Accordo START 2 e sicurezza nucleare

Marco Maniaci

U.S. President Barack Obama (L) shows the way to China's President Hu Jintao at the Nuclear Security Summit in Washington, April 12, 2010. Credit: Reuters/Jim Young

Barack Obama sugli allori: sono due grossi successi, quelli ottenuti dal Presidente americano nell’arco di venti giorni.  Il primo è la ratifica a Praga, l’8 Aprile scorso, dell’accordo con la Russia del cosiddetto START 2. Il secondo successo è il risultato positivo del summit di Washington sulla sicurezza nucleare.  Due eventi che sicuramente hanno rilanciato l’immagine dell’inquilino della Casa Bianca in politica estera.

Il trattato START 2, firmato da Obama e dal suo omonimo russo, Dmitri Medvedev, prevede che i due paesi mantengano rispettivamente non più di 1.550 testate strategiche, cioè una diminuzione più incisiva rispetto all’accordo START del 1991.  Mosca, che possiede molte più testate, taglierà del trenta per cento il suo arsenale, composto di 2.500 testate nucleari.  Washington lo ridurrà invece del venticinque per cento.  L’accordo ha durata decennale e potrebbe essere rinnovato al massimo per altri cinque anni. leggi tutto l’articolo

Obama e le canaglie

Il presidente Usa alle prese con Iran e Nord Corea

South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)
South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)

Anthony M. Quattrone

l’Iran e la Corea del Nord, definiti da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, stati canaglia e parte della “Axis of Evil” (asse del male), assieme all’Iraq di Saddam Hussein, sono oggi di nuovo al centro dell’attenzione della politica estera americana, per gli stessi motivi di sette anni fa.  Entrambi i paesi progrediscono verso l’acquisizione di armi di distruzione di massa, lavorando tenacemente ai rispettivi programmi nucleari.

Il 24 maggio 2009, l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori riuniti Usa, ha dichiarato alla televisione americana ABC, che “la Repubblica islamica potrebbe sviluppare la bomba atomica entro tre anni.”  Il 25 maggio 2009, il giorno dopo le dichiarazioni di Mullen, la Corea del Nord ha fatto esplodere il suo secondo ordigno nucleare, in barba alle diffide fatte dalle Nazioni Uniti, dopo il primo test nucleare del 2006.  Nell’arco di due giorni, gli Stati Uniti, e il mondo intero si sono trovati di nuovo di fronte ad un’asse del male, ristrutturato, rielaborato, e più avanzato rispetto al 2002, ma orfano dell’Iraq di Saddam.

Se nel caso dell’Iraq è ormai assodato che non c’erano armi di distruzione di massa, nel caso dell’Iran e della  Corea del Nord, sono gli stessi governanti ad ammettere che si lavora verso l’acquisizione del nucleare, facendo pubblico sfoggio dei progressi fatti.  Il presidente americano Barack Obama forse sarà costretto ad ammettere che Bush non aveva visto male nel caso di Iran e della Corea del Nord, ma potrà continuare a sostenere che la guerra in Iraq è stato un errore che ha distolto l’America dai pericoli effettivi causati dalle politiche di Teheran and Pyongyang, in campo nucleare, e non ha permesso alle forze americane e della coalizione di completare il lavoro in Afghanistan per debellare permanentemente la presenza di al Qaeda.

Obama ora dovrà decidere quali politiche adottare nei confronti dei due paesi superstiti dell’asse del male.  Mentre l’Iran tiene aperto il discorso sul nucleare con la comunità internazionale, giocando al tira e molla sui controlli, dichiarando che mira ad usare l’atomo solo per scopi civili, la Corea del Nord non fa mistero della sua intenzione di diventare una potenza nucleare per scopi militari.  Un test missilistico in Iran non è mai connesso, pubblicamente, al programma nucleare, mentre a Pyongyang non si fanno misteri sugli obiettivi dei test, sulla gittata dei missili e sulla capacità di trasportare testate nucleari. Leggi tutto l’articolo

Obama affronta la platea islamica

Anthony M. Quattrone

Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)
Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)

