Libia: La pazienza di Obama

Anthony M. Quattrone

A map illustrating the situation in Libya on the seventh day of coalition airstrikes against Moamer Kadhafi. (AFP/Graphic)

Il presidente americano, Barack Obama, è sotto un tiro incrociato di critiche che provengono sia dalla destra repubblicana, sia dall’interno partito democratico per come sta reagendo alla crisi libica.  In politica estera, l’America non si divide fra destra e sinistra, bensì fra idealisti e realisti, cioè, fra chi vorrebbe avanzare nel mondo i principi fondamentali su cui la democrazia americana si basa, e quelli che vorrebbero invece armonizzare la politica estera con specifici interessi americani, sia in campo economico, sia in quello legato strettamente alla sicurezza nazionale.  La politica adottata da Obama nei confronti della crisi libica non soddisfa né gli idealisti, né i realisti, almeno per il momento.

C’è da registrare, tuttavia, che i critici di Obama si trovano dinanzi ad una situazione totalmente nuova per quanto riguarda il coinvolgimento americano in un’azione di guerra nella storia recente.  Durante l’ultimo mese, la diplomazia di Washington è riuscita a far approvare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite diverse risoluzioni sulla questione libica, convincendo cinesi e russi a non opporre il veto, creando, nel frattempo, i presupposti per un intervento militare multilaterale, che, dopo un inizio caratterizzato da un atteggiamento francese alquanto sciovinistico, è ormai destinato a essere gestito direttamente dalla struttura  militare integrata dell’Alleanza Atlantica.

Alcuni critici di Obama hanno dipinto il presidente americano come esitante e molto incerto sul da farsi, specialmente quando sono arrivate le prime notizie riguardanti le rivolte popolari in Libia.  Rileggendo oggi le dichiarazioni che Obama ha fatto il 3 marzo 2011, sembrerebbe invece che il presidente americano aveva correttamente deciso di tenere aperte tutte le opzioni, da quelle puramente diplomatiche a quelle militari, mentre non esitava nel decretare la fine del regime del dittatore libico: “Permettetemi di non essere per niente ambiguo — Il Colonnello Gheddafi deve dimettersi e andare via.  Questo è bene per il suo paese. E’ bene per il suo popolo. E’ la cosa giusta che deve fare”.  Nel frattempo, Obama ordinava al Pentagono di procedere con la pianificazione militare e al Dipartimento di Stato di lavorare per tessere le necessarie alleanze per costringere il dittatore libico a cedere.

La pazienza del presidente americano, combinata con una rinata capacità della diplomazia americana di costruire una vasta intesa fra paesi non necessariamente alleati, ha portato a una serie d’inaspettate prese di posizione.  Il 26 febbraio il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottava una risoluzione, la 1970, per stabilire un embargo nei confronti della Libia per quanto riguarda armi e altri materiali militari, autorizzando gli Stati membri dell’ONU ad adottare tutte le misure necessarie per garantire una pronta ed efficace assistenza umanitaria.  Il 12 marzo 2011, il Consiglio della Lega degli Stati Arabi sollecitava l’imposizione di una zona di “non volo” all’aviazione militare libica e di istituire zone di sicurezza in luoghi esposti al fuoco quale misura precauzionale per consentire la protezione del popolo libico e dei cittadini stranieri residenti in Libia.  Il 17 marzo 2011, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottava una risoluzione, la 1973, imponendo una “no-fly zone” nei cieli della Libia e permettendo una più vigorosa operazione di polizia internazionale per impedire l’afflusso di armi e mercenari a sostegno di Gheddafi.

