanza di documenti, si va in prigione. Mentre da un punto di vista formale, la legge approvata in Arizona potrebbe anche reggere nelle corti federali contro eventuali eccezioni legali, la protesta delle organizzazioni ispaniche verte sulla questione del “racial profiling”, ovvero del “puntamento” razziale nei confronti delle persone che hanno un aspetto ispanico, nelle zone a ridosso del confine con il Messico. In breve, la preoccupazione degli oppositori della nuova legge dell’Arizona è che sarebbe troppo facile per la polizia trovare mille scuse per fermare delle persone “sospette”, finendo per puntare illegalmente gli ispanici. Secondo alcune stime ufficiali, tre quarti dei quasi 12 milioni di immigrati clandestini in America sono ispanici. Il racial profiling è già stato considerato una violazione dei diritti costituzionali di coloro che ne sono vittime, e le corti hanno condannato, in diverse occasioni, i dipartimenti di polizia e le agenzie governative che lo praticavano. Leggi tutto l’articolo

Ambientalisti arrabbiati con Obama

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama speaks with an F/A-18 F 'Green Hornet' jet behind him, at an event about energy security, Wednesday, March 31, 2010, at Andrews Air Force Base in Maryland. The F-18 'Green Hornet' will run partly on bio fuel. (AP Photo/Evan Vucci)

La decisione di Barack Obama di permettere la trivellazione dei fondali marini sulla costa sud orientale degli Stati Uniti è un nuovo esempio della via del compromesso adottato dal presidente americano nell’affrontare le questioni fondamentali del Paese. Ovviamente, il tentativo di costruire il consenso su di una posizione mediana lascia scontenti gli aderenti alle posizioni estreme di destra e di sinistra, così com’è successo già pochi giorni fa per la riforma sanitaria. La riforma non assomiglia più a quella proposta inizialmente dal presidente, ma comprende, invece, molte “correzioni” conservatrici suggerite dagli oppositori repubblicani e dalla destra democratica. La riforma è il frutto di oltre un anno di trattative fra tante parti interessate, rappresentati nel Congresso da senatori e deputati dei due maggiori partiti, ma anche da una rete trasversale, influenzata da lobby che hanno lavorato in modo metodico, riuscendo a rompere l’unità del partito democratico.

L’autorizzazione a trivellare alcuni fondali marini americani, in particolare quelli dal Delaware fino alla Florida, è una nuova decisione che ha richiesto coraggio da parte di Obama, perché è un compromesso che scontenta sia le industrie petrolifere che avrebbero voluto mano libera anche in tutte le acque territoriali americane, sia gli ambientalisti, che si sentono traditi dal presidente. Obama ha annunciato il suo piano il 31 marzo 2010 in un discorso alla base dell’Air Force di Andrews, alla presenza del segretario agli Interni Ken Salazar, rivolgendosi in particolare agli scontenti, ricordando che è necessario trovare una via di mezzo, un compromesso, che prenda in considerazione sia le esigenze energetiche degli Stati Uniti, sia la necessità di proteggere le risorse naturali americane. Obama ha dichiarato che, “per aumentare la crescita economica, creare posti di lavoro e mantenerci competitivi, dobbiamo sfruttare le fonti tradizionali, mentre lavoriamo per aumentare la produzione di energie rinnovabili”. Obama ha dovuto anche rassicurare gli amministratori locali repubblicani e democratici che l’autorizzazione a trivellare sarà concessa assicurando la protezione delle aree vitali per il turismo, l’ambiente e la sicurezza nazionale, evitando di essere guidati dall’ideologia politica, ma seguendo i progressi della scienza.