Barack Obama aveva promesso lo scorso gennaio, durante il discorso che ha tenuto in occasione del suo insediamento alla presidenza americana, dinnanzi a miliardi di persone che lo hanno ascoltato in diretta televisiva, che avrebbe fatto passi rilevanti nei confronti del mondo mussulmano per eliminare pregiudizi e malintesi causati da decenni di sfiducia reciproca fra l’America e gli islamici. Obama aveva auspicato nei confronti dell’Islam, “una nuova via in avanti, basato sul rispetto reciproco, e su interessi comuni”. Il presidente, cristiano dalla nascita, ma che proviene, da parte del padre, da antenati mussulmani, conserva il secondo nome, Hussein, di chiara matrice islamica.

Ieri, Obama ha mantenuto la sua promessa di affrontare direttamente la platea islamica, tenendo un discorso di 55 minuti all’Università del Cairo, dinnanzi a tre mila studenti e accademici egiziani, e milioni di islamici attraverso la televisione. Il presidente ha esordito il suo discorso rivolgendosi direttamente alla platea egiziana, affrontando subito il tema dei rapporti fra islamici e americani: “Sono qui per cercare un nuovo inizio. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci.” Obama ha invitato americani e islamici a combattere contro i pregiudizi e gli stereotipi che creano sfiducia e risentimento.

Obama non è stato, tuttavia, timido nell’invitare gli arabi ad isolare quelle frange estremiste all’interno del mondo islamico e nel nazionalismo arabo che vogliono condurre una guerra costante contro l’America in particolare, e contro l’intero occidente, in generale. Obama ha detto che “Qualsiasi cosa pensiamo del passato, non dobbiamo rimanerne prigionieri. I nostri problemi vanno affrontati in partnership, e il progresso va condiviso. Ma la prima questione da affrontare è l’estremismo violento in tutte le sue forme. L’America non è e non sarà mai in guerra con l’Islam. Tuttavia, affronteremo senza tregua gli estremisti violenti che pongono un serio rischio alla nostra sicurezza. Il mio primo compito come presidente è quello di proteggere il popolo americano”. Leggi tutto l’articolo

Le nuove sfide della NATO

Marco Maniaci

NATO Secretary Jaap de Hoop Scheffer, Barack H. Obama, President of the United States of America, Nicolas Sarkozy, President of France, and Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany (hidden by Sarkozy) crossing the "Passerelle de deux rives" from Germany into France (NATO photo, 4 April 2009)
NATO Secretary Jaap de Hoop Scheffer, Barack H. Obama, President of the United States of America, Nicolas Sarkozy, President of France, and Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany (hidden by Sarkozy) crossing the "Passerelle de deux rives" from Germany into France (NATO photo, 4 April 2009)

C’era una volta la guerra fredda, con i suoi “blocchi” e con i suoi muri.  Da una parte i comunisti, dall’altra il mondo libero.  In quella visione del mondo la NATO sapeva quale era la sua funzione:  quella di contenimento del blocco orientale.  Negli anni novanta, con la scomparsa dell’URSS, quell’obiettivo si è esaurito.  L’ 11 settembre avrebbe potuto dare quella nuova funzione che la NATO stava cercando nel XXI secolo, ma la visione unilaterale dell’amministrazione Bush ha in pratica fatto fallire questa ipotesi.

L’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama ha, però, dato una svolta forse epocale anche in questo campo.

La sua visione della politica estera americana ha avuto un piccolo coronamento nell’ultimo vertice NATO a Strasburgo e Baden-Baden dove è riuscito a strappare l’adesione dei partner europei alla sua linea d’azione in Afghanistan.  Gli alleati della NATO parteciperanno  con uno sforzo maggiore alle operazioni militari contro i talebani e soprattutto nella stabilizzazione del paese, senza dimenticare l’incremento delle truppe in vista dell’appuntamento elettorale afgano di agosto.  Si tratta però soprattutto di addestratori che dovrebbero dar vita nel paese alla creazione di una NATO Training Mission, simile a quello creato con successo in Iraq.

