La sfida iraniana: il dibattito sul nucleare

Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad
Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad

Diana De Vivo

Era il 19 Luglio, quando a Ginevra i 5+1 (5 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) concessero a Teheran due settimane di tempo per congelare il programma nucleare avviato dal paese sin dal 1978, ed in particolare l’arricchimento dell’uranio, in cambio di un pacchetto di incentivi per consentire l’avvio di colloqui preliminari con l’obiettivo di smorzare i toni delle tese relazioni diplomatiche con l’Occidente.

Di lì a poco, la risposta del Presidente iraniano Ahmadinejad, repentina ed immediata, ma non eccessivamente incline al compromesso, è stata puntualmente pubblicata sul sito internet presidenziale al termine di un colloquio a Teheran col presidente siriano Al-Assad .

“Qualsiasi negoziato cui prenderemo parte”, tuona in maniera risoluta Ahmadinejad, “sarà inequivocabilmente in linea con l’obiettivo della realizzazione del diritto dell’Iran al nucleare e la nazione iraniana non arretrerà un millimetro dai suoi diritti”.

Parole che tracciano un incolmabile solco all’interno della comunità internazionale e mirano ad inasprire gli ormai precari equilibri in Medio Oriente.

All’interno del più ampio spettro della National Security Strategy dettagliatamente stilata dall’Amministrazione Bush, lo scacchiere mediorientale si colloca, difatti, in maniera ambigua e disomogenea, data la diversa “affinità” dei paesi dell’area nei confronti degli Usa, e considerando, inoltre, che alcuni di essi, quali Iran ed a fasi alterne Siria e Libia, rientrano egregiamente nella malvista categoria dei “rogue States” (Stati canaglia).

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Obama conquista Berlino.

Obama in Berlin after speechAnthony M. Quattrone

Abbiamo atteso 45 anni per vedere un politico americano riempire le strade di una grande capitale dell’Europa occidentale piena di sostenitori e simpatizzanti con tante bandiere americane, e non di contestatori anti-americani pronti a lanciare bombe molotov e bruciare il vessillo a stelle e strisce. Secondo la polizia di Berlino, oltre 200 mila persone hanno riempito la Tiergarten Park e la strada che collega la Colonna della Vittoria alla storica porta di Brandenburgo, per ascoltare il primo discorso del tour europeo del candidato democratico alla presidenza Usa, il senatore dell’Illinois, Barack Obama.

Il 28 giugno del 1963, il 35mo presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy, pronunciò uno storico discorso dinnanzi a 120 mila berlinesi, da un balcone del municipio della Berlino libera, la Schöneberg Rathaus, dichiarando che “tutti gli uomini liberi, ovunque si trovino, sono cittadini della libera Berlino. E pertanto, come uomo libero, mi vanto di pronunciare le parole ‘Ich bin ein Berliner’ (ndt: io sono un berlinese)”. Obama non ha detto niente di altrettanto storico e eclatante il 24 luglio nel discorso che ha tenuto a Berlino, ma ha saputo dare un chiaro e convincente messaggio all’Europa: se diventerà il nuovo presidente americano, la musica da Washington cambierà, perché l’America di Obama è quella della solidarietà con chi soffre, della giustizia sociale, delle pari opportunità, ma anche l’America che si dona completamente e generosamente nella lotta per  la libertà, cioè l’America che la gran parte degli europei ama.

Nel suo discorso Obama ha toccato i principali temi della politica estera americana, spaziando dalla guerra al terrorismo, alla questione del nucleare in Iran, e la guerra in Iraq, evitando di criticare direttamente sia il presidente in carica, George W. Bush, sia il candidato repubblicano, il senatore dell’Arizona, John McCain. Anche se Obama ha preso atto che non sempre gli Usa hanno agito nel migliore dei modi, ha voluto ribadire il suo patriottismo prendendo atto che “il mio Paese non è perfetto. Ci sono state occasioni in cui abbiamo dovuto lottare per i nostri diritti. Abbiamo fatto degli errori. Ma questo non diminuisce l’amore che ho verso la mia Patria”. Leggi tutto l’articolo!

Obama inizia il suo viaggio all’estero.