Ventidue giorni dopo il discorso del 3 marzo 2011, e dopo otto giorni dall’approvazione della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Obama è riuscito a convincere gli alleati europei a incanalare e coordinare sotto la guida della NATO tutti gli sforzi per fermare Gheddafi.  Il presidente americano è anche riuscito a convincere gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar a inviare aerei militari che parteciperanno all’implementazione della “no-fly zone”.  La guerra contro Gheddafi, fatta o per motivi idealisti, nell’appoggiare la rivolta popolare, o per interessi strategici legati alle fonti di energia e ai pericoli connessi al terrorismo internazionale, non potrà essere considerata una guerra “made in the USA”, né da parte delle masse popolari arabe e islamiche, né da parte degli anti-americani tradizionali.

Alcuni repubblicani, che sono critici della decisione del presidente d’intervenire militarmente in Libia, hanno accusato Obama di coinvolgere l’America in una terza guerra che il paese non può permettersi di fare a causa del deficit pubblico.  Gli stessi repubblicani, tuttavia, non hanno mosso alcuna critica per la cifra di mille miliardi di dollari spesi sino ad ora nelle due guerre iniziate da Bush in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003.

Ora Obama dovrà chiarire al popolo americano quale dovrà essere la “end state”, il risultato finale, dell’intervento internazionale in Libia.  Che cosa l’America è disposta ad accettare? E’ ipotizzabile una Libia divisa in due, con una parte in mano a Gheddafi, e l’altra controllata dai ribelli di Bengasi?  Oppure Obama vuole mettere la parola fine al capitolo Gheddafi?  E se la guerra dal cielo e l’embargo navale non fossero sufficienti per fare capitolare Gheddafi, che cosa si fa?  Nei prossimi giorni, la Casa Bianca sarà chiamata a definire in modo inequivocabile la “end state”.

Le tre taiettorie della politica estera di Obama

Apertura all’Islam, cambio di rotta in Afghanistan, e riduzione dell’arsenale atomico nel mondo: Barack va spedito

U.S. President Barack Obama speaks during a news conference at the end of the Nuclear Security Summit in Washington, April 13, 2010.… Read more » REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

La politica estera del presidente americano Barack Obama si è sviluppata, fino a questo momento, su tre principali traiettorie: l’apertura nei confronti del mondo islamico, il cambio di rotta nella conduzione della guerra in Afghanistan, e la riduzione e il controllo delle armi nucleari nel mondo.

La prima traiettoria, l’apertura degli Usa nei confronti del mondo islamico, è molto ambiziosa sia a causa del pregiudizio dell’americano medio che associa il terrorismo all’Islam, sia per la percezione del mondo islamico che gli Usa sono sempre dalla parte di Israele, contro i palestinesi e la nazione araba in generale.  Con il discorso che ha tenuto all’Università del Cairo il 4 giugno 2009, Obama ha cercato di mettere in risalto le cose che la cultura americana e quella islamica hanno in comune, lanciando messaggi di rispetto, tolleranza, e condivisione.  Il percorso di avvicinamento fra Islam e America è ancora lungo e pieno di ostacoli che dovranno essere affrontati e superati con pazienza e molto realismo. Uno dei maggiori ostacoli rimane il conflitto fra Israele e palestinesi, che continua ad alimentare sentimenti antiamericani in tutto il Medio Oriente. L’atteggiamento intransigente da parte di alcuni governanti israeliani, così come le discutibili iniziative riguardanti la presenza di coloni israeliani in territori arabi e palestinesi, e le recenti decisioni di autorizzare la costruzione di nuove unità abitative ebraiche a Gerusalemme creano nuovi ostacoli per la politica di avvicinamento nei confronti dell’intero mondo islamico.  Per il generale David H. Petraeus, il comandante delle forze militari Usa nel Medio Oriente e uno dei massimi strateghi militari americani di tutti i tempi, il conflitto fra Israele e i palestinesi tocca direttamente gli interessi nazionali americani, creando un ambiente poco sicuro per le forze militari Usa in tutto il Medio Oriente. Leggi tutto l’articolo

Obama, niente più sconti alla Cina

The Dalai Lama delivers a speech in Washington, DC in October 2009. The White House is standing tough on President Barack Obama's plans to meet with the Dalai Lama in February 2010, firmly rejecting Chinese pressure to snub him as rows escalate between Washington and Beijing. (AFP/File/Karen Bleier)

