Anthony M. Quattrone
Il presidente americano, Barack Obama, è sotto un tiro incrociato di critiche che provengono sia dalla destra repubblicana, sia dall’interno partito democratico per come sta reagendo alla crisi libica. In politica estera, l’America non si divide fra destra e sinistra, bensì fra idealisti e realisti, cioè, fra chi vorrebbe avanzare nel mondo i principi fondamentali su cui la democrazia americana si basa, e quelli che vorrebbero invece armonizzare la politica estera con specifici interessi americani, sia in campo economico, sia in quello legato strettamente alla sicurezza nazionale. La politica adottata da Obama nei confronti della crisi libica non soddisfa né gli idealisti, né i realisti, almeno per il momento.
C’è da registrare, tuttavia, che i critici di Obama si trovano dinanzi ad una situazione totalmente nuova per quanto riguarda il coinvolgimento americano in un’azione di guerra nella storia recente. Durante l’ultimo mese, la diplomazia di Washington è riuscita a far approvare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite diverse risoluzioni sulla questione libica, convincendo cinesi e russi a non opporre il veto, creando, nel frattempo, i presupposti per un intervento militare multilaterale, che, dopo un inizio caratterizzato da un atteggiamento francese alquanto sciovinistico, è ormai destinato a essere gestito direttamente dalla struttura militare integrata dell’Alleanza Atlantica.
Alcuni critici di Obama hanno dipinto il presidente americano come esitante e molto incerto sul da farsi, specialmente quando sono arrivate le prime notizie riguardanti le rivolte popolari in Libia. Rileggendo oggi le dichiarazioni che Obama ha fatto il 3 marzo 2011, sembrerebbe invece che il presidente americano aveva correttamente deciso di tenere aperte tutte le opzioni, da quelle puramente diplomatiche a quelle militari, mentre non esitava nel decretare la fine del regime del dittatore libico: “Permettetemi di non essere per niente ambiguo — Il Colonnello Gheddafi deve dimettersi e andare via. Questo è bene per il suo paese. E’ bene per il suo popolo. E’ la cosa giusta che deve fare”. Nel frattempo, Obama ordinava al Pentagono di procedere con la pianificazione militare e al Dipartimento di Stato di lavorare per tessere le necessarie alleanze per costringere il dittatore libico a cedere.
La pazienza del presidente americano, combinata con una rinata capacità della diplomazia americana di costruire una vasta intesa fra paesi non necessariamente alleati, ha portato a una serie d’inaspettate prese di posizione. Il 26 febbraio il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottava una risoluzione, la 1970, per stabilire un embargo nei confronti della Libia per quanto riguarda armi e altri materiali militari, autorizzando gli Stati membri dell’ONU ad adottare tutte le misure necessarie per garantire una pronta ed efficace assistenza umanitaria. Il 12 marzo 2011, il Consiglio della Lega degli Stati Arabi sollecitava l’imposizione di una zona di “non volo” all’aviazione militare libica e di istituire zone di sicurezza in luoghi esposti al fuoco quale misura precauzionale per consentire la protezione del popolo libico e dei cittadini stranieri residenti in Libia. Il 17 marzo 2011, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottava una risoluzione, la 1973, imponendo una “no-fly zone” nei cieli della Libia e permettendo una più vigorosa operazione di polizia internazionale per impedire l’afflusso di armi e mercenari a sostegno di Gheddafi.
Ventidue giorni dopo il discorso del 3 marzo 2011, e dopo otto giorni dall’approvazione della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Obama è riuscito a convincere gli alleati europei a incanalare e coordinare sotto la guida della NATO tutti gli sforzi per fermare Gheddafi. Il presidente americano è anche riuscito a convincere gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar a inviare aerei militari che parteciperanno all’implementazione della “no-fly zone”. La guerra contro Gheddafi, fatta o per motivi idealisti, nell’appoggiare la rivolta popolare, o per interessi strategici legati alle fonti di energia e ai pericoli connessi al terrorismo internazionale, non potrà essere considerata una guerra “made in the USA”, né da parte delle masse popolari arabe e islamiche, né da parte degli anti-americani tradizionali.
Alcuni repubblicani, che sono critici della decisione del presidente d’intervenire militarmente in Libia, hanno accusato Obama di coinvolgere l’America in una terza guerra che il paese non può permettersi di fare a causa del deficit pubblico. Gli stessi repubblicani, tuttavia, non hanno mosso alcuna critica per la cifra di mille miliardi di dollari spesi sino ad ora nelle due guerre iniziate da Bush in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003.
Ora Obama dovrà chiarire al popolo americano quale dovrà essere la “end state”, il risultato finale, dell’intervento internazionale in Libia. Che cosa l’America è disposta ad accettare? E’ ipotizzabile una Libia divisa in due, con una parte in mano a Gheddafi, e l’altra controllata dai ribelli di Bengasi? Oppure Obama vuole mettere la parola fine al capitolo Gheddafi? E se la guerra dal cielo e l’embargo navale non fossero sufficienti per fare capitolare Gheddafi, che cosa si fa? Nei prossimi giorni, la Casa Bianca sarà chiamata a definire in modo inequivocabile la “end state”.