Obama e le canaglie

Il presidente Usa alle prese con Iran e Nord Corea

South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)
South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)

Anthony M. Quattrone

l’Iran e la Corea del Nord, definiti da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, stati canaglia e parte della “Axis of Evil” (asse del male), assieme all’Iraq di Saddam Hussein, sono oggi di nuovo al centro dell’attenzione della politica estera americana, per gli stessi motivi di sette anni fa.  Entrambi i paesi progrediscono verso l’acquisizione di armi di distruzione di massa, lavorando tenacemente ai rispettivi programmi nucleari.

Il 24 maggio 2009, l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori riuniti Usa, ha dichiarato alla televisione americana ABC, che “la Repubblica islamica potrebbe sviluppare la bomba atomica entro tre anni.”  Il 25 maggio 2009, il giorno dopo le dichiarazioni di Mullen, la Corea del Nord ha fatto esplodere il suo secondo ordigno nucleare, in barba alle diffide fatte dalle Nazioni Uniti, dopo il primo test nucleare del 2006.  Nell’arco di due giorni, gli Stati Uniti, e il mondo intero si sono trovati di nuovo di fronte ad un’asse del male, ristrutturato, rielaborato, e più avanzato rispetto al 2002, ma orfano dell’Iraq di Saddam.

Se nel caso dell’Iraq è ormai assodato che non c’erano armi di distruzione di massa, nel caso dell’Iran e della  Corea del Nord, sono gli stessi governanti ad ammettere che si lavora verso l’acquisizione del nucleare, facendo pubblico sfoggio dei progressi fatti.  Il presidente americano Barack Obama forse sarà costretto ad ammettere che Bush non aveva visto male nel caso di Iran e della Corea del Nord, ma potrà continuare a sostenere che la guerra in Iraq è stato un errore che ha distolto l’America dai pericoli effettivi causati dalle politiche di Teheran and Pyongyang, in campo nucleare, e non ha permesso alle forze americane e della coalizione di completare il lavoro in Afghanistan per debellare permanentemente la presenza di al Qaeda.

Obama ora dovrà decidere quali politiche adottare nei confronti dei due paesi superstiti dell’asse del male.  Mentre l’Iran tiene aperto il discorso sul nucleare con la comunità internazionale, giocando al tira e molla sui controlli, dichiarando che mira ad usare l’atomo solo per scopi civili, la Corea del Nord non fa mistero della sua intenzione di diventare una potenza nucleare per scopi militari.  Un test missilistico in Iran non è mai connesso, pubblicamente, al programma nucleare, mentre a Pyongyang non si fanno misteri sugli obiettivi dei test, sulla gittata dei missili e sulla capacità di trasportare testate nucleari. Leggi tutto l’articolo

Obama affronta la platea islamica

Anthony M. Quattrone

Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)
Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)

Barack Obama aveva promesso lo scorso gennaio, durante il discorso che ha tenuto in occasione del suo insediamento alla presidenza americana, dinnanzi a miliardi di persone che lo hanno ascoltato in diretta televisiva, che avrebbe fatto passi rilevanti nei confronti del mondo mussulmano per eliminare pregiudizi e malintesi causati da decenni di sfiducia reciproca fra l’America e gli islamici. Obama aveva auspicato nei confronti dell’Islam, “una nuova via in avanti, basato sul rispetto reciproco, e su interessi comuni”. Il presidente, cristiano dalla nascita, ma che proviene, da parte del padre, da antenati mussulmani, conserva il secondo nome, Hussein, di chiara matrice islamica.

Ieri, Obama ha mantenuto la sua promessa di affrontare direttamente la platea islamica, tenendo un discorso di 55 minuti all’Università del Cairo, dinnanzi a tre mila studenti e accademici egiziani, e milioni di islamici attraverso la televisione. Il presidente ha esordito il suo discorso rivolgendosi direttamente alla platea egiziana, affrontando subito il tema dei rapporti fra islamici e americani: “Sono qui per cercare un nuovo inizio. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci.” Obama ha invitato americani e islamici a combattere contro i pregiudizi e gli stereotipi che creano sfiducia e risentimento.