Il presidente ha ricordato agli americani nel suo discorso che è necessario trovare una via di mezzo sulle questioni fondamentali per il Paese. Secondo Obama è necessario “andare in avanti, oltrepassando gli stanchi dibattiti fra sinistra e destra, fra imprenditori e ambientalisti, fra chi pensa che trivellare è la cura, e quelli che pensano che non sia mai ammissibile trivellare.” Per Obama la questione energetica “è troppo importante da permettere che il nostro progresso possa languire, mentre perdiamo tempo nel condurre le stesse vecchie battaglie, trite e ritrite”. Leggi tutto l’articolo

Obama e l’arte del compromesso

Primo anno di presidenza Obama

President Barack Obama visits a Boys and Girls Club in Washington, Monday, Dec. 21, 2009, to read a book and give out cookies to children. (AP Photo/Charles Dharapak)

Anthony M. Quattrone

L’azione politica di Barack Obama nel suo primo anno di presidenza è stata caratterizzata dal compromesso. Ironicamente, Obama può contare su di un’ampia maggioranza democratica sia alla Camera, sia al Senato, ma non può contare su di un partito democratico unito, pronto a sostenerlo al Congresso. L’anima progressista si è scontrata in diverse occasioni con quella conservatrice, e, solo grazie all’abilità di mediare da parte della dirigenza democratica, e da parte di Obama in prima persona, è stato possibile portare avanti parte del programma proposto durante la campagna elettorale. Forse è proprio l’abilità di Obama di trovare una via di mezzo, un compromesso, che ha sorpreso maggiormente gli osservatori politici americani. Obama è disposto a considerarsi soddisfatto e vincente anche quando una sua proposta è ridotta all’osso attraverso il dibattito parlamentare. La riforma sanitaria, tanto sostenuta da Obama in campagna elettorale, è un esempio della propensione del presidente di effettuare compromessi per salvare il salvabile, e per fare avanzare di qualche passo il suo programma politico.

L’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti il 20 gennaio dell’anno che sta per finire è stato sicuramente un evento storico perchè è il primo afro americano eletto alla massima carica dello Stato americano. Lo stesso evento è stato anche una fonte di preoccupazione per gli osservatori della politica americana, perchè il resoconto della carriera politica del giovane presidente includeva solo l’elezione a senatore per lo stato dell’Illinois. Con la fine dell’anno, si inizia a tirare le somme per valutare l’efficacia di Obama, se ha tenuto le promesse fatte, e se il Paese sta meglio o peggio di quando si è insediato alla presidenza. Quello che traspare è che Obama è veramente abile nell’avanzare il suo programma politico, cercando il compromesso dove si può, con grande senso pragmatico.

Il sito Internet www.politifact.com, che appartiene al St. Petersburg Times, svolge un ruolo di costante monitoraggio rispetto all’azione politica di Obama, attraverso la compilazione di una lista di 513 promesse fatte dal presidente durante la campagna elettorale. Ad oggi, il presidente ha portato a compimento 102 azioni nella lista delle promesse, mantenendone 75, facendo compromessi riguardanti 18, e rompendone 9. Delle restanti 411 promesse, 202 riguardano azioni politiche attualmente in pieno svolgimento, 39 sono bloccate in una situazione di stallo, e per 170 non ci sono ancora abbastanza elementi da dare una valutazione definitiva.

I numeri delle promesse fatte rispetto a quelle mantenute e quelle rotte sono interessanti, e possono essere integrate dalle rilevazioni dei maggiori sondaggi sul gradimento nei confronti del presidente da parte degli americani. Secondo un sondaggio svolto dalla Gallup durante il periodo fra il 16 e il 18 dicembre, il 50 percento degli americani manifestano il gradimento nei confronti di Obama, e il 43 gli è contrario. I risultati più recenti non sono certamente comparabili al margine favorevole che la Gallup ha registrato durante la prima settimana della presidenza, quando Obama godeva di un livello di approvazione pari al 64 percento contro un’opinione sfavorevole contenuta al 17. Un sondaggio della Rasmussen, datato 17 dicembre 2009, è forse più preoccupante per il giovane presidente, perchè registra un divario abbastanza consistente fra il 26 percento degli elettori che danno ad Obama un altissimo gradimento, e il 41 che manifesta un alto livello di disapprovazione. Lo stesso tipo di sondaggio fatto dalla Rasmussen dieci mesi fa dava ad Obama una proporzione inversa, con coloro che mostravano un alto gradimento in netto vantaggio su quelli che manifestavano un’alta disapprovazione, per 40 a 20 percento. Sicuramente Obama non può aspettarsi grandi balzi in avanti nel gradimento nei suoi confrontri da parte degli elettori americani, se la crisi non rallenta in modo visibile, e migliaia di americani ritornano al lavoro. Leggi tutto l’articolo

Obama all’attacco dei soldi di “plastica”

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama signs the Credit Card Accountability, Responsibility and Disclosure (CARD) Act, surrounded by lawmakers, in the Rose Garden at the White House. Obama Friday signed sweeping credit card reforms into law, aiming to shield consumers from predatory fees and shock rate hikes, despite complaints from the industry. (AFP/Nicholas Kamm)
US President Barack Obama signs the Credit Card Accountability, Responsibility and Disclosure (CARD) Act, surrounded by lawmakers, in the Rose Garden at the White House. Obama Friday signed sweeping credit card reforms into law, aiming to shield consumers from predatory fees and shock rate hikes, despite complaints from the industry. (AFP/Nicholas Kamm)

Il presidente americano Barack Obama è partito all’attacco del sistema dei soldi di “plastica”, come sono chiamate le carte di credito sull’altra sponda dell’Atlantico.  Oggi (ndr: venerdì, 22 maggio 2009), alle 21 ore italiane, durante una cerimonia ufficiale alla Casa Bianca, dovrebbe firmare una legge approvata questa settimana dal Congresso per garantire più trasparenza e maggior controllo nell’emissione delle carte di credito.

Le nuove regole, che andranno in vigore nel febbraio del 2010, prevedono un periodo di preavviso di 45 giorni, con una comunicazione chiara e semplice, per qualsiasi aumento degli interessi a debito o nuove penali per il cliente.  E’ previsto anche l’obbligo da parte degli istituti finanziari di rendere più trasparenti e comprensibili tutte le condizioni per l’erogazione di una carta di credito, e l’eliminazione di alcune clausole vessatorie.  La legge approvata dal Congresso prevede anche misure contro le attività di marketing nei confronti di ragazzi sotto 21 anni d’età, obbligando gli istituti finanziari alla maggiore prudenza nell’emissione delle carte di credito.

Sono oltre 700 milioni le carte di credito in circolazione negli Stati Uniti.  In media, ogni cittadino americano ha 2,3 carte di credito a testa.  Il settantotto percento delle famiglie americane ne ha almeno una.  Le famiglie in ritardo nei pagamenti per gli acquisti fatti con una carta di credito, hanno, in media, 5.700 euro di debito nei confronti degli istituti finanziari.  Secondo la Federal Reserve, gli americani hanno un debito attivo di quasi 1.900 miliardi d’euro, con l’esclusione dei mutui sulle case.  Al 31 marzo 2009, il debito per le sole carte di credito è pari a ben 730 miliardi.  In breve, escludendo il debito pubblico, ogni cittadino americano, adulto o bambino, occupato o disoccupato, ha, in media, un debito personale che si aggira attorno ai sei mila euro, non contando il debito dovuto per i mutui per l’acquisto degli immobili.

La facilità con cui si poteva ottenere, fino a poco tempo fa, una carta di credito negli Usa, ha creato una vera dipendenza se non addirittura un’assuefazione da parte dei consumatori americani, nei confronti dei soldi di plastica.  Le organizzazioni dei consumatori hanno spesso lamentato che gli allegati dei contratti per l’emissione delle carte, fossero poco trasparenti, inique e piene di clausole vessatorie.  In caso di ritardato pagamento, scattano forti penali e un generale innalzamento dei tassi d’interesse.  I documenti contrattuali sono scritti in un linguaggio indecifrabile per un cittadino medio americano, usando un carattere minuscolo, illeggibile ad occhio nudo. I contratti sono lunghissimi, scritti con tante parti, da scoraggiare la lettura anche da parte di un professore di economia.  Il 23 aprile 2009, il presidente Obama, dopo un incontro alla Casa Bianca con i rappresentanti dei maggiori istituti finanziari, ha stabilito alcune priorità per la riforma del sistema delle carte di credito.  Il presidente ha chiesto, appunto, l’uso di un linguaggio semplice, con caratteri di stampa più leggibili, e l’eliminazione di molte clausole vessatorie nei contratti per l’erogazione di una carta. Leggi tutto l’articolo

L’industria medica Usa s’inchina ad Obama

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama met with healthcare stakeholders in the Roosevelt Room at the White House on May 11, 2009. Photo from www.healthreform.gov.
President Barack Obama met with healthcare stakeholders in the Roosevelt Room at the White House on May 11, 2009. Photo from www.healthreform.gov.

L’impegno elettorale del presidente Barack Obama di riformare il sistema sanitario americano sembrava dover passare in secondo piano rispetto ad altri temi come la crisi economica e l’impegno militare in Iraq ed in Afghanistan.  Nei primi cento giorni della sua amministrazione, Obama ha effettivamente dedicato il grosso del suo impegno proprio all’economia e alle due guerre in corso.

Dietro le quinte, tuttavia, i suoi collaboratori hanno intrecciato una fitta rete di contatti con chi fornisce prestazioni sanitarie, con chi le finanzia, e con i fruitori delle prestazioni.  L’obiettivo dello staff del presidente era ed è quello di evitare che Obama finisse nelle trappole in cui sono caduti i coniugi Clinton nel 1992, durante l’ultimo tentativo dei democratici di riformare la sanità.  Il presidente Bill Clinton e sua moglie Hillary riuscirono ad alienare tutte le parti interessate alla riforma, quando, nell’arco di poche settimane proposero, per poi abortire, una proposta di riforma confusa, non condivisa, e facilmente attaccabile sia dall’industria medica, sia dalle assicurazioni sanitarie.

E’ da diversi mesi che l’amministrazione Obama utilizza ogni occasione possibile per collegare l’alto costo della spesa sanitaria con la crisi economica.  La spesa sanitaria degli americani ammonterà a circa 40 mila miliardi di dollari nell’arco dei prossimi dieci anni.  Secondo Obama e i democratici nel Congresso, la riduzione del costo della salute potrebbe contribuire ad influenzare in modo decisivo l’andamento dell’economia americana, incidendo in particolare sia sul costo del lavoro, per chi ha un’assicurazione medica aziendale, sia sulle spese sostenute dagli enti federali e statali, per chi ha diritto all’assistenza pubblica.

Il primo risultato del lavoro tessuto dai collaboratori di Obama è la riunione che il presidente ha presieduto lunedì, 11 maggio 2009, alla Casa Bianca, fra i rappresentanti delle assicurazioni mediche, delle organizzazioni degli enti ospedalieri, delle associazioni dei medici, dell’industria farmaceutica, dei produttori delle attrezzature mediche, dei rappresentanti degli imprenditori, dei sindacati, e delle associazioni dei pazienti, cogliendo di sorpresa gli osservatori politici Usa. Leggi tutto l’articolo

Obama e la trasformazione della Corte Suprema

The current United States Supreme Court, the highest court in the United States in a 2006 photo by Steve Petteway. Top row (left to right): Associate Justice Stephen G. Breyer, Associate Justice Clarence Thomas, Associate Justice Ruth Bader Ginsburg, and Associate Justice Samuel A. Alito. Bottom row (left to right): Associate Justice Anthony M. Kennedy, Associate Justice John Paul Stevens, Chief Justice John G. Roberts, Associate Justice Antonin G. Scalia, and Associate Justice David H. Souter, who has resigned on 1 May 2009.
The current United States Supreme Court, the highest court in the United States in a 2006 photo by Steve Petteway. Top row (left to right): Associate Justice Stephen G. Breyer, Associate Justice Clarence Thomas, Associate Justice Ruth Bader Ginsburg, and Associate Justice Samuel A. Alito. Bottom row (left to right): Associate Justice Anthony M. Kennedy, Associate Justice John Paul Stevens, Chief Justice John G. Roberts, Associate Justice Antonin G. Scalia, and Associate Justice David H. Souter, who has resigned on 1 May 2009.