Uno staff di 300 collaboratori lo assiste per la politica estera

Anthony M. Quattrone

Ha destato molto interesse la notizia diffusa il 18 luglio 2008 dalla giornalista del New York Times, Elisabeth Bumiller, che il candidato democratico alle presidenziali USA del 2008, il senatore dell’Illinois, Barack Obama, ha una squadra di circa 300 persone che lavorano per lui in materia di politica estera.  La Bumiller descrive un’equipe organizzata come un piccolo “dipartimento di stato”, suddivisa per temi o zone geografiche in venti diversi gruppi di lavoro.  Ogni mattina, entro le 8, la squadra produce, dal quartiere generale di Chicago, due e-mail per Obama.  La prima descrive gli eventi internazionali delle precedenti 24 ore, mentre la seconda fornisce una serie di possibili domande che potrebbero essere rivolte al candidato democratico da parte della stampa, suggerendo anche le risposte.

Il cuore della squadra è composto di ex collaboratori minori del governo del presidente Bill Clinton, cui si stanno affiancando ora anche quelli più blasonati, come gli ex segretari di stato, Madeleine Albright e Warren Christopher, i quali, durante le recenti primarie, hanno sostenuto la senatrice di New York, Hillary Clinton. Leggi tutto l’articolo!

Politica estera al centro della campagna presidenziale USA

Anthony M. Quattrone

E’ difficile comprendere quale traiettoria imboccherà la politica estera americana dopo le elezioni presidenziali del prossimo novembre. Una vittoria democratica potrebbe essere caratterizzata da una totale discontinuità con la politica estera perseguita durante gli ultimi otto anni dal presidente George W. Bush.  Molti sperano che la Casa Bianca abitata dal senatore dell’Illinois, Barack Obama, possa divenire il centro di un nuovo modo di concepire la politica mondiale, dove la priorità dell’azione concordata, e multilaterale, metterebbe in secondo piano la tentazione di agire in unilateralmente. Leggi tutto l’articolo

Le due sponde dell’Atlantico: tra multilateralismo ed integrazione

Diana De Vivo

A distanza di pochi giorni dal “No” irlandese in seguito al referendum indetto dal paese per la ratifica del Trattato di Lisbona, che riprende quasi il 90% delle riforme promosse con il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa del 2005, l’Europa unita sente inesorabilmente sorgere il lontano eco della “crisi di riflessione” che si insinuò tra le democrazie del continente in seguito alla bocciatura francese ed olandese dello stesso. Ed ecco immediatamente riproporsi uno scenario che ha il sapore dell’avvenuto, ancestrale timore dei governi d’Europa, e che spinge ad “andare avanti”, come esorta con impagabile lucidità Nicolas Sarkozy, Presidente del paese che ha appena assunto la guida dell’Unione. Leggi tutto l’articolo!

L’assassinio di Benazir Bhutto: Idealisti e pragmatici a confronto in USA.

Anthony M. Quattrone

L’assassinio di Benazir Bhutto potrebbe rimettere in discussione la strategia americana nei confronti del Pakistan. L’America, che affronta da sempre il dibattito al suo interno su come bilanciare il realismo in affari esteri, strettamente basato sugli interessi nazionali americani, e l’idealismo, collegato all’avanzamento della libertà e della democrazia nel mondo, aveva deciso da qualche tempo di fare pressione sul generale Pervez Musharraf affinché quest’ultimo riportasse le libertà democratiche in Pakistan. Il governo americano, spinto sia da parte degli idealisti neoconservatori, sia dai loro cugini idealisti progressisti, ha iniziato diversi anni fa una politica di avvicinamento nei confronti di Benazir Bhutto e di altri membri dell’opposizione pachistana. Il cambio di strategia politica aveva preoccupato non poco gli analisi che aderiscono alla scuola del realismo pragmatico, legato in particolare ad Henry Kissinger, l’ex segretario di stato repubblicano dei governi di Richard Nixon e Gerald Ford. I pragmatici hanno premuto affinché gli Stati Uniti continuassero ad appoggiare il generale Musharraf, per impedire che un vuoto di potere in Pakistan creasse un rifugio per il terrorismo mondiale, e che le armi nucleari pachistane potessero finire in mano ai nemici dell’America. E’ indubbio che l’assassinio della Bhutto ora getta scompiglio fra gli strategisti della politica estera americana, ridando ai realisti pragmatici il vantaggio, preoccupati che il Pakistan possa cadere nell’anarchia.

Secondo il Boston Globe del 28 dicembre, “gli analisti americani speravano che una coalizione che includesse Musharraf ed i partiti dell’opposizione, ed in particolare Benazir Bhutto, potesse garantire al Pakistan una via nuova e moderata, unendo i militari e l’opposizione laica contro l’estremismo islamico, che minaccia gli Stati Uniti e gli interessi occidentali, e che tenta di trascinare il paese nel caos.” L’uccisione della Bhutto mette in dubbio l’attuazione di questo proposito che poteva soddisfare le intenzioni sia dei realisti, sei degli idealisti nel Dipartimento di Stato americano.