Dall’incontro con Dalai Lama alle presioni sullo yuan passando per le armi a Taiwan: la musica è cambiata

Anthony M. Quattrone

Il presidente americano, Barack Obama, a un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca, ha deciso di cambiare politica nei confronti della Cina comunista. Prima della sua visita a Pechino, lo scorso novembre, Obama ha tenuto un atteggiamento particolarmente prudente e attento nei confronti delle sensibilità cinesi, evitando di sollevare pubblicamente qualsiasi argomento controverso, dai diritti civili all’economia, alle questioni generali di politica estera. Da qualche giorno i toni sono concretamente cambiati, e si ravvisa una decisa pressione politica americana nei confronti del colosso asiatico per quanto riguarda la politica estera e militare, i diritti civili, e l’economia.Ormai sembrerebbe far parte di un passato remoto la dichiarazione che il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha fatto durante la sua prima visita ufficiale a Pechino un anno fa, quando disse che i diritti civili non dovevano interferire nei rapporti fra Stati Uniti e Cina, causando non poche perplessità fra chi guarda all’America come il massimo difensore della libertà e dei diritti umani. Poche settimane fa, infatti, dopo che Google ha denunciato atti di pirateria informatica da parte di hacker cinesi, presumibilmente ingaggiati dalle autorità di Pechino per violare le caselle postali “g-mail” di noti attivisti per i diritti civili, la Clinton ha apertamente criticato la Cina per la censura che impone sui motori di ricerca dell’Internet, sostenendo la necessità di “un unico Internet, dove l’intera umanità abbia eguale accesso al sapere e alle idee”.

Il presidente Obama aveva chiaramente indicato durante la sua visita in Cina che la questione dei diritti civili era e rimane importante per gli Usa, ma, a parte qualche moderata dichiarazione pubblica, ha evitato, durante la visita, di riportarla al centro della politica americana nei confronti di Pechino, preferendo di puntualizzare i punti di accordo fra i due Paesi. Sembrava che il presidente e i suoi massimi collaboratori sperassero che attraverso una silenziosa politica nel retroscena, si poteva ottenere di più dai cinesi. Forse, oggi, il presidente si è reso conto che la massima di Mao Tse Tung, che la contraddizione interna è più importante di quella esterna, è ancora valida in Cina, dove gli equilibri politici interni al Partito comunista sono più importanti dei rapporti internazionali e di qualsiasi fattore esterno. Leggi tutto l’articolo

Afghanistan: Ora è la guerra di Obama

Il messaggio è chiaro: agli avversari, Obama tende la mano, mentre a chi ha deciso di essere un nemico mortale per l’America, mostra la canna del fucile.

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama greets cadets after speaking about the war in Afghanistan at the U.S. Military Academy at West Point, N.Y., Tuesday, Dec. 1, 2009. (AP Photo/Charles Dharapak)

Il titolo d’apertura del giornale non ufficiale delle forze armate americane Stars and Stripes del 2 dicembre 2009 è emblematico: “Ora è la guerra di Obama”. Il discorso che il presidente americano Barack Obama ha tenuto martedì all’accademia militare di West Point, quando ha annunciato l’invio di 30 mila soldati in Afghanistan “finire il lavoro iniziato otto anni fa”, suggella la sintonia fra la Casa Bianca e i vertici delle forze armate americane, che forse non era stata contemplata da parte del Pentagono come possibile un anno fa, quando Obama è stato eletto. Il titolo del giornale è quasi liberatorio nei confronti del peggior incubo che qualsiasi soldato americano può avere, vale a dire, quello che il suo Comandante in Capo, non lo sosterebbe, mentre è in corso la guerra. Con il suo discorso, Obama ha chiarito ogni dubbio, dopo aver studiato a fondo le opzioni presentate dai vertici militari, e anche dagli analisti civili, su come finire il lavoro in Afghanistan, e ha optato per l’invio delle truppe a sostegno del lavoro del generale Stanley McChrystal.

