Terrorismo: Obama fra sicurezza e libertà

Anthony M. Quattrone

An image of terror suspect Faisal Shahzad is seen on a screen during a press conference at the US Justice Department in Washington, DC, on May 4. The United States charged for the first time that the Pakistani Taliban was behind a Pakistani-American's failed attempt to detonate a car bomb in the heart of New York City. (AFP/File/Jewel Samad)

Sembrerebbe che uno degli obiettivi principali del terrorismo internazionale sia quello di mettere in crisi l’equilibrio che, nel corso della loro storia, gli americani sono riusciti a creare fra sicurezza e libertà. Dagli eventi del settembre 2001 ad oggi, ogni attacco all’America crea nell’americano medio la disponibilità nel sacrificare alcune libertà in cambio di più sicurezza. L’evento del primo maggio a New York, dove un cittadino naturalizzato americano, nato in Pakistan, Faisal Shahzad, ha cercato di far saltare in aria una Nissan Pathfinder del 1993, imbottita di esplosivi in modo amatoriale, nel cuore della Grande Mela, a pochi passi da una Times Square strapiena di turisti, ha fatto tornare alla ribalta l’apparente dicotomia fra libertà e sicurezza.

E’ strano che proprio in questa circostanza, dove in appena 53 ore le autorità hanno arrestato il presunto attentatore, gli americani possano lasciarsi condizionare da chi propone nuove misure di sicurezza che limiterebbero ulteriormente le libertà individuali dei cittadini. I terroristi otterrebbero, di fatto, una “vittoria collaterale” se riescono a spaventare il cittadino medio, mettendolo alla mercé di chi vuole limitare ulteriormente le libertà individuali. Anche in questo caso, i terroristi, attraverso un attentato fallito, come quello dello scorso dicembre, quando un altro dilettante, Umar Faouq Abdulmuttalab, ha cercato di farsi esplodere sul volo natalizio da Amsterdam a Detroit, potrebbero ottenere una vittoria collaterale.

E’ vero che, in entrambi i casi, l’America ha avuto la fortuna che i due terroristi si sono dimostrati dei dilettanti incapaci di far esplodere le rispettive bombe. Ci sarebbe da chiedersi se si tratti di fortuna, o se l’uso di dilettanti è stato piuttosto il risultato di una pressione straordinaria che le forze della sicurezza americana, e in primo luogo le forze armate, stanno mettendo su tutto l’apparato terroristico di matrice islamica? La fortuna ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale, ma gli osservatori puntualizzano che il terrorismo islamico è stato costretto ad usare dilettanti allo sbaraglio, incapaci di portare a termine le loro missioni. Secondo questi osservatori, le recenti uccisioni di leader di al-Qaeda in Iraq e Pakistan, la pressione militare americana sul confine fra Afghanistan e Pakistan, la lotta all’interno del Pakistan contro i taleban che sostengono al-Qaeda, sono da combinare con le misure messe in atto da diversi anni per tutti i voli che si dirigono verso gli Stati Uniti. In breve, qualcosa sta funzionando nei sistemi messi in atto per impedire che arrivino in America terroristi di primo ordine, capaci di fare attentati come quello del settembre 2001.

Un secondo punto che è evidente è che i cittadini coinvolti in situazioni di terrorismo sembrano essere più preparati e consapevoli, rispetto al 2001, sul da farsi (rispetto) e reagiscono nel modo più corretto. Sono state le reazioni dei semplici cittadini che hanno permesso di bloccare gli attentati di Natale e del primo maggio, e l’arresto del terrorista di turno. Sul volo da Amsterdam a Detroit, sono stati i passeggeri che si sono accorti che qualcosa non andava, quando hanno visto fumo salire dai pantaloni di Abdulmuttalab, e hanno praticamente arrestato il passeggero “fumante”. Ed è così che un venditore di T-shirt non ha esitato a fermare un poliziotto per riferire che una macchina produceva del fumo sospetto. Il rapido intervento dei cittadini ha fatto da robusto complemento alla situazione “fortunata” creata dal dilettantismo dei terroristi, sia sull’aereo, sia a Times Square. La politica di costante informazione, che l’America ha adottato nei confronti dei cittadini, sta funzionando. Gli slogan tipo “se vedi qualcosa, di’ qualcosa”, creano un clima di cooperazione fra forze dell’ordine e comuni cittadini.