Obama non è stato, tuttavia, timido nell’invitare gli arabi ad isolare quelle frange estremiste all’interno del mondo islamico e nel nazionalismo arabo che vogliono condurre una guerra costante contro l’America in particolare, e contro l’intero occidente, in generale. Obama ha detto che “Qualsiasi cosa pensiamo del passato, non dobbiamo rimanerne prigionieri. I nostri problemi vanno affrontati in partnership, e il progresso va condiviso. Ma la prima questione da affrontare è l’estremismo violento in tutte le sue forme. L’America non è e non sarà mai in guerra con l’Islam. Tuttavia, affronteremo senza tregua gli estremisti violenti che pongono un serio rischio alla nostra sicurezza. Il mio primo compito come presidente è quello di proteggere il popolo americano”. Leggi tutto l’articolo

La sicurezza nazionale Usa e la tortura

Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press
Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press

Pubblicata la corrispondenza segreta che autorizzava la tortura

Anthony M. Quattrone

L’American Civil Liberties Union aveva chiesto ufficialmente al governo americano di rendere pubblica la corrispondenza segreta dell’amministrazione del presidente George W. Bush riguardante l’uso di metodi di interrogazione particolarmente duri, che erano stati autorizzati a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.  Il presidente Barack Obama, ha dato l’autorizzazione, il 16 aprile 2009, per la pubblicazione della corrispondenza relativa alle opinioni legali espresse dal ministero della giustizia nel 2005.

Dopo la pubblicazione della corrispondenza, politici, giornalisti, funzionari governativi, militari, ex agenti della Cia, opinionisti, e semplici cittadini stanno partecipando in un ampio dibattito che si sta sviluppando attraverso tutti gli organi d’informazione, nelle università, e nelle istituzioni dello Stato, scatenando passioni estreme sia a destra, sia a sinistra.  A destra si accusa il presidente di aver danneggiato la sicurezza del paese attraverso quest’atto di trasparenza.  A sinistra, Obama è accusato di complicità con chi ha ordinato ed eseguito interrogatori che rasentano la tortura, perchè si rifiuta, per il momento, di prendere iniziative legali nei confronti di alcuni membri della precedente amministrazione di George W. Bush, e, in particolare, contro i più alti funzionari degli organismi della sicurezza.

La polemica sulla divulgazione della corrispondenza della Cia e sulla punibilità di chi ha ordinato ed eseguito gli interrogatori che oggi sono sotto accusa, non riesce però a mettere in secondo piano un dibattito ancora più importante sul rapporto fra valori e sicurezza.  Sono molti gli americani che si chiedono se la necessità di garantire la sicurezza nazionale può essere usata come motivo per violare alcuni valori basilari della cultura americana, come la ripugnanza per ogni forma di tortura e il rispetto per la dignità umana, anche per quella del peggiore nemico degli Usa.

L’apparente dicotomia fra sicurezza nazionale e il concetto di stato di diritto è evidenziato in tutti i dibattiti in corso.  Da un lato ci sono i rappresentanti dell’amministrazione Bush, come l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, e l’ex ministro della giustizia, Michael B. Mukasey, i quali hanno sottolineato in un articolo scritto per il Wall Street Journal del 17 aprile 2009, intitolato “Il presidente si lega le mani sul terrore”, che i metodi adottati per gli interrogatori erano legittimi e hanno funzionato.  Il capogruppo repubblicano della Camera, John Boehner, ha dichiarato che la pubblicazione della corrispondenza sui sistemi d’interrogatorio è stata fatta senza prendere in considerazione quanto ha compiuto il governo Bush per rendere sicuro il paese, e che Obama farebbe bene a concentrarsi su come continuare a tenere l’America sicura.  L’ex vice presidente Dick Cheney, uno dei fautori dell’uso di metodi d’interrogatorio duri, afferma che proprio attraverso l’uso di questi interrogatori, l’America è riuscita ad ostacolare i piani dei terroristi di Al Qaeda per effettuare altri attacchi sul territorio Usa.