Questo non fa gridare al successo pieno di Obama  da parte di alcuni commentatori, perché gli Stati Uniti sono riusciti ad ottenere solo 5.000 soldati da parte degli alleati per addestrare l’esercito locale.  Certamente non ci saranno le cifre richieste dagli statunitensi.  Ma l’ex senatore dell’Illinois si mostra però assai soddisfatto “dell’impegno concreto”offerto dagli alleati della NATO.

“Gli Stati Uniti vogliono che l’Europa rafforzi le proprie capacità militari, nell’ambito della NATO”,  in questi termini si è espresso il leader americano nella conferenza congiunta con Sarkozy prima del vertice dell’alleanza per il sessantesimo anniversario della NATO, lo scorso aprile.  Vertice della NATO, che ha segnato il ritorno, appunto, della Francia nella partecipazione della struttura militare, ha anche  ricucito, probabilmente,  lo strappo che si era avuto tra gli USA e i suoi partner europei duranti gli anni dell’amministrazione Bush, con le sue scelte in materia di politica estera.

Gli Stati Uniti auspicano, perciò, una maggiore collaborazione con gli alleati dell’altra sponda dell’Atlantico, sperando di rinnovare il ruolo dell’alleanza in vista delle nuove sfide che il colosso a stelle e strisce dovrà affrontare in questo secolo.  Un ruolo che si esprime nella lotta al terrorismo, Obama ha infatti dichiarato che “anche se George Bush non è più il presidente degli Stati Uniti, al Qaeda è ancora una minaccia”,  aggiungendo che “è più probabile che al Qaeda colpisca l’Europa che gli USA, a causa della prossimità del suo territorio.”  Ma le nuove sfide dell’alleanza non saranno solo la lotta al terrorismo o la guerra in Afghanistan, ma anche la guerra alla pirateria nelle acque internazionali, l’allargamento verso est con l’ingresso di Ucraina e Georgia, e la visione di un mondo non più bipolare o unipolare bensì multipolare con il peso sempre più enorme di paesi come la Cina e l’India .

La questione dell’allargamento della NATO ad est porta inevitabilmente poi ai rapporti con la Russia, altro tema spinoso dopo la crisi georgiana dell’estate scorsa.  Proprio questo tema potrebbe portare ad eventuali divergenze tra gli USA e i suoi alleati europei.  L’America di Bush avrebbe voluto già integrare l’Ucraina e la Georgia nella NATO, ma proprio gli europei si opposero per non urtare la Russia.   Un nuovo modo di intendere la NATO che dovrebbe portare quest’ultima ad assumere un ruolo guida nella sfida della sicurezza per questo secolo, dove il tema afghano potrà essere solo il primo banco di prova.

Per Obama (e Gates) la sfida più insidiosa

Il presidente contro la lobby militare Usa

Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)
Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)

Anthony M. Quattrone

La razionalizzazione del bilancio di previsione per il Dipartimento della difesa americano per il prossimo anno fiscale, che negli Usa inizia il primo ottobre, sarà una nuova ardua sfida per il presidente Barack Obama.  E’ in corso un durissimo braccio di ferro fra il Segretario della difesa, Robert Gates, e le potenti lobby che rappresentano gli interessi dell’immenso apparato industriale – militare, le quali, in America, hanno la capacità di influenzare, attraverso vari meccanismi, trasparenti e non, l’intera procedura decisionale concernente la sicurezza nazionale.

Se da un lato, Gates cerca di creare una concordanza fra le reali necessità del Dipartimento della difesa e le voci di spesa, dall’altro, le lobby cercano di influenzare le decisioni attraverso una campagna d’informazione nei confronti dell’opinione pubblica utilizzando due temi particolarmente sensibili e correnti in questo momento: la sicurezza nazionale e la difesa dei posti di lavoro.  Il Segretario Gates parte in svantaggio nel portare avanti la razionalizzazione, perché, da un punto di vista istituzionale, non è l’esecutivo, di cui fa parte, bensì il legislativo che controlla le stringhe della borsa della spesa.  Pertanto, negli Usa, quando le lobby trovano ostacoli nel convincere i militari a fare alcune spese, come l’acquisizione di sistemi d’arma totalmente inutili, cercano di influenzare i membri del Congresso che alla fine dovranno approvare il bilancio.  E così, anche un progetto molto analitico e razionale, proposto dai vertici delle forze armate, potrebbe essere svilito attraverso delle “earmarks” (“segnalibri”), apposti da deputati e senatori, direttamente influenzati dalle lobby.