Il discorso di Obama dinnanzi ai cadetti, trasmesso in diretta televisiva, è servito anche per rassicurare i militari che il paese non sarà vittima della sindrome del Vietnam, della guerra che si perde a Washington, nei palazzi della politica, ancora prima di essere combattuta sul campo. Le differenze fra Afghanistan e Vietnam sono lampanti, secondo il presidente. In Afghanistan, a differenza del Vietnam, l’America combatte assieme ad un’alleanza di 43 paesi, che considerano legittimo l’intervento americano contro i taleban. A differenza del Vietnam, in Afghanistan, l’America non si trova a lottare contro un’insurrezione appoggiata da larghi strati della popolazione. Per Obama, è di fondamentale importanza il fatto che gli Usa combattono in Afghanistan contro al Qaida, e contro i taleban che li hanno ospitati nel paese, ovvero contro coloro che hanno sferrato il criminale attacco dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington.

La chiamata alle armi di Obama e la decisione di appellarsi agli alleati della NATO per portare a termine il lavoro iniziato otto anni fa in Afghanistan può essere letta nella più ampia strategia che il presidente americano sta portando avanti nel rinnovamento della politica estera americana. Mentre da un lato il presidente si dimostra aperto al dialogo con tutti, dall’altro dimostra la determinazione ad usare la forza con chi minaccia in un modo serio ed inequivocabile la sicurezza Usa. Il messaggio è chiaro: agli avversari, Obama tende la mano, mentre a chi ha deciso di essere un nemico mortale per l’America, mostra la canna del fucile. Leggi tutto l’articolo

Il dopo Cina di Obama: l’agenda è fittissima

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama greets Prime Minister Manmohan Singh of India during a State Arrival ceremony in the East Room of the White House, Tuesday, Nov. 24, 2009 in Washington. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

E’ risaputo che l’agenda di un qualsiasi presidente americano è sicuramente occupata da un accavallarsi di impegni, e, quando le traiettorie di alcuni eventi si intersecano inaspettatamente, può diventare difficile per l’osservatore politico tenere il passo dei lavori presidenziali.  Nel caso di Barack Obama, o sarà per la sua relativa gioventù, o per la particolare contingenza — dopo il suo ritorno dal viaggio ufficiale in Cina, si sono susseguiti una serie di eventi politici, di cui alcune di rilevanza storica, che fanno pensare ad un attivismo presidenziale, che non lascia tempo per respirare.  Le lunghe pause fra un evento e un altro, cui ci aveva abituato George W. Bush, fanno ormai parte di un passato remoto.  L’attivismo presidenziale esige che tutto sia fatto subito, perché non c’è tempo da perdere.

Sabato scorso, 21 novembre, Obama è riuscito a convincere i 58 senatori democratici e i due indipendenti alleati dei democratici, a votare a favore del dibattito sulla riforma sanitaria, impedendo ai senatori repubblicani di portare avanti un’eventuale azione di ostruzionismo parlamentare.  Il dibattito, che inizia al rientro della festività di ieri del Thanksgiving, si concluderà prima della fine dell’anno, e Obama ha già iniziato un formidabile lavoro di convincimento nei confronti di quei pochi senatori democratici che potrebbero votare contro la riforma.  Già tre settimane fa, Obama era riuscito ad ottenere, inaspettatamente, il voto favorevole della Camera a sostegno della riforma sanitaria, superando anche le divisioni interne al partito democratico, fra conservatori e progressisti. Anche al Senato, così come alla Camera, la destra democratica è preoccupata per la copertura economica della riforma sanitaria, e non vorrebbe che questa vada cercata attraverso l’incremento della tassazione sui redditi dei ceti medi.