Dall’altro lato, ci sono i deputati e i senatori democratici che vogliono aprire inchieste proprio su come il governo Bush sia arrivato alla decisione di autorizzare metodi d’interrogatorio che rasentano, a loro dire, la tortura.  La senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha dichiarato che la sua commissione, quella dell’Intelligence, ha già iniziato un’indagine a tale proposito.  Alcuni membri del Congresso vorrebbero la creazione di una “Truth Commission” (una commissione verità), per portare alla luce sia la procedura decisionale, sia le fondamenta legali su cui si sono basate le autorizzazioni date alla Cia e ad altri organismi che hanno partecipato negli interrogatori di prigionieri sospettati di essere terroristi. Leggi tutto l’articolo

Stati Uniti e Messico contro i narcos

Obama sostiene la lotta di Calderón

President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)
President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)

Anthony M. Quattrone

Con la canzone “South of the Border” (A sud della frontiera) del 1939, resa famosa nella versione di Frank Sinatra nel 1953, e con cartoni animati come Speedy Gonzales (il “topo più veloce del Messico”), due o tre generazioni di americani sono cresciute con un’immagine molto romanzata, e poco veritiera del Messico.  La città di Tijuana, oltre il confine fra la California e il Messico, era famosa già negli anni venti, in pieno proibizionismo, ed erano tantissimi gli americani che passavano weekend edonistici “south of the border”, dove si poteva bere alcol e giocare nei famosi casinò come l’Agua Caliente.  Nell’immaginario collettivo americano, il Messico ha rappresentato, o forse rappresenta ancora per alcuni, una dimensione più umana e “lenta” del vivere quotidiano, dove pane, amore, e fantasia regnano, e la frenesia della vita moderna passa in secondo ordine.

La notizia, riportata con grande risalto dalla stampa Usa, che circa 11 mila persone sono state uccise in Messico dal dicembre 2006 ad oggi a causa della guerra fra bande di trafficanti di droga per il controllo del mercato Usa, e fra queste bande e le forze di sicurezza messicane, sta portando alla luce la dura realtà a sud della frontiera.  Il presidente Barack Obama si è fermato ieri a Mexico City, in occasione del viaggio verso Trinidad e Tobago, dove si svolgerà oggi il quinto Summit delle Americhe, per incontrare il presidente messicano Calderón, e manifestargli il suo appoggio nella lotta contro i cartelli della droga.  Prima di partire, Obama ha preso diverse iniziative per mostrare il suo sostegno a Calderón.  Il presidente ha nominato Alan Bersin, un ex procuratore federale, al ruolo di “zar” della frontiera, dove avrà il compito di lavorare con le autorità messicane per controllare meglio la lunga e porosa frontiera fra i due paesi.  L’amministrazione Obama ha aggiunto i cartelli di Sinaloa, Los Zetas, e La Famiglia Michoacana, alla lista di pericolose organizzazioni criminali internazionali coinvolte nel traffico di narcotici.  Con quest’atto formale, il governo americano potrà sequestrare conti bancari e proprietà di questi cartelli negli Usa, o delle persone a loro legati.

E’ interessante notare che, mentre fino a qualche tempo fa, erano gli americani che chiedevano di rendere la frontiera meno permeabile, cercando di impedire l’arrivo di milioni di immigranti illegali dal Messico e fiumi di droga provenienti dall’America Latina, ora sono le autorità messicane che chiedono più controlli per impedire l’afflusso di armi americane, che finiscono per rinforzare gli apparati paramilitari dei cartelli della droga.

Secondo un articolo dell’International Herald Tribune del 15 aprile, che cita fonti del ministero della giustizia Usa, novanta percento delle 10 mila armi che sono state sequestrate in Messico l’anno scorso, proviene dagli Stati Uniti, particolarmente dall’Arizona, dal Texas, e dalla California.  In molti casi, le armi sequestrate sono di qualità superiore a quelle in dotazione alle stesse forze armate messicane, e sono, ovviamente, impiegate dai cartelli della droga. Leggi tutto l’articolo

Af-Pak, nuova strategia americana

Obama non esclude l’uso della forza in Asia centrale

U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs
U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs

Anthony M. Quattrone

E’ noto che gli americani adorano creare acronimi ogni volta che possono abbreviare un titolo troppo lungo, o anche quando hanno difficoltà nel pronunciare qualche parola con troppe sillabe. Qualche volta un acronimo serve anche per creare nuovi slogan, parole d’ordine, o per ripresentare qualcosa di vecchio con un nome diverso.

Il presidente americano Barack Obama usa l’acronimo Af-Pak per designare la zona geografica che comprende l’Afghanistan ed il Pakistan, e ha designato il diplomatico di carriera, l’ambasciatore Richard Holbrooke, come suo speciale rappresentante per quella zona. Nel creare l’acronimo Af-Pak, la nuova amministrazione Usa focalizza la sua politica contro il terrorismo internazionale proprio sul rapporto stretto che c’è fra i due paesi che condividono una frontiera tanto lunga, quanto permeabile, creando una visione d’indivisibilità dei loro destini.