Gates vorrebbe ridurre la spesa per quegli armamenti che sono necessari per combattere guerre di tipo convenzionale, e aumentare, invece, la capacità dei militari americani nell’affrontare le forze e le tattiche di combattimento non convenzionali, come quelle utilizzate in Afghanistan ed in Iraq.  Nel tentativo di razionalizzare la spesa, Gates ha proposto, per esempio, di ridurre la commessa per il caccia F-22, dall’attuale previsione di 381 esemplari a 187, che costano circa 80 milioni di euro cadauno, non solo per rendere disponibili più risorse per acquistare armamenti necessari per la guerra non convenzionale, ma anche perché è già in corso la produzione del caccia F-35, più moderno ed economico dell’F-22.  La decisione di Gates è stata immediatamente contrastata dai membri del Congresso eletti in Georgia, dove la produzione dell’F-22 crea occupazione per due mila lavoratori.  Il deputato repubblicano della Georgia, Tom Price, ha dichiarato che “questa decisione causerà non solo la perdita di migliaia di posti di lavoro durante un periodo critico, ma danneggia anche le risorse a disposizione per la difesa nazionale”. Il senatore repubblicano della Georgia, Saxby Chambliss è dell’opinione che “l’amministrazione Obama è disposta a sacrificare le vite dei militari americani pur di finanziare programmi domestici sostenuti dal presidente”.  Il deputato democratico della Georgia, Ike Skelton, presidente della Commissione difesa della Camera, fa quadrato con i colleghi repubblicani del suo stato, indicando che in ultima analisi sarà il Congresso, e non il Dipartimento della difesa, che dovrà decidere sulla spesa.  In breve, la riforma del bilancio della Difesa è una strada tutta in salita per l’amministrazione Obama. Leggi tutto l’articolo

La sfida iraniana: il dibattito sul nucleare

Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad
Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad

Diana De Vivo

Era il 19 Luglio, quando a Ginevra i 5+1 (5 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) concessero a Teheran due settimane di tempo per congelare il programma nucleare avviato dal paese sin dal 1978, ed in particolare l’arricchimento dell’uranio, in cambio di un pacchetto di incentivi per consentire l’avvio di colloqui preliminari con l’obiettivo di smorzare i toni delle tese relazioni diplomatiche con l’Occidente.

Di lì a poco, la risposta del Presidente iraniano Ahmadinejad, repentina ed immediata, ma non eccessivamente incline al compromesso, è stata puntualmente pubblicata sul sito internet presidenziale al termine di un colloquio a Teheran col presidente siriano Al-Assad .

“Qualsiasi negoziato cui prenderemo parte”, tuona in maniera risoluta Ahmadinejad, “sarà inequivocabilmente in linea con l’obiettivo della realizzazione del diritto dell’Iran al nucleare e la nazione iraniana non arretrerà un millimetro dai suoi diritti”.

Parole che tracciano un incolmabile solco all’interno della comunità internazionale e mirano ad inasprire gli ormai precari equilibri in Medio Oriente.

All’interno del più ampio spettro della National Security Strategy dettagliatamente stilata dall’Amministrazione Bush, lo scacchiere mediorientale si colloca, difatti, in maniera ambigua e disomogenea, data la diversa “affinità” dei paesi dell’area nei confronti degli Usa, e considerando, inoltre, che alcuni di essi, quali Iran ed a fasi alterne Siria e Libia, rientrano egregiamente nella malvista categoria dei “rogue States” (Stati canaglia).

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La buona lezione di Robert McNamara

Anthony M. Quattrone

L’esecuzione di Saddam Hussein, i dubbi sulla legittimità e l’opportunità dell’intervento in Iraq, l’apparente trattamento irregolare di prigionieri da parte delle forze militari statunitensi, e la generale confusione dell’amministrazione Bush su come uscire dal pantano iracheno, rendono attuali gli insegnamenti di Robert McNamara, catturati nel documentario, premiato con l’Oscar nel 2004, The Fog of War (Quella nebbia di guerra).