Lunedì 23, poi,Obama si è riunito con il “consiglio di guerra”, composto dai suoi più stretti collaboratori in materia di sicurezza nazionale, per arrivare ad una soluzione rispetto alla richiesta fatta dal generale Stanley McChrystal, il comandante americano delle forze NATO in Afghanistan, di aumentare il numero dei soldati americani dispiegati nel paese, ricalcando il successo della strategia del “surge”, elaborata e attuata dal generale David Petraeus in Iraq due anni fa.  Secondo alcune notizie trapelate il 24 novembre 2009 Obama sarebbe intenzionato ad accogliere, in larga parte, la richiesta fatta di inviare almeno 30 mila soldati per rafforzare la forza Usa sul campo di battaglia.  Attualmente, in Afghanistan ci sono 68 mila militari americani e 42 mila truppe di altri paesi. Leggi tutto l’articolo

La nuova pax americana riparte dalla scacchiera asiatica

Diana De Vivo

Inizia il 13 Novembre il tour diplomatico del Presidente americano Obama in Asia, una scacchiera internazionale delicata, crocevia di ancestrali culture, ineludibile punto di intersezione tra le politiche globali e gli equilibri regionali.
Spazio in ascesa, sul versante economico-politico e demografico, l’Asia tende ad occupare una posizione rilevante all’interno delle policy statunitensi, come confermato dai dossier che hanno contraddistinto gli incontri di vertice tra il Presidente statunitense ed i leader asiatici.

Clima, Corea del Nord, debito estero, squilibri commerciali: temi caldi sui quali Obama intende tessere le fila del suo approccio multilateralista, e, allo stesso tempo, restituire agli Usa un ruolo centrale nel processo di decision-making all’interno dell’area, istituendo una partnership stabile.

Malgrado la crescente popolarità delle tesi di diversi analisti che proclamano l’espulsione dagli Usa dai suoi avamposti asiatici, le tendenze attuali non sembrano confermare tale orientamento dato il supporto offerto costantemente dagli Stati Uniti ai governi della regione nella lotta al terrorismo internazionale (che possiede vaste ramificazioni all’interno del continente), e la garanzia di sicurezza fornita dall’ombrello atomico statunitense a Corea del Sud, Taiwan ed, in misura minore, Giappone.

Correggere alcune ambiguità, consolidare numerose certezze, sciogliere diversi nodi qualificano i tre imperativi categorici che hanno contraddistinto il viaggio del Presidente, incentrato interamente sul dialogo costruttivo e sulla cooperazione allargata con i leader di un continente che tende progressivamente a ritagliarsi spazi di autonomia, costruendo la propria rete di alleanze economico-finanziarie (in parte al di fuori della cornice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio) e le proprie istituzioni multilaterali, sullo slancio detonatore innescato dalla locomotiva cinese.

Ma la strada per Pechino passa da Tokyo per proseguire in seguito al vertice dell’APEC (Singapore): Obama approda in Giappone, guidato dal neo-eletto governo di Yukio Hatoyama, esponente del partito democratico, in un momento cruciale in cui le relazioni diplomatiche tra i due governi sono al punto più basso: sul banco degli imputati un accordo del 2006 che prevede lo spostamento della base militare statunitense di Okinawa dalla sua collocazione attuale, all’interno del tessuto urbano dell’isola, ad una zona meno popolata, a cui dovrebbe seguire la ricollocazione di svariate migliaia di marine americani dalla stessa Okinawa alla base di Guam, nel Pacifico.

Tale trasferimento, concepito, sin dal principio, a spese del governo giapponese, ha costituito una delle principali piattaforme elettorali di Hatoyama, favorevole alla revisione dell’accordo stesso.

Il Presidente americano ha dimostrato, in tale occasione, la volontà di consolidare la propria alleanza storica con un paese che funge da testa di ponte in un continente economicamente e politicamente in ascesa e di riconfigurare e rinnovare, nel caso specifico, la propria presenza militare in vista di un “light military footprint”.

L’idea della ripartizione di alcune cariche della governance globale sottende l’approccio multilateralista seguito da Obama in questa delicata area del continente asiatico, un orientamento politico improntato a ciò che è stato definito quale “realismo etico” (“la grande pace capitalista” di Anatol Lieven, John Hulsman). Leggi tutto l’articolo>

Obama ritorna dalla Cina a mani vuote

U.S. President Barack Obama smiles as he tours the Great Wall in Badaling, China, Wednesday, Nov. 18, 2009. (AP Photo/Charles Dharapak)

Anthony M. Quattrone

Il presidente Barack Obama ha battuto il record di George H. W. Bush per il numero di viaggi fatti all’estero durante il primo anno di un mandato presidenziale americano.  Bush padre aveva raggiunto 14 paesi, mentre Obama, con il viaggio in Asia, è arrivato già a 20.  E’ chiaro che Obama sta tentando di migliorare l’immagine degli Usa cercando di far prevalere una visione di un’America aperta al dialogo e pronta ad ingaggiare avversari o presunti tali, attraverso un confronto franco e leale.

Il viaggio in Asia, ed in particolare in Cina, tuttavia, secondo i giornalisti Helene Cooper e Edward Wong dell’International Herald Tribune, non permetterà ad Obama di portare a casa alcuna particolare concessione, né per quanto riguarda la politica economica, né sulla scottante questione dei diritti civili.  In pratica, secondo i due giornalisti, Obama non è riuscito a trovare un accordo con il presidente cinese Hu Jintao su nessuno dei temi importanti.  Non si parla di appoggio cinese per effettuare sanzioni nei confronti di Teheran per impedire agli iraniani di continuare ad ignorare la comunità internazionale sulla questione del nucleare.  I cinesi non vogliono prendere in considerazione di permettere la rivalutazione della loro moneta per paura di ridurre le esportazioni.  Sulla questione dei diritti civili, l’unico accordo raggiunto fra i due paesi è il riconoscimento che le parti hanno sostanziali divergenze.

Secondo Eswar Prasad, un sinologo della Cornwell University, i cinesi hanno magistralmente gestito la scena, amplificando le dichiarazioni di Obama a favore delle politiche cinesi, nascondendo le differenze, come nel caso della questione dei diritti civili e la politica monetaria cinese.  Anche quando ad Obama è stato permesso di condurre una discussione pubblica con gli studenti a Shangai, seguendo il formato della “town-hall meeting” ormai diventato comune negli appuntamenti politici negli Usa, i cinesi si sono affrettati a riempire la sala con fedeli studenti iscritti alla gioventù comunista, o figli di membri del partito.  In breve, non c’è niente di nuovo dietro la grande muraglia del comunismo cinese, a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino.

Lo staff di Obama, tuttavia, è dell’opinione che l’obiettivo principale della visita presidenziale in Cina è stato raggiunto, perchè, senza offendere l’interlocutore, sono stati sollevati alcune questioni di principio, come quelle inerenti ai diritti umani e quelli civili, in un ambito privato, lontano dalle telecamere.  Secondo Michael A. Hammer, portavoce del Consiglio nazionale per la sicurezza americana, “Siamo venuti per parlare schiettamente a proposito di quei temi che sono importanti per noi, senza farlo in un modo inutilmente offensivo, seguendo lo stile rispettoso di Obama”. Leggi tutto l’articolo

Il difficile dialogo tra Iran e Occidente

Chief of the International Atomic Energy Agency (IAEA), Mohamed ElBaradei (L), and Iran's Nuclear Chief Ali Akbar Salehi (R) hold a press conference in Tehran on October 4, 2009. ElBaradei said that his inspectors will check Iran's new uranium facility being built near the holy city of Qom on October 25. (ATTA KENARE/AFP/Getty Images)