Su nove giudici, uno è dimissionario e 5 hanno superato settanta anni d’età

Anthony M. Quattrone

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, potrà influenzare la composizione della Corte Suprema americana per il prossimo ventennio attraverso la probabile sostituzione di diversi giudici che, durante il suo mandato, potranno decidere di ritirarsi per motivi d’età. Dei nove giudici che compongono la Corte Suprema, quattro sono settantenni, mentre uno ha raggiunto gli 89 anni d’età. In America, i giudici della massima Corte hanno dei mandati a vita, su nomina del Presidente, con la conferma del Senato. La Corte è abitualmente chiamata ad interpretare le leggi riguardanti temi etici, quelli sui diritti civili, e quelli sui rapporti fra le diverse istituzioni e apparati dello Stato.

Il primo giudice da sostituire è David Souter, sessantanove anni, il quale ha annunciato le sue dimissioni il primo maggio. Il presidente repubblicano George H. W. Bush aveva nominato Souter alla Corte Suprema nel 1990, perchè era convinto che il giudice fosse un “conservatore puro”. Durante il corso degli ultimi anni, tuttavia, Souter ha votato diverse volte assieme alla minoranza progressista nella massima Corte, specialmente sui temi inerenti ai poteri presidenziali, la pena capitale, l’aborto, e i diritti delle minoranze. Pertanto, la scelta di Obama, il quale sarà sicuramente orientato verso un progressista, non dovrebbe alterare l’attuale equilibrio politico della Corte, dove i conservatori sono la maggioranza. Sette giudici nominati da presidenti repubblicani e due dal democratico, Bill Clinton, compongono l’attuale Corte Suprema.

Il sistema della separazione dei poteri e del loro bilanciamento, prevista dai Padri fondatori della Costituzione americana, assegna alla Corte un ruolo che dovrebbe, almeno in teoria, esimersi dalla politica corrente. La Corte dovrebbe, in sostanza, fungere da massimo rappresentante del potere giudiziario, equilibrando quello dell’esecutivo diretto dal Presidente, e di quello legislativo del Congresso, interpretando e applicando il diritto federale.

Gli organi d’informazione americani speculano sulla possibile scelta di Obama citando le dichiarazione fatte durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008. Obama sostenne, lo scorso ottobre, che per la nomina di un giudice per la Corte Suprema, avrebbe scelto “qualcuno che rispettasse la legge, che non credesse che il suo ruolo è di legiferare, che avesse anche un’idea di quello che sta succedendo nel mondo reale, e che riconoscesse che uno dei ruoli principali delle corti è proteggere chi non ha una voce”.

Durante una conferenza stampa tenuta il primo maggio, Obama ha spiegato che sceglierà qualcuno “che ha non solo una mente brillante e indipendente, con un’esperienza marcata dall’eccellenza e dall’integrità, ma che manifesta anche la qualità dell’empatia”. Obama cerca qualcuno che “capisce che la giustizia non è un’astratta teoria legale o una nota in fondo ad una pagina in un libro di casi giudiziari”. Il presidente vorrebbe qualcuno che capisce come la giustizia e le leggi influenzano la realtà quotidiana delle persone comuni, impegnate a guadagnare da vivere per sostenere le proprie famiglie. Obama cerca, in breve, una persona compassionevole nei confronti dell’americano comune. Leggi tutto l’articolo

I primi cento giorni di Obama

Popolarità ai massimi storici per il presidente americano

President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young
President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

I primi cento giorni della presidenza di Barack Obama sono stati caratterizzati dalla frenetica attività del giovane presidente e di tutto il suo governo, nel portare avanti un programma di cambiamento nella politica americana. La data dei primi cento giorni non ha nessun riferimento legale o istituzionale in America, ma è diventato un punto di riferimento per comprendere lo stile, e per tracciare alcune traiettorie che andranno a caratterizzare i rimanenti tre anni e nove mesi di un primo mandato presidenziale.

E’ con la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che gli americani sentirono parlare, per la prima volta, dei “primi cento giorni” di una presidenza, perché il nuovo presidente, proprio all’inizio della sua amministrazione, lanciò un rilevante numero di nuovi programmi, particolarmente audaci, per risollevare l’America della Grande Depressione. Roosevelt, come Obama oggi, si trovò ad affrontare una forte crisi bancaria ed un’enorme massa di americani senza lavoro. Nel caso di Roosevelt, però, il periodo dei cento giorni non partì con l’inaugurazione del 20 gennaio 1933, ma dall’inizio del mese di marzo e si concluse a metà giugno. Gli storici dibattono ancora sulla reale utilità delle misure economiche attuate da Roosevelt, ma nessuno nega l’importanza dello stimolo psicologico che l’attivismo presidenziale creò, e che, senza dubbio, aiutò il paese a risorgere.

Solo il presidente Ronald Reagan, nei primi cento giorni della sua presidenza, dal 20 gennaio al 29 aprile 1981, riuscì ad eguagliare Roosevelt nell’implementare un radicale cambio di rotta, tale da risollevare il paese dalla stagnazione, che si manifestava non solo in campo economico, ma forse anche in quello militare, con riflessi nella politica estera. Nell’arco dei primi 100 giorni, Reagan riuscì a far approvare dal Congresso il taglio delle tasse, nuove priorità di spesa, e una generale capitalizzazione del bilancio della difesa. Molti opinionisti americani attribuiscono a Reagan il merito di un lungo periodo di crescita dell’economia americana, e anche lo sgretolamento dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia.

Obama, come Roosevelt 76 anni fa, cerca di riformare il capitalismo americano per salvarlo, non per sovvertirlo. Secondo il professor Allan Lichtman dell’American University, “Obama ha attuato grandi cambiamenti, ma sempre all’interno del normale arco conservatore-progressista. Si, il pendolo è oscillato, ma dalla corrente principale conservatrice, a quella principale del liberalismo”. Obama non ha nazionalizzato le banche, ma ha negoziato l’acquisto dei loro titoli “tossici”. Obama non cerca di sostituire le assicurazioni mediche private con un’assicurazione governativa, ma cerca di mettere proprio le assicurazioni al centro del nuovo piano che dovrebbe garantire a tutti gli americani la copertura sanitaria. E anche sulla questione delle tasse, Obama non vuole alzare le tasse per il 95 percento degli americani, ma solo per il 5 percento, riportandoli alle quote pagate quando era presidente il repubblicano, idolo dei conservatori, proprio Ronald Reagan.

Secondo William Galston, un ricercatore della Brookings Institution, un ex collaboratore del presidente democratico Bill Clinton, “Obama è un Reagan con il segno negativo”. Per il ricercatore, oggi Obama “sta tentando di disfare e annullare il reaganismo e Reagan stesso”, così come Reagan tentò di smontare completamente il sogno del presidente democratico Lyndon B. Johnson, di creare una “Grande Società” americana, finanziata dal governo. In pratica, Obama sta cercando di invertire un detto di Reagan, che stabiliva che “il governo non è parte della soluzione, ma è il problema”. Oggi, anche per molti conservatori americani, con l’eccezione dei liberisti puri, il governo non è il problema, ma è necessariamente l’ancora di salvezza dell’economia. Le differenze fra conservatori e liberal riguardano, semmai, più il grado dell’intervento governativo, ma non dell’intervento stesso. Leggi tutto l’articolo

L’America dichiara guerra agli eccessi

Il nuovo corso di Obama alla Casa Bianca

 