E così, i cittadini americani sentiranno sempre di più i commentatori televisivi e radiofonici parlare di Af-Pak, e leggeranno sui giornali quest’acronimo, perché è l’intenzione di Obama portare la guerra contro il terrorismo proprio nell’Af-Pak, con molta più forza di quanto abbia fatto il suo predecessore. La novità della strategia di Obama è che il presidente sembrerebbe non escludere la possibilità che le forze Usa dislocate in Afghanistan potrebbero, se necessario, sconfinare all’interno del Pakistan per dare la caccia ad al Qaeda, e che, nel frattempo vanno moltiplicati tutti gli interventi per catturare la simpatia degli afgani e dei pakistani attraverso iniziative che mirano direttamente a migliorare le condizioni di vita di entrambi i popoli. Secondo il piano del presidente, un primo intervento prevede che centinaia di consiglieri civili (esperti in agricoltura, didattica, legge, ecc.) partiranno per l’Afghanistan proprio per lavorare sul miglioramento delle condizioni di vita del popolo.

L’amministrazione Obama accusa il precedente governo del presidente George W. Bush, di essersi fatto distrarre dalla questione irachena, completamente sottovalutando la situazione nell’Af-Pak. Per molti osservatori Usa, la decisione di trasferire il grosso delle truppe e delle risorse americane dall’Afghanistan all’Iraq, dal 2003 in poi, ha permesso ai Taleban di riconquistare territori lungo il confine Af-Pak, causando il graduale, ma costante deterioramento della situazione nell’Afghanistan, ricreando una condizione favorevole alla guerriglia contro il governo del paese, e permettendo anche il rafforzamento della presenza di al Qaeda oltre il confine.

L’amministrazione Obama vorrebbe affrontare in modo decisivo la questione Af-Pak, con un approccio che abbini l’uso della forza militare in combinazione con massicci interventi nel campo civile. Il 27 marzo 2009, Obama ha annunciato l’invio d’altri 4.000 militari in Afghanistan, in aggiunta ai 17 mila già pianificati a febbraio, per “sconvolgere, smantellare, e sconfiggere” la rete di al Qaeda in Afghanistan ed in Pakistan e per “prevenire il ritorno dei terroristi in entrambi i paesi nel futuro”. Le nuove truppe dovrebbero addestrare la polizia e le forze armate afgane, con l’intento di creare le condizioni per aumentare il numero dei militari afgani dalle 83.000 unità di oggi, a 134.000 entro la fine del 2011. Leggi tutto l’articolo

Hillary Clinton a Bruxelles: L’Europa è un partner essenziale

Diana De Vivo (da Bruxelles)

Tempi duri per l’Amministrazione statunitense, tempi in cui al centro dell’Europa si percepisce l’esigenza di una partnership globale. Tempi di programmazione, di priorità politiche, di rinsaldare nuovi legami, di rispondere prontamente alle nuove sfide.

“Stringenti i tempi, altrettanto imponenti le sfide” ha ribadito il Segretario di Stato americano Hillary Clinton nel corso dell’incontro informale tenutosi il 5 ed il 6 Marzo a Brussels con Javier Solana, Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, Benita Ferrero-Waldner, Commissario europeo per le Relazioni Esterne, Karel Schwarzenberg, Ministro degli esteri della Repubblica Ceca, a cui è attualmente assegnata la Presidenza dell’Unione e Carl Bildt, Ministro degli esteri svedese, paese che presiederà l’Ue a partire da Luglio.

La Clinton ha confermato che il Presidente Obama parteciperà al Summit informale tra Stati Uniti e Ue previsto per il 5 Aprile a Praga: “President Obama and I intend to energise the transatlantic relationship and to promote a strong European Union”, afferma il Segretario di Stato, “the EU is a union of friends and allies, we derive strength from each other.”

Il Summit US-UE seguirà il meeting del G20 che si terrà a Londra il 2 Aprile 2009 e la celebrazione del 60° anniversario della NATO prevista per il 3 ed il 4 Aprile a Strasburgo, in Francia, ed a Kehl/Baden-Baden, Germania.