Marco Maniaci

Il vertice a Vienna tra i cinque membri permanenti dell’Onu (USA, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia, più la Germania, cioè il 5+1) e il governo iraniano sulla questione del nucleare, dopo gli iniziali segnali positivi dell’incontro di Ginevra di inizio mese, si trova ad una svolta. Infatti, il presidente Ahmadinejad ha dichiarato ”che le potenze occidentali sono passate da una politica di confronto alla cooperazione nella questione del nucleare, per questo ora possiamo collaborare, ma non cambieremo la nostra posizione sul diritto al nucleare”, parole che forse possono essere valutate come un ribaltamento decisivo.  L’Iran aveva rinviato la firma sull’accordo che prevedeva che l’80 per cento dell’uranio dichiarato fosse portato in Russia per essere arricchito. Il governo di Teheran aveva preso tempo, probabilmente anche per divergenze interne.  Non sono neanche mancati poi, momenti in cui il vertice stava per fallire totalmente a seguito degli attentati suicida verso i vertici della guardia nazionale iraniana, che ha portato alla morte di 40 persone nella regione sud-orientale del Baluchistan, con la conseguente denuncia di Teheran su responsabilità di agenti segreti appartenenti ad apparati di intelligence straniere.  Accusando in pratica i governi di Washington e Londra.

Il processo di distensione tra Iran di Ahmadinejad e gli USA di Barak Obama aveva avuto avvio il primo ottobre a Ginevra.  Durante questo vertice, Teheran aveva accettato di discutere con il 5+1 di questioni riguardanti il nucleare.  Inoltre aveva invitato il responsabile dell’AIEA, Mohammed el Baradei, a ispezionare gli impianti siti nei pressi della città sciita di Qom.

Intorno a questo impianto, solo poche settimane prima, la tensione tra l’Iran e la comunità internazionale, e specialmente gli Stati Uniti, era tornata a crescere.  Infatti, il governo di Teheran aveva rivelato, proprio durante il vertice del G20 di Pittsburgh, la presenza di un altro impianto segreto per l’arricchimento dell’uranio.
Per Obama, e per i suoi alleati europei, questo era stato un altro segno del doppio gioco iraniano. Washington aveva dichiarato di non credere  alla buona fede del governo degli ayatollah, in quanto le intelligence occidentali erano a conoscenza di questo secondo impianto da tempo, e raccoglievano prove e informazioni più forti per poter dimostrare l’inganno dell’Iran al mondo. Leggi tutto l’articolo

Il nuovo corso della politica estera Usa

US Vice President Joseph Biden (l) and Czech Prime Minister Jan Fischer (unseen) review a guard of honor at the start of their meeting. The Czech Republic said it was ready to take part in a new US missile defence plan, after visiting US Vice President Joe Biden also won backing from fellow NATO allies Poland and Romania. (AFP/Michal Cizek)
US Vice President Joseph Biden (l) and Czech Prime Minister Jan Fischer (unseen) review a guard of honor at the start of their meeting. The Czech Republic said it was ready to take part in a new US missile defence plan, after visiting US Vice President Joe Biden also won backing from fellow NATO allies Poland and Romania. (AFP/Michal Cizek)

Anthony M. Quattrone

La politica estera americana, diretta dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, sta uscendo dal binomio Iraq-Afghanistan in cui il presidente George W. Bush la relegò durante gli otto anni del suo mandato, e riprende quota con una presenza attiva sull’intero scacchiere internazionale.  La politica dell’apertura e del dialogo, promesso da Barack Obama durante la campagna elettorale per le presidenziali USA del 2008, ha definitivamente preso il sopravvento sulla politica dell’intervento unilaterale, che ha caratterizzato gli anni post-11 settembre, in cui si è arrivati a teorizzare, dandone una parvenza di legalità, anche la possibilità di effettuare interventi di guerra preventiva, com’è effettivamente accaduto nel caso dell’invasione dell’Iraq nel marzo 2003.

Con l’approvazione da parte del Senato Usa il 20 ottobre 2009 di un provvedimento che consentirà l’ingresso sul suolo statunitense dei prigionieri attualmente detenuti a Guantanamo, Obama potrà attuare anche la promessa fatta durante la campagna elettorale di chiudere il carcere, migliorando l’immagine degli Stati Uniti all’estero, ed in particolare nel mondo islamico.  Il provvedimento, approvato con una larga maggioranza di 79 a 19, permetterà ai prigionieri islamici internati a Guantanamo di essere detenuti sul suolo americano, dove potranno essere processati davanti ai tribunali civili o militari, dando la possibilità ad Obama di svuotare “Camp X-Ray” a breve.

L’amministrazione americana sembra intenta ad ottenere un largo numero di piccoli successi, quasi per dimostrare che la via del dialogo può essere praticata, nell’attesa di poter completare operazioni strategiche in Iraq ed in Afghanistan, semmai con il ritiro delle truppe americane.  Alcune operazioni del dipartimento di Stato sembrano mirate ad un consumo interno, proprio per convincere gli americani che la via del dialogo in politica estera è fattibile, e non riduce per niente la sicurezza o la forza americana.

Nelle ultime settimane è salito vertiginosamente l’attività del dipartimento di Stato.  La Clinton era presente a Zurigo il 10 ottobre 2009 per la firma fra Turchia e Armenia per la riapertura del confine fra i due paesi, che era stato chiuso dal 1993, e per la ripresa dei rapporti diplomatici fra i due paesi. Leggi tutto l’articolo

America-Russia, disgelo a metà

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)
US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)

La visita di Barack Obama a Mosca il 6 e 7 luglio 2009 aveva lo scopo di far ripartire i rapporti fra Stati Uniti e Russia con il piede giusto, dopo un lungo periodo d’incomprensioni. Alcune decisioni delle precedenti amministrazioni americane avevano fatto scattare reazioni basate sull’orgoglio ed il nazionalismo russo. La politica americana a favore dell’ampliamento dell’Alleanza Atlantica verso est, e l’invasione russa in Georgia, lo scorso agosto, hanno portato allo stallo la cooperazione fra i due paesi. In campagna elettorale, Obama aveva promesso di fare un “reset” del rapporto con la Russia, per rimettere in piedi una più fattiva collaborazione, mirando anche ad una drastica riduzione degli arsenali nucleari.

Obama e il presidente russo Dmitry Medvedev hanno raggiunto un accordo preliminare che dovrebbe prendere il posto del trattato sulla riduzione delle armi strategiche (START), che scade il prossimo 5 dicembre. Americani e russi possiedono oltre il 90 percento di tutte le armi nucleari, e ora mirano a diminuire i loro arsenali di almeno un terzo, riducendo il tetto attuale delle 2.200 testate strategiche a circa 1.500, entro sette anni. Il nuovo accordo prevede anche una drastica riduzione dei vettori strategici, comprendenti missili balistici, e quelli montati su sottomarini e caccia bombardieri, lasciando in piedi l’attuale sistema di verifica.

Obama è riuscito ad ottenere il transito in Russia di truppe americane dirette in Afghanistan, e la Russia ha anche ripreso il dialogo e la collaborazione militare con l’Alleanza Atlantica, sospesa dopo l’invasione della Georgia. La questione dei sistemi radar e di difesa missilistica che gli americani vorrebbero installare nella Repubblica Ceca e in Polonia, rimane ancora aperta, ma Medvedev ha indicato che il dialogo prosegue.

Obama può sicuramente registrare un passo in avanti nei rapporti con Mosca, ma rimane una generale diffidenza da parte dei russi nei confronti degli americani. A differenza di quanto è successo nelle altre capitali, visitate negli scorsi mesi dal presidente americano, non si è registrato alcuna manifestazione di “obamamania”. Secondo alcuni sondaggi, la maggioranza dei russi è sospettosa degli americani, e considerano gli Stati Uniti colpevoli di flagranti atti di abuso di potere nelle questioni di politica internazionale. Leggi tutto l’articolo