La dichiarazione ufficiale del Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, rilasciato il 27 dicembre, si chiude con un appello “idealista” al popolo pachistano, “Ci appelliamo al popolo pachistano, ai leader politici, alla società civile di rimanere calma e lavorare insieme per costruire un futuro più moderato, pacifico, e democratico”. Gli Stati Uniti hanno fornito al Pakistan circa dieci miliardi di dollari in aiuti per combattere il terrorismo dal 2001 ad oggi. Recentemente, il governo americano ha impegnato altri 300 milioni di dollari per assistere il governo di Musharraf per il 2008. Tuttavia, alcune recenti iniziative di Musharraf, fra cui una tregua che ha negoziato con alcune tribù del nordovest, presumibilmente legate ad attività terroristiche antiamericane, la repressione dell’opposizione e del sistema giudiziario, e la recente attuazione dello stato d’emergenza in autunno, hanno creato grosse preoccupazioni nel Congresso americano, inducendo molti legislatori a richiedere porre condizioni su tutti i finanziamenti al governo pachistano.

L’assassinio della Bhutto ha fornito agli elettori americani la possibilità di valutare le opinioni e la preparazione in politica estera dei candidati per le primarie presidenziali americane. Secondo il Washington Post del 29 dicembre, l’ex senatore democratico del Nord Carolina, John Edwards, è risultato il migliore fra i candidati, mentre l’ex governatore repubblicano dell’Arkansas, Mike Huckabee è stato il peggiore. Edwards è riuscito a parlare con Musharraf il 27 dicembre, e lo ha incoraggiato a “continuare sulla strada della democratizzazione, e a permettere ad investigatori internazionali di venire a determinare cosa sia successo, e quali sono i fatti”. Secondo il Washington Post, Edwards ha dato al dittatore pachistano un messaggio chiaro e forte, un tipo di messaggio che dovrebbe ricevere da tutti gli americani.

La senatrice democratica di New York, Hillary Clinton, e il senatore repubblicano dell’Arizona, John McCain, hanno entrambi offerto delle persuasive e convincenti analisi sulla situazione pachistana, esprimendo l’ appoggiato per la democratizzazione del paese. La Clinton, tuttavia, ha citato “il fallimento del regime di Musharraf nel combattere il terrorismo e nel costruire la democrazia” aggiungendo che “è venuta l’ora che gli Stati Uniti si mettano dalla parte della società civile in Pakistan”. McCain ha invece dichiarato che Musharraf può ancora fare molto nella lotta al terrorismo, e va sostenuto, anche se ha fatto alcune cose su cui il senatore dell’Arizona non concorda, come la tregua con le tribù del nordovest e la dichiarazione dello stato d’emergenza.

Secondo il Washington Post, l’ex sindaco repubblicano di New York, Rudi Giuliani, e l’ex governatore repubblicano del Massachusetts, Mitt Romney, si sono limitati a rigurgitare i soliti slogan sul terrorismo ed il “jihadismo”, evitando di fare delle serie considerazioni sulla situazione pachistana.

Il senatore democratico dell’Illinois, Barack Obama, ha fatto, secondo il Post, un grave errore tentando di collegare l’assassinio della Bhutto al voto che la senatrice Clinton ha dato nell’ottobre del 2002 a favore dell’intervento militare americano in Iraq. Il portavoce di Obama, David Axelrod, ha dichiarato che la Clinton “era una forte sostenitrice della guerra in Iraq, si può ipotizzare che questo è uno dei motivi per cui siamo stati dirottati dall’Afghanistan, dal Pakistan, e dalla lotta ad al-Qaeda, la quale potrebbe essere stata coinvolta negli eventi di oggi”. Obama ha confermato le dichiarazioni del suo portavoce.

Secondo il Washington Post, il peggiore degli aspiranti presidenti americani è stato Mike Huckabee, il quale ha dimostrato di non essere a conoscenza che la legge marziale in Pakistan era stata già tolta da ben due settimane, e ha tentato cinicamente di collegare l’assassinio della Bhutto al tema dell’immigrazione clandestina in America. Huckabee ha dichiarato che gli Stati Uniti dovevano reagire all’assassinio della Bhutto “controllando le frontiere, per assicurarci che non ci sia un’attività inusuale da parte di Pachistani che tentato di entrare nel nostro paese”. Il Washington Post e altri giornali americani hanno stigmatizzato il maldestro tentativo di Huckabbe di collegare gli eventi in Pakistan con la questione dell’immigrazione clandestina in America, bollandolo come un modo cinico di fare politica, basato su informazioni insensate.