President Barack Obama speaks during a news conference, Tuesday, March 24, 2009, in the East Room of the White House in Washington. (AP Photo/Ron Edmonds)
President Barack Obama speaks during a news conference, Tuesday, March 24, 2009, in the East Room of the White House in Washington. (AP Photo/Ron Edmonds)

 

Anthony M. Quattrone

L’attuale crisi economica sta portando alla superficie alcune contraddizioni interne alla società americana, legate direttamente alla cultura dell’eccesso, che potrebbero portare ad una crisi culturale e strutturale di portata storica, se non sono risolte in modo soddisfacente. Lo scandalo degli eccessi legati agli stipendi milionari di quei manager, che, apparentemente, hanno portato allo sfascio le maggiori imprese finanziarie americane, è costantemente all’attenzione dell’opinione pubblica americana.

Sarà interessante vedere come la leadership americana, intesa in senso lato, riuscirà a trovare un nuovo equilibrio fra diritti civili e solidarietà, da un lato, e iniziativa privata e merito dall’altro.

La cultura dominante in America, quella del cosiddetto “mainstream”, è anche il risultato della mediazione costante fra questi quattro concetti. La mediazione culturale realizza sia nella politica, sia nella vita di tutti i giorni, un equilibrio fra la necessità di garantire i diritti civili e la solidarietà, alla base della stessa cultura democratica americana, d’ispirazione giudaico-cristiana, e la promozione dell’iniziativa privata e del merito, caratteristiche specifiche del pensiero cristiano-protestante, e considerate centrali per l’avanzamento della società americana. E’ durante un periodo di crisi economica particolarmente grave, come quella in atto, che l’equilibrio fra diritti civili e solidarietà da un lato, e iniziativa privata e merito dall’altro, è messo duramente alla prova, mettendo in crisi lo stesso modello di vita americano.

La differenziazione politica fra democratici e repubblicani, fra liberal e conservatori, non sempre segue traiettorie facilmente rintracciabili nei quattro concetti, e, spesso, le differenze sono sfumature piuttosto che vere contrapposizioni. E’ difficile trovare in America un movimento di dimensione nazionale che non ha al suo interno chi abbraccia posizioni che sembrerebbero contraddittorie dal punto di vista della contrapposizione, per esempio, fra gli interessi legati alla solidarietà e quelli legati al merito. E’ facile trovare nella destra americana chi spinge per un liberismo puro, mentre propone misure private per aiutare chi è in difficoltà. E a sinistra c’è chi legifera la solidarietà con fondi pubblici, con decreti a protezione delle entrate economiche per i più deboli, mentre favorisce politiche economiche legate al liberismo più sfrenato. La mancanza di partiti ideologici in America porta all’affievolirsi delle differenze fondamentali fra i partiti per quanto riguarda i concetti generali su cui si fonda il paese, mentre, di volta in volta, è probabile che, durante particolari momenti storici, gli accenti su un tema concernente i diritti civili, la solidarietà, l’impresa privata, o il merito possono prendere il sopravvento nel paese, creando nuovi equilibri.

L’iniziativa privata e il concetto del merito hanno ripreso vigore in America negli anni ottanta con la presidenza repubblicana di Ronald Reagan, alle volte mettendo in dubbio anche alcuni diritti sociali e di solidarietà acquisiti nei cinquanta anni precedenti. Neanche Bill Clinton, l’unico democratico eletto dopo la presidenza Reagan, è riuscito a riportare l’accento del paese sui diritti e la solidarietà, anche perchè il generale benessere creato dalla favorevole congiuntura economica durante la sua presidenza, creava meno richieste di solidarietà. Con l’avvento del repubblicano George W. Bush alla presidenza nel 2001, l’impresa privata ha potuto godere di una presenza benevola alla Casa Bianca, sia per le politiche fiscali favorevoli all’impresa e ai grandi investitori, sia per le aperture nei confronti dell’impresa privata, anche in quei settori che prima erano di specifica competenza dello Stato, come nel caso della privatizzazione di alcune attività delle forze armate. Leggi tutto l’articolo