Schwarzenberg ha ribadito che durante il Summit di Praga ci si confronterà sulle seguenti priorità: Afghanistan, sicurezza energetica, cambiamenti climatici, Balcani e l’area che si estende dal mediterraneo al Mar Caspio.

A distanza di un mese dall’European Sustainable Energy Week (9-13 Febbraio 2009), in cui l’Unione ha evidenziato le linee guida in materia di cambiamenti climatici ed energia sostenibile per il 2020 (Pacchetto Clima/Energia), che prevedono una riduzione delle emissioni di CO2 del 20%, il 20% di risparmio energetico ed il 20% di energie rinnovabili, l’Amministrazione statunitense, promotrice di un nuovo “green deal”, non sembra bypassare tali obiettivi, in netta controtendenza con le politiche implementate dai predecessori.

“My Presidency will mark a new chapter in America’s leadership on climate change”, annunciò Obama durante un Summit sui cambiamenti climatici tenutosi in California, prediligendo quale Segretario per la politica energetica Steven Chu, premio Nobel per la Fisica nel 1997, e direttore del Lawrence Berkeley National Laboratory, leader nel campo della ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili, tra cui la biomassa e l’energia solare.

“Tra gli Usa è l’Europa è necessaria una cooperazione ad alto livello. Io ed il Presidente Obama intendiamo ravvivare le relazioni transatlantiche e promuovere un’Europa forte, poichè un’Europa forte è un partner forte per gli Usa”, ha sostenuto la Clinton.

Sul fronte NATO il Segretario di Stato Usa ha ben più di una volta ribadito l’esigenza di un coordinamento nei differenti scenari sensibili, quali Afganistan, in cui è presente la missione europea EUPOL e Kosovo, in cui l’EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) è succeduta, dopo 9 anni, alla missione promossa dalle Nazioni Unite (UNMIK).

Non sottovalutato, nel quadro delle relazioni internazionali, il ruolo della Russia: “Lavoreremo insieme per incoraggiare la Russia a svolgere un ruolo costruttivo sul piano internazionale” hanno affermato di concerto la Clinton e Schwarzenberg, delineando un approccio non dissimile nei confronti dell’Iran, “un approccio determinato, coordinato, multilaterale”.

“Europe and the United States are united in a shared vision of the kind of future that we hope to realise.” A dispetto della crisi economica che ha spinto il mondo in una spirale recessiva, “Europe has never been more prosperous and secure”, ribadisce la Clinton. Ed ha aggiunto: “I’m confident that we are up to the task” “we don’t have a choice: we have to come together”.

Lontani anni luce dal dilemma del prigioniero, la cooperazione e la fiducia reciproca sono l’innegabile presupposto di un approccio multilaterale durevole.

Pechino-Washington: incrocio pericoloso

Le gaffe di Hillary Clinton e l’aggressività cinese

Free Tibet activists march during a peace march rally in Tokyo, Japan, Saturday, March 14, 2009. The rally marks the 50th anniversary of the failed uprising against the Chinese rule in their homeland. (AP Photo/Itsuo Inouye)
Free Tibet activists march during a peace march rally in Tokyo, Japan, Saturday, March 14, 2009. The rally marks the 50th anniversary of the failed uprising against the Chinese rule in their homeland. (AP Photo/Itsuo Inouye)

Anthony M. Quattrone

Quando lo scorso 20 febbraio, il Segretario di stato americano, Hillary Clinton, dichiarò che le violazioni dei diritti civili da parte dei cinesi non dovevano impedire una fattiva collaborazione fra gli Stati Uniti e la Cina sugli altri temi, come la crisi economica globale, il cambiamento climatico, e sulle minacce alla sicurezza da parte di paesi come la Corea del Nord, molti attivisti nel campo dei diritti civili rimasero alquanto perplessi, se non totalmente sorpresi.  Amnesty International si è affrettata a ricordare alla signora Clinton che, “gli Stati Uniti sono fra i pochi paesi al mondo che possono affrontare la Cina sulla questione dei diritti umani”.  Secondo Amensty International, “il popolo cinese è in una situazione gravissima, con mezzo milione di persone che sono attualmente imprigionate in campi di lavoro, con molte donne obbligate ad abortire, e altre che sono sterilizzate per garantire la politica demografica cinese, che prevede solo un figlio a coppia”.

Il tempismo delle dichiarazioni della Clinton è stato particolarmente sfortunato, se si considera che nel 2009 ricorrono due anniversari molto significativi nel campo dei diritti civili e della libertà.  Il 10 marzo è stato il cinquantesimo anniversario della fallita rivolta del popolo tibetano, che nel 1959, fu schiacciato nel sangue da parte del cosiddetto “esercito di liberazione” cinese, portando poi all’esilio di Sua Santità il 14mo Dalai Lama.  Il prossimo 4 giugno sarà il ventesimo anniversario dell’eccidio di Piazza Tienanmen di Pechino, quando, nel 1989, centinaia, se non migliaia, di pacifici manifestanti cinesi furono massacrati dalle forze armate.  Due massacri a distanza di 30 anni l’una dall’altra, sono ancora oggi vivi nella memoria di tutti coloro che amano la libertà, la democrazia, e credono nell’autodeterminazione dei popoli.

Il governo americano ha voluto rimediare subito al malumore creato dalle dichiarazioni della Clinton, con due interventi che hanno scatenato una furibonda reazione da parte dei cinesi.  Il primo si riferisce al rapporto annuale pubblicato dal Dipartimento di Stato, sullo status dei diritti umani nel mondo.  Il documento, pubblicato il 25 febbraio 2009, firmato proprio da Hillary Clinton, come capo del Dipartimento di Stato, accusa la Cina di aver incrementato la repressione culturale e religiosa in Tibet ed in altre zone del paese, aumentando anche il numero degli arresti e degli abusi nei confronti di cittadini appartenenti alle diverse minoranze.  Per il Dipartimento di Stato, la situazione dei diritti umani in Cina è rimasta a livelli bassi, ed in alcune zone del paese è addirittura peggiorata.  Le autorità cinesi, secondo il rapporto, permettono uccisioni extragiudiziarie, l’uso della tortura, l’estorsione di confessioni dai prigionieri, e fanno anche largo uso di campi di lavoro, limitando il diritto alla privacy, il diritto di parola, di assemblea, di movimento, e di associazione.  Purtroppo, secondo quanto dichiara il Dipartimento di Stato Usa, la repressione cinese e la violazione dei diritti umani è aumentata proprio durante le Olimpiadi di Pechino, nell’agosto del 2008, ed anche alla fine dell’anno, in occasione di una petizione firmata sull’internet da ottomila cinesi, in cui si chiede l’ampliamento dei diritti di espressione. Leggi tutto l’articolo

L’agenda economica ed estera di Obama

US 100 dollar notes are checked at a bank. US authorities launched a new phase of their bank rescue plan including a requirement for so-called stress tests on the "capital adequacy" of troubled major commercial banks. (AFP/File/Jung Yeon-Je)
US 100 dollar notes are checked at a bank. US authorities launched a new phase of their bank rescue plan including a requirement for so-called stress tests on the "capital adequacy" of troubled major commercial banks. (AFP/File/Jung Yeon-Je)

Marco Maniaci

L’era Obama è appena cominciata e si inizia a respirare già l’aria del cambiamento.  La sfida che sta affrontando è difficile, ma il nuovo presidente lo sta facendo a muso duro e nel migliore dei modi, almeno in questa prima fase.

Le priorità in questo momento sono tante e l’agenda presidenziale è ricca di appuntamenti, a partire dalla soluzione della crisi che sta investendo il mondo economico che senza una giusta cura potrebbe mettere totalmente in ginocchio gli Stati Uniti d’America.  Il PIL americano ha subito nell’ultimo trimestre la più forte contrazione dall’inizio degli anni ’80, circa 3,8%.  Secondo molti analisti questo dato dimostra la possibilità che il peggio deve ancora venire.   Anche Obama non si è nascosto:  per lui il PIL non è solo un concetto numerico-economico , ma significa anche il disastro che si sta abbattendo sulle famiglie americane. Il primo round di questa battaglia Obama  l’ha vinto: è riuscito, infatti, a far approvare dal senato il maxi-piano di salvataggio dell’economia americana, una manovra da 787 miliardi di dollari. Il piano prevede  una forte riduzione della pressione fiscale sulle famiglie americane e una serie di sgravi fiscali per le aziende. Una voce importante è quella riguardante i fondi per l’ammodernamento di ponti e strade. Per evitare il collasso appunto, il nuovo inquilino della Casa Bianca utilizzerà  questi soldi approntando delle misure sulla scia del New Deal di Roosevelt:  il rifacimento di intere strade, ponti, palazzi e altre opere edilizie che non sono state ristrutturate negli Stati Uniti da quasi cento anni, potrebbe almeno salvare tantissimi posti di lavoro creando nuova occupazione.

