Afghanistan: Le crudeli scelte di fronte ad Obama

Anthony M. Quattrone

U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)
U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)

Il presidente Barack Obama dovrà scegliere fra due “crudeli opzioni” nella conduzione della guerra in Afghanistan, come scrive l’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, sull’International Herald Tribune del 5 ottobre 2009. Per il vecchio professore di diplomazia, la richiesta di ulteriori truppe, fatte in pubblico da parte del Comandante americano in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, mette Obama di fronte ad un terribile dilemma: “Se rifiuta le raccomandazioni e l’opinione del generale McChrystal, il quale asserisce che le sue forze sono inadeguate per svolgere la missione, il presidente Obama sarà ritenuto responsabile per le drammatiche conseguenze. Se accetta la raccomandazione, i suoi oppositori potrebbero iniziare a descrivere il conflitto afgano come la guerra di Obama, almeno in parte.” Secondo Kissinger, il presidente sarà obbligato a prendere una decisione senza avere alcuna certezza sulla validità delle valutazioni che gli saranno o sono state già sottoposte.

Obama ha subito pesanti critiche dalla destra repubblicana che lo accusa di tergiversare nel prendere una decisione in merito alla strategia da adottare nella guerra in Afghanistan. Mentre alcuni repubblicani hanno apertamente attaccato il presidente, Kissinger, che ha fatto parte del governo del presidente repubblicano Richard Nixon, ha invitato tutti alla moderazione. L’ex Segretario di stato è apertamente a favore di incrementare le truppe Usa in Afghanistan, ma, seguendo la scuola del realismo nella politica estera Usa, crede che sia necessario identificare, con precisione, gli interessi strategici americani. Kissinger fa notare che altri paesi, specialmente quelli che confinano con l’Afghanistan, avrebbero maggiore interesse a stabilizzare il paese, e a rendere inefficace qualsiasi tentativo di ritorno dei Taleban dei loro alleati di al Qaida. I paesi confinanti o vicini all’Afghanistan, come la Cina, la Russia, l’India, il Pakistan, e l’Iran, secondo Kissinger, hanno sostanziali capacità belliche a disposizione per difendere i propri interessi; ma, fino ad ora, si sono tenuti relativamente in disparte, lasciando all’America il compito di intervenire, assieme agli alleati, sobbarcandosi il costo della guerra, sia in termini di vite umane, sia in termini di risorse finanziarie. Il vecchio diplomatico americano, nella sua analisi della situazione che confronta Obama, fa notare che, a differenza della guerriglia in Vietnam o della resistenza in Iraq, i Taleban non godono di un importante sostegno popolare o internazionale.  Leggi tutto l’articolo

Obama tra deficit federale e riforma sanitaria

Anthony M. Quattrone

U.S. President Barack Obama and Health & Human Services Secretary Kathleen Sebelius (R) listen to Dr. Marston Linehan (L) and Dr. Francis Collins (2nd L) during a tour of an oncology laboratory at the National Institutes of Health in Bethesda, Maryland September 30, 2009. REUTERS/Kevin Lamarque (United States)
U.S. President Barack Obama and Health & Human Services Secretary Kathleen Sebelius (R) listen to Dr. Marston Linehan (L) and Dr. Francis Collins (2nd L) during a tour of an oncology laboratory at the National Institutes of Health in Bethesda, Maryland September 30, 2009. REUTERS/Kevin Lamarque (United States)

Lo scontro in corso fra democratici e repubblicani americani sta diventando più aspro su tutti i temi della politica interna, e non mancano frecciate pesanti contro Barack Obama anche per la politica estera. L’ultimo attacco al presidente proviene dal vice capo gruppo dei repubblicani alla Camera, il deputato della Virgina, Eric Cantor, il quale ha accusato Obama, in una dichiarazione fatta al Washington Times il 30 settembre 2009, di mettere a repentaglio la vita dei soldati americani tentennando sulle proposte fatte dal Gen. Stanley McChrystal, comandante delle forze Usa e alleate in Afghanistan. Anche da parte democratica la veemenza degli attacchi contro i repubblicani sta raggiungendo toni normalmente presenti solo durante le campagne elettorali. Il deputato democratico della Florida, Alan Grayson ha descritto le proposte repubblicane per la riforma sanitaria con uno slogan, “se ti ammali, cerca di morire subito!”, causando un tumulto fra i repubblicani, che gli hanno chiesto di scusarsi formalmente.

