Senza l’aiuto del Pakistan, non si vince in Afghanistan

Il presidente americano ha ritirato il 10 dicembre 2009  il Premio Nobel per la Pace

Anthony M. Quattrone

U.S. President and Nobel Peace Prize laureate Barack Obama laughs after receiving his medal and diploma from Nobel committee chairman Thorbjorn Jagland at the Nobel Peace Prize ceremony at City Hall in Oslo December 10, 2009. The United States must uphold moral standards when waging wars that are necessary and justified, Obama said on Thursday as he accepted the Nobel Prize for Peace. REUTERS/John McConnico/Pool (Norway Politics)

La guerra in Afghanistan non può essere vinta senza la collaborazione fattiva del Pakistan. E’ quanto Barack Obama ha più volte sostenuto sia nel corso della campagna elettorale, sia da quando ha iniziato il suo mandato presidenziale. Obama ha evidenziato il suo pensiero durante il discorso che ha tenuto a West Point il primo dicembre, quando ha annunciato l’incremento delle truppe americane da inviare in Afghanistan, dichiarando che “il nostro successo in Afghanistan è inestricabilmente legato alla nostra partnership con il Pakistan”.

La strategia americana nei confronti del Pakistan è influenzata sicuramente dalla duplice natura della risposta pachistana alla richiesta di aiuto da parte degli americani per combattere il terrorismo islamico. Da un lato, i governanti di Islamabad dichiarano una totale disponibilità nell’impedire che il territorio pachistano possa essere usato come santuario per gli estremisti islamici. Dall’altro lato, Islamabad non vuole provocare reazioni da parte degli estremisti, evitando così un’eventuale campagna terroristica sul fronte interno. Obama ha chiaramente descritto l’ambivalenza pachistana nel suo discorso a West Point, quando ha detto che “ci sono stati coloro in Pakistan che hanno sostenuto che la lotta contro l’estremismo non è la loro battaglia, e che è nell’interesse del Pakistan fare poco, cercando un compromesso con coloro che usano la violenza”.

Non è chiaro, tuttavia, perchè Obama ha usato il passato per descrivere l’ambivalenza pachistana. Secondo i giornalisti David E. Ranger e Eric Schmitt del New York Times, Obama non ha voluto esprimere chiaramente quale è l’opinione americana rispetto all’attuale atteggiamento pachistano, per non alienare il governo guidato da Asif Ali Zardari o l’esercito pachistano comandato dal generale Ashfaq Parvez Kavani.

I due giornalisti della testata newyorchese hanno rivelato, in un articolo pubblicato il 7 dicembre 2009, che l’amministrazione Obama avrebbe aumentato la pressione sui governanti pachistani già un mese fa, prima che Obama prendesse la decisione sull’aumento delle truppe americane da inviare in Afghanistan. Secondo i giornalisti, il generale Jim Jones, consigliere della sicurezza nazionale americana, e John O. Brennan, capo del contro terrorismo americano, hanno incontrato i capi delle forze armate pachistane e dei loro servizi di intelligence, per consegnare un messaggio secco e diretto ai governanti pachistani: o fate di più per combattere i gruppi taleban che attaccano le forze americane dalla parte pachistana del confine con l’Afghanistan, e che prendono rifugio in quella parte dopo aver sferrato attacchi in territorio afgano, o gli Stati Uniti interverranno con molta più forza e determinazione, anche in territorio pachistano, lungo il confine che lo separa dall’Afghanistan. leggi tutto l’articolo

Il dopo Cina di Obama: l’agenda è fittissima

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama greets Prime Minister Manmohan Singh of India during a State Arrival ceremony in the East Room of the White House, Tuesday, Nov. 24, 2009 in Washington. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

E’ risaputo che l’agenda di un qualsiasi presidente americano è sicuramente occupata da un accavallarsi di impegni, e, quando le traiettorie di alcuni eventi si intersecano inaspettatamente, può diventare difficile per l’osservatore politico tenere il passo dei lavori presidenziali.  Nel caso di Barack Obama, o sarà per la sua relativa gioventù, o per la particolare contingenza — dopo il suo ritorno dal viaggio ufficiale in Cina, si sono susseguiti una serie di eventi politici, di cui alcune di rilevanza storica, che fanno pensare ad un attivismo presidenziale, che non lascia tempo per respirare.  Le lunghe pause fra un evento e un altro, cui ci aveva abituato George W. Bush, fanno ormai parte di un passato remoto.  L’attivismo presidenziale esige che tutto sia fatto subito, perché non c’è tempo da perdere.

Sabato scorso, 21 novembre, Obama è riuscito a convincere i 58 senatori democratici e i due indipendenti alleati dei democratici, a votare a favore del dibattito sulla riforma sanitaria, impedendo ai senatori repubblicani di portare avanti un’eventuale azione di ostruzionismo parlamentare.  Il dibattito, che inizia al rientro della festività di ieri del Thanksgiving, si concluderà prima della fine dell’anno, e Obama ha già iniziato un formidabile lavoro di convincimento nei confronti di quei pochi senatori democratici che potrebbero votare contro la riforma.  Già tre settimane fa, Obama era riuscito ad ottenere, inaspettatamente, il voto favorevole della Camera a sostegno della riforma sanitaria, superando anche le divisioni interne al partito democratico, fra conservatori e progressisti. Anche al Senato, così come alla Camera, la destra democratica è preoccupata per la copertura economica della riforma sanitaria, e non vorrebbe che questa vada cercata attraverso l’incremento della tassazione sui redditi dei ceti medi.

Lunedì 23, poi,Obama si è riunito con il “consiglio di guerra”, composto dai suoi più stretti collaboratori in materia di sicurezza nazionale, per arrivare ad una soluzione rispetto alla richiesta fatta dal generale Stanley McChrystal, il comandante americano delle forze NATO in Afghanistan, di aumentare il numero dei soldati americani dispiegati nel paese, ricalcando il successo della strategia del “surge”, elaborata e attuata dal generale David Petraeus in Iraq due anni fa.  Secondo alcune notizie trapelate il 24 novembre 2009 Obama sarebbe intenzionato ad accogliere, in larga parte, la richiesta fatta di inviare almeno 30 mila soldati per rafforzare la forza Usa sul campo di battaglia.  Attualmente, in Afghanistan ci sono 68 mila militari americani e 42 mila truppe di altri paesi. Leggi tutto l’articolo