Ma la sfida di Obama è ancora più grande e per ampliare l’occupazione, messa a rischio dalla crisi, si sta anche progettando  la modernizzazione del sistema informatico americano. Il presidente Obama,  inoltre, ha indirizzando la sua azione anche verso una nuova politica ecologica, che poi è strettamente legata alla questione energetica.  Infatti il nuovo corso di Obama in politica economica si può definire un New Deal verde.  Il neopresidente si sta apprestando a portare una rivoluzione nel mondo del mercato automobilistico con la revisione delle leggi Bush in materia di gas di scarico.  Il presidente ha autorizzato la California e altri 13 stati dell’unione a fissare standard più severi sui gas di scarico delle automobili e in generale anche un netto miglioramento dell’efficienza energetica. Questa nuova politica è anche il coronamento dell’azione guidata dal governatore Schwarzenneger e da altri governatori dell’Unione, i quali erano fortemente critici verso la politica ambientale dell’ex presidente Bush.

Il presidente americano ha anche portato una nuova ventata di ottimismo nei rapporti con i partner internazionali. Il G7 che si è tenuto in questi giorni a Roma tra i ministri dell’economia dei sette paesi più industrializzati oltre a fissare dei nuovi punti per riscrivere le regole del nuovo ordine mondiale del sistema finanziario cercando di creare una nuova Bretton Woods, ha portato anche un nuovo corso nei rapporti economici tra gli USA e gli altri stati:”Gli Stati Uniti collaboreranno con i partner del G7 e del G20 per costruire il consenso sulla riforma del sistema finanziario”, sono queste le parole del nuovo segretario al tesoro americano Timothy Geithner, aggiungendo che “gli Stati Uniti resisteranno ad ogni forma di protezionismo”. Leggi tutto l’articolo

Iraq: La guerra di Bush

Anthony M. Quattrone

In this image from APTN video, a man, centre throws a shoe at US President George W. Bush, background left, during a news conference with Iraq Prime Minister Nouri al-Maliki, Sunday, Dec. 14, 2008, in Baghdad, Iraq. On an Iraq trip shrouded in secrecy and marred by dissent, President George W. Bush on Sunday hailed progress in the war that defines his presidency and got a size-10 reminder of his unpopularity when a man hurled two shoes at him during a news conference. (AP Photo)
In this image from APTN video, a man, centre throws a shoe at US President George W. Bush, background left, during a news conference with Iraq Prime Minister Nouri al-Maliki, Sunday, Dec. 14, 2008, in Baghdad, Iraq. On an Iraq trip shrouded in secrecy and marred by dissent, President George W. Bush on Sunday hailed progress in the war that defines his presidency and got a size-10 reminder of his unpopularity when a man hurled two shoes at him during a news conference. (AP Photo)

La presidenza di George W. Bush sarà sicuramente ricordata come quella che è iniziata con l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, è continuata con la guerra in Iraq, e si è conclusa con la più grande crisi economica registrata in America dal 1929. E’ difficile attribuire a Bush responsabilità di causa ed effetto per i due eventi che hanno marcato l’inizio e la fine della sua presidenza, mentre la guerra in Iraq è sicuramente imputabile direttamente a lui. Ha voluto la guerra, ha cercato i motivi per farla, la ha condotta come voleva, e, infine, la lascerà in eredità al nuovo presidente il 20 gennaio 2009, quando passerà le consegne a Barack Obama.

Gli attacchi terroristici contro New York e Washington nel settembre 2001 sono stati degli atti di guerra da parte di forze irregolari, non appartenenti ad alcuna nazione, ma ospitati presso uno stato sovrano, l’Afghanistan. La guerra che gli Stati Uniti hanno fatto contro questo paese, l’occupazione che è seguita, e la campagna armata ancora in corso contro Al Qaeda e i suoi alleati Taliban hanno trovato un largo consenso sia nell’opinione pubblica mondiale, sia fra i giuristi internazionali.

Quanto Bush ha fatto dopo l’occupazione dell’Afghanistan ha trovato poco consenso nel mondo. La creazione del carcere di Guantanamo, non soggetta alle leggi civili degli Stati Uniti o alle diverse Convenzioni di Ginevra, dove sono ancora ospitati circa 250 “combattenti illegali”, o persone sospettate di essere tali, ha marcato in modo indelebile la nobile tradizione della “due process” legale americana. Solo in poche altre occasioni, sempre caratterizzate dalla paura di un nemico esterno, l’America ha messo da parte il “due process”, come quando durante la Seconda guerra mondiale migliaia di americani di origine giapponese e italiana furono internati in campi di concentramento.

Durante un’intervista con l’ABC News il primo dicembre, Bush si è rammaricato sia d’essere stato colto di sorpresa dall’atto di guerra contro gli Stati Uniti, sia perché le informazioni sulle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein erano errate. Bush, tuttavia, non riesce ad ammettere che, secondo le informazioni disponibili fino ad ora, non c’era alcun collegamento fra il dittatore iracheno e gli attacchi terroristici del 2001, e che mancava una relazione di causa ed effetto. Leggi tutto l’articolo

Hillary Clinton agli esteri? Conflitto d’interesse permettendo

Anthony M. Quattrone

In this Oct. 20, 2008, file photo Democratic presidential candidate Sen. Barack Obama, D-Ill., left, and Sen. Hillary Clinton, D-N.Y. greet supporters at the end of a rally in Orlando, Fla. Former President Bill Clintons globe-trotting business deals and fundraising for his foundation sometimes put his activities abroad at odds with Sen. Hillary Rodham Clinton, and it could cause complications for her if President-elect Barack Obama considers her to be secretary of state. (AP Photo/John Raoux, File)
In this Oct. 20, 2008, file photo Democratic presidential candidate Sen. Barack Obama, D-Ill., left, and Sen. Hillary Clinton, D-N.Y. greet supporters at the end of a rally in Orlando, Fla. Former President Bill Clinton's globe-trotting business deals and fundraising for his foundation sometimes put his activities abroad at odds with Sen. Hillary Rodham Clinton, and it could cause complications for her if President-elect Barack Obama considers her to be secretary of state. (AP Photo/John Raoux, File)

La notizia della possibile nomina della senatrice di New York, Hillary Clinton, alla posizione chiave di Segretario di Stato nella nuova amministrazione americana, ha trovato largo consenso fra i commentatori e i politici americani di entrambi gli schieramenti.  Il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, ha promesso di fare un governo che dovrebbe includere avversari interni al partito democratico e anche qualche repubblicano.  Durante le primarie democratiche, Obama e la Clinton hanno sferrato duri attacchi l’uno contro l’altro, e non molti osservatori avrebbero scommesso sulla capacità del partito democratico di arrivare unito alle elezioni di novembre.  Dopo la vittoria di Obama nelle primarie, i sondaggi registravano una continua disaffezione da parte dei sostenitori della Clinton nei confronti del giovane senatore afro americano.  Tuttavia, il grosso lavoro svolto dalla senatrice di New York e da suo marito, l’ex presidente Bill Clinton, durante le ultime settimane della campagna elettorale, per convincere gli operai delle zone industriali del Paese ad appoggiare Obama, ha probabilmente contribuito in modo decisivo alla vittoria dei democratici sia alla Casa Bianca, sia al Congresso, e ha permesso un riavvicinamento fra la coppia Clinton e il presidente eletto.

La nomina della Clinton potrebbe avvenire già questa settimana, e secondo James Carville, l’ex stratega della Clinton in campagna elettorale e attuale commentatore politico per la Cnn, “c’è molta spinta in questa direzione, e potrebbe accadere”.  Diversi esponenti repubblicani di primo piano, come Henry Kissinger, che ha ricoperto il ruolo di Segretario di Stato nei governi repubblicani di Richard Nixon e di Gerald Ford, e Arnold Schwarzenegger, il governatore della California, hanno commentato molto favorevolmente le voci sulla possibile nomina della Clinton.  Kissinger ha dichiarato che la Clinton “è una donna di grande intelligenza, che ha dimostrato una grande determinazione – sarebbe un eccellente nomina”.  Per Schwarzenegger, la Clinton “è una donna molto, molto intelligente e ha grande esperienza.  Sarebbe una mossa vincente.” Leggi tutto l’articolo