Il terzo punto, che si evidenzia dagli ultimi due eventi, è che c’è maggiore collaborazione fra tutte le agenzie di sicurezza americane, anche se c’è ancora molto da fare per tappare buchi e falle nei sistemi di controllo dei viaggiatori, in un paese che vanta milioni di spostamenti giornalieri, sia all’interno del Paese, sia da e verso l’estero. E’ vero che nel caso dell’attentatore di Natale il Dipartimento di Stato non comunicò ad altre agenzie federali la denuncia fatta all’ambasciata americana in Nigeria dal padre del futuro attentatore, che avvertiva gli americani che il comportamento del figlio faceva presagire il peggio. Qualcosa non ha funzionato, e il ragazzo è potuto salire tranquillamente sul volo da Amsterdam per Detroit. Anche nel caso dell’ultimo attentato, qualcosa non ha funzionato, quando le autorità dell’aeroporto Kennedy hanno permesso a Shahzad di imbarcarsi su un aereo della Emirates, fermato poco prima che spiccasse il volo. La trasparenza con cui si discute delle falle, delle responsabilità individuali e di sistema, permette all’America di affrontare in modo deciso la questione sicurezza, ed evidenzia anche quanto è gia stato fatto.

Il quarto punto, che si evidenzia dagli ultimi due attentati falliti, è che la politica del rigoroso rispetto della legge da parte del governo, il rifiuto dell’uso della tortura, e il comportamento giuridicamente irreprensibile da parte delle autorità della sicurezza e dei tribunali sembrerebbe aver indotto entrambi i terroristi ad un’immediata e fattiva collaborazione con gli inquirenti. L’attentatore di Natale, Abdulmuttalab, e la sua famiglia collaborano con le autorità americane, così come sta facendo anche Shahzad, l’attentatore del primo maggio. Ad entrambi sono stati letti i diritti “Miranda”, quelle frasi rese famose in tutti i polizieschi americani, quando l’agente legge all’arrestato quali sono i suoi diritti costituzionali rispetto alle affermazioni che farà, e il suo diritto ad essere assistito da un legale.

La destra repubblicana è partita all’attacco di Barack Obama in occasione degli eventi del primo maggio, criticando la politica che il presidente persegue nel rispetto dello stato di diritto, il ruolo dei tribunali federali, e il rifiuto di militarizzare la giustizia nei confronti dei terroristi. Per Obama la questione del terrorismo deve essere affrontata in modo sistemico ed integrato, bilanciando gli interventi militari, le operazioni d’intelligence, il coordinamento fra le agenzie della sicurezza americana, e fra queste e quelle dei paesi alleati, in una situazione di maggiore sensibilizzazione della cittadinanza. Per i democratici, nessuno è ancora riuscito a dimostrare che l’uso della tortura a Guantanamo o Abu Ghraib è servito nella lotta contro il terrorismo. Nel frattempo, la collaborazione fra cittadini e autorità, la pressione militare sui taleban e su al-Qaeda, il maggiore coordinamento delle agenzie di sicurezza nazionali e internazionali, e i passi in avanti nel controllare meglio chi entra negli Usa, sta permettendo ad Obama di bloccare le spinte verso maggiori restrizioni sulle libertà degli americani. C’è da sperare che la “fortuna” continui ad assisterlo.

Autore: Tony Quattrone

Tony Quattrone è stato eletto rappresentante del Partito Democratico USA in Italia dal marzo 2015 al marzo 2017 (Democrats Abroad Italy-Chair). Ora vive a Houston, Texas, dove milita nel Partito Democratico della Contea di Harris. Ha vissuto in Italia per quasi 50 anni, dove ha lavorato prima per i programmi universitari del Dipartimento della Difesa USA, e poi come Capo delle Risorse Civili del Comando NATO di Napoli. Ha pubblicato oltre 200 articoli in italiano per diverse testate (Quaderni Radicali, Il Denaro, L'Avanti, ecc.) ed è stato intervista più volte dalla RAI e altre emittenti in Italia a proposito delle elezioni USA.