Pubblicato su Agenzia Radicale il 30 dicembre 2007.

La buona lezione di Robert McNamara

Anthony M. Quattrone

L’esecuzione di Saddam Hussein, i dubbi sulla legittimità e l’opportunità dell’intervento in Iraq, l’apparente trattamento irregolare di prigionieri da parte delle forze militari statunitensi, e la generale confusione dell’amministrazione Bush su come uscire dal pantano iracheno, rendono attuali gli insegnamenti di Robert McNamara, catturati nel documentario, premiato con l’Oscar nel 2004, The Fog of War (Quella nebbia di guerra).

Robert McNamara è stato fra i più brillanti assistenti del presidente John Fitzgerald Kennedy, per il quale lavorò come ministro della difesa dal 1961 fino all’assassinio di quest’ultimo nel 1963.  Dopo la morte di Kennedy, McNamara servì il presidente Lyndon B. Johnson, fino al 1968, quando si dimise dinnanzi al fallimento della guerra in Vietnam, di cui era stato uno dei maggiori pianificatori.  Dopo l’esperienza governativa, McNamara diventò il presidente della Banca Mondiale dal 1968 fino al 1981.

Nel documentario girato da Errol Morris, McNamara commenta e criticamente valuta alcune decisioni prese, con il suo aiuto, dal Generale Curtis LeMay nella seconda guerra mondiale, e dai presidenti Kennedy e Johnson negli anni sessanta, soffermandosi sulla moralità e l’efficienza di tali decisioni. McNamara nota con freddezza che se gli Stati Uniti avessero perso la seconda guerra mondiale, lui sarebbe stato incriminato assieme al generale LeMay per crimini di guerra contro le popolazioni giapponesi.  LeMay ordinò il bombardamento incendiario di diverse città giapponesi nel marzo del 1945.  In una sola notte, furono uccisi 100 mila civili.  Nel documentario McNamara racconta: “Perché era così necessario lanciare una bomba nucleare se LeMay stava bruciando tutto il Giappone? E da Tokyo proseguì a lanciare bombe incendiare su altre città. Il 58% di Yokohama. Yokohama è pressappoco come Cleveland. Il 58% di Cleveland distrutto. Tokyo ha più o meno le dimensioni di New York. Il 51% di New York distrutto. Il 99% di Chatanooga, che era Toyama. Il 40% di Los Angeles, che era Nagoya. Tutto questo ancor prima di lanciare la bomba nucleare, che, a proposito, è stata lanciata su ordine di LeMay.”  McNamara prosegue: “LeMay disse, ‘Se avessimo perso la guerra, saremmo stati tutti penalmente perseguibili per crimini di guerra ’. E penso che abbia ragione. Lui, e direi anch’io, ci comportavamo da criminali di guerra. LeMay si rendeva conto che ciò che stava facendo sarebbe stato considerato immorale se avesse perso. Ma che cos’è che rende una cosa immorale se perdi e non immorale se vinci?”

L’esecuzione di Saddam è avvenuta a seguito di una condanna formulata da un legittimo tribunale di uno Stato sovrano, in conformità a prove inconfutabili sui crimini commessi contro l’umanità, in occasione del massacro di 148 sciiti nel 1982.  Saddam ha commesso altri crimini contro l’umanità, come il massacro di 182 mila curdi fra il 1987 e il 1988 usando armi di distruzione di massa, e crimini di guerra contro gli iraniani durante il conflitto fra Iraq e Iran dal 1980 al 1988, con un milione di morti.  Non c’è dubbio che Saddam era meritevole di essere condannato alla massima pena vigente nel suo paese, anche se, per quest’autore, così come per milioni di occidentali, la moralità e la legittimità della pena di morte non sono mai, in nessun caso, giustificabili.

Tuttavia, la costanza della formulazione vae victis (guai ai vinti) non sembrerebbe trovare contrasto nella politica internazionale.  La giustizia dei vincitori porta alle impiccagioni dei tedeschi a Norimberga e dei giapponesi a Tokyo, alle esposizioni dei cadaveri appesi a Piazzale Loreto, e, qualche volta, di recente, anche alla condanna all’ergastolo per crimini di guerra o contro l’umanità all’Aja.

Affinché la morte di Saddam non sia percepita come una mera vendetta di parte, sarà necessario affrontare tutte le violazioni del diritto internazionale nella conduzione della guerra irachena, senza esclusioni alcune, prendendo spunto proprio dagli insegnamenti di McNamara.

Pubblicato sull’Avanti! il 3 gennaio 2007.