Robert McNamara è stato fra i più brillanti assistenti del presidente John Fitzgerald Kennedy, per il quale lavorò come ministro della difesa dal 1961 fino all’assassinio di quest’ultimo nel 1963.  Dopo la morte di Kennedy, McNamara servì il presidente Lyndon B. Johnson, fino al 1968, quando si dimise dinnanzi al fallimento della guerra in Vietnam, di cui era stato uno dei maggiori pianificatori.  Dopo l’esperienza governativa, McNamara diventò il presidente della Banca Mondiale dal 1968 fino al 1981.

Nel documentario girato da Errol Morris, McNamara commenta e criticamente valuta alcune decisioni prese, con il suo aiuto, dal Generale Curtis LeMay nella seconda guerra mondiale, e dai presidenti Kennedy e Johnson negli anni sessanta, soffermandosi sulla moralità e l’efficienza di tali decisioni. McNamara nota con freddezza che se gli Stati Uniti avessero perso la seconda guerra mondiale, lui sarebbe stato incriminato assieme al generale LeMay per crimini di guerra contro le popolazioni giapponesi.  LeMay ordinò il bombardamento incendiario di diverse città giapponesi nel marzo del 1945.  In una sola notte, furono uccisi 100 mila civili.  Nel documentario McNamara racconta: “Perché era così necessario lanciare una bomba nucleare se LeMay stava bruciando tutto il Giappone? E da Tokyo proseguì a lanciare bombe incendiare su altre città. Il 58% di Yokohama. Yokohama è pressappoco come Cleveland. Il 58% di Cleveland distrutto. Tokyo ha più o meno le dimensioni di New York. Il 51% di New York distrutto. Il 99% di Chatanooga, che era Toyama. Il 40% di Los Angeles, che era Nagoya. Tutto questo ancor prima di lanciare la bomba nucleare, che, a proposito, è stata lanciata su ordine di LeMay.”  McNamara prosegue: “LeMay disse, ‘Se avessimo perso la guerra, saremmo stati tutti penalmente perseguibili per crimini di guerra ’. E penso che abbia ragione. Lui, e direi anch’io, ci comportavamo da criminali di guerra. LeMay si rendeva conto che ciò che stava facendo sarebbe stato considerato immorale se avesse perso. Ma che cos’è che rende una cosa immorale se perdi e non immorale se vinci?”

L’esecuzione di Saddam è avvenuta a seguito di una condanna formulata da un legittimo tribunale di uno Stato sovrano, in conformità a prove inconfutabili sui crimini commessi contro l’umanità, in occasione del massacro di 148 sciiti nel 1982.  Saddam ha commesso altri crimini contro l’umanità, come il massacro di 182 mila curdi fra il 1987 e il 1988 usando armi di distruzione di massa, e crimini di guerra contro gli iraniani durante il conflitto fra Iraq e Iran dal 1980 al 1988, con un milione di morti.  Non c’è dubbio che Saddam era meritevole di essere condannato alla massima pena vigente nel suo paese, anche se, per quest’autore, così come per milioni di occidentali, la moralità e la legittimità della pena di morte non sono mai, in nessun caso, giustificabili.

Tuttavia, la costanza della formulazione vae victis (guai ai vinti) non sembrerebbe trovare contrasto nella politica internazionale.  La giustizia dei vincitori porta alle impiccagioni dei tedeschi a Norimberga e dei giapponesi a Tokyo, alle esposizioni dei cadaveri appesi a Piazzale Loreto, e, qualche volta, di recente, anche alla condanna all’ergastolo per crimini di guerra o contro l’umanità all’Aja.

Affinché la morte di Saddam non sia percepita come una mera vendetta di parte, sarà necessario affrontare tutte le violazioni del diritto internazionale nella conduzione della guerra irachena, senza esclusioni alcune, prendendo spunto proprio dagli insegnamenti di McNamara.

Pubblicato sull’Avanti! il 3 gennaio 2007.