Nel trambusto quasi elettorale, tuttavia, si comincia ad intravedere uno spiraglio per quanto riguarda un possibile compromesso sulla riforma sanitaria, che è manifestatamene al centro della politica sociale di Barack Obama.

Il presidente non perde l’occasione, durante i numerosi interventi pubblici che sta tenendo in questi giorni, di spiegare come vorrebbe riformare il sistema sanitario, e quali sono i maggiori ostacoli. La bravura di Obama nel proporre agli americani come vuole cambiare il sistema sanitario è controbilanciata dalla forte campagna che le lobby dell’industria medica portano avanti da anni. Secondo alcune stime, le assicurazioni sanitarie americane, per esempio, hanno speso non meno di 600 milioni di dollari, negli ultimi due anni, e già 130 milioni quest’anno, pari a circa 700 mila dollari al giorno, per influenzare il processo decisionale federale, ed in particolare le proposte di legge discusse dalle diverse commissioni del Congresso, cercando di apporre emendamenti favorevoli alle assicurazioni.

La commissione finanza del Senato è l’ultimo ostacolo che deve essere superato prima che la proposta di riforma voluta da Obama possa essere discussa dall’intero Senato, dove i democratici hanno una maggioranza netta. Il lavoro per trovare un compromesso fra la sinistra liberal del partito democratico, i moderati di entrambi gli schieramenti, e la destra conservatrice del partito repubblicano si svolge nel retroscena. La commissione finanza, nel frattempo, ha bocciato il 29 settembre 2009 due proposte della sinistra del partito democratico per la creazione di un’assicurazione sanitaria pubblica che avrebbe dovuto competere con quelle private, garantendo una reale concorrenza, e permettendo anche alle famiglie con meno risorse finanziarie di poter acquistare una copertura sanitaria. La stessa commissione è al lavoro per studiare alcuni emendamenti proposti dalla destra repubblicana che dovrebbero impedire agli immigrati clandestini l’accesso a qualsiasi assistenza sanitaria finanziata dal governo federale, ed eliminare il finanziamento pubblico per l’aborto. Leggi tutto l’articolo

Riforma sanitaria Usa: Obama mobilita i sostenitori

Anthony M. Quattrone

U.S. President Barack Obama delivers a speech on healthcare before a joint session of Congress in Washington, September 9, 2009. REUTERS/Jason Reed
U.S. President Barack Obama delivers a speech on healthcare before a joint session of Congress in Washington, September 9, 2009. REUTERS/Jason Reed

Il presidente Barack Obama ha lanciato, immediatamente dopo aver tenuto un discorso durante una seduta congiunta del Congresso mercoledì sera, la mobilitazione generale di tutti coloro che sono interessati all’attuazione della riforma sanitaria americana.  Obama ha mandato milioni d’email chiedendo ai sostenitori di scrivere ai membri del Congresso, affinché approvassero il passaggio delle misure proposte per riformare il sistema sanitario americano.  Obama ha deciso di intervenire direttamente, parlando al Congresso, per tentare di far uscire dall’impasse il dibattito sulla riforma sanitaria, bloccato dalle posizioni inconciliabili fra la sinistra liberal del partito democratico, marcatamente statalista, e i conservatori sia repubblicani sia del partito del presidente, che si oppongono a qualsiasi incremento del ruolo del governo nella sanità.

Il successo o il fallimento di Obama nel portare avanti la riforma sanitaria potrebbe segnare in modo indelebile l’intera storia della sua presidenza.  Obama vorrebbe riuscire, laddove Bill Clinton fallì 16 anni fa, cercando di convincere la maggioranza degli americani e i loro rappresentanti al Congresso, che è necessario adottare una via di mezzo fra un sistema sanitario basato totalmente sull’impresa privata e uno controllato completamente dallo stato, garantendo la libertà di scelta di ogni americano rispetto sia al tipo di assicurazione medica che vuole acquistare, sia come e dove ottenere le prestazioni mediche.

Obama ha incontrato ostacoli abbastanza grossi nel proporre una riforma condivisa all’interno del suo stesso partito, e ora sta pagando le conseguenze dal punto di vista del gradimento popolare.  Un sondaggio condotto nei giorni scorsi dall’AP-GfK, e annunciato poco prima del discorso di mercoledì, rilevava che il 52 percento degli americani era insoddisfatto di come il presidente stava conducendo il lavoro sulla riforma sanitaria.  L’insoddisfazione è cresciuta di ben 9 punti rispetto al sondaggio condotto a luglio, quando il 43 percento degli intervistati avevano manifestato perplessità nei confronti di Obama. Leggi tutto l’articolo

Le sfide di Obama: riforme e ripresa senza creare illusioni

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama arrives at a town hall meeting on health care in a Kroger supermarket in Bristol, Va., Wednesday, July 29, 2009.  (AP Photo/Steve Helber)
President Barack Obama arrives at a town hall meeting on health care in a Kroger supermarket in Bristol, Va., Wednesday, July 29, 2009. (AP Photo/Steve Helber)

Il presidente americano, Barack Obama, come altri leader delle nazioni maggiormente sviluppate, è alla caccia di qualsiasi segnale che possa indicare che l’economia del proprio paese sta uscendo dalla recessione e creare, in tal modo, un’atmosfera, anche psicologica, per favorire la ripresa economica.

Un buon leader stabilisce gli obiettivi da raggiungere, indica una politica da seguire e cerca di creare le condizioni per portare avanti la propria politica. I libri sulla leadership propongono alcuni concetti base, come la necessità che il leader crei una visione credibile esercitando, allo stesso momento, il ruolo di agente catalitico di tutti gli eventi che possono portare alla materializzazione della visione. La grandezza di un leader, tuttavia, si misura anche dalla capacità che questi ha nel trovare un giusto equilibrio fra la visione prospettata e quanto la popolazione vive nella realtà quotidiana.

È difficile, per Obama, parlare in modo credibile di ripresa se milioni di americani hanno perso il lavoro e la casa e non hanno più l’assicurazione sanitaria collegata al lavoro. È ancora più difficile avere una prospettiva basata sulla fiducia, quando sono pochissimi i segnali che indicano una reale inversione di tendenza dell’economia americana. È anche pericoloso, politicamente, parlare di ripresa se i segnali che arrivano dall’economia non sono comprensibili per la maggioranza degli elettori. Inoltre, alcuni indicatori economici, già difficili da comprendere per il cittadino comune, con proiezioni delle tendenze a medio termine, non sono sempre interpretati nello stesso modo dagli esperti, specialmente se questi sono consulenti di una parte politica. Leggi tutto l’articolo

La riforma sanitaria Usa – Obama in difficoltà

Anthony M. Quattrone

La presidenza di Barack Obama potrebbe essere definita dalla sua abilità di convincere il Congresso a riformare il sistema sanitario americano, entro la fine di quest’anno. Se Obama riuscirà a far approvare dal Congresso un pacchetto legislativo, condiviso da repubblicani e democratici, garantendo sia l’ampliamento della copertura sanitaria, sia una drastica riduzione dei costi causati da sprechi ed inefficienze, sarà ricordato come un grande presidente. Se Obama fallirà, la sua proposta di riforma del sistema sanitario potrebbe diventare la sua “Waterloo”, come auspica il senatore repubblicano della Carolina del sud, Jim DeMint, che augura, cinicamente, al presidente di non riuscire nel suo progetto di riforma.

Obama vorrebbe estendere la copertura sanitaria a circa 47 milioni di americani che attualmente non sono coperti né da programmi pubblici, né da quelli privati. Il presidente vorrebbe anche ridurre il costo della spesa sanitaria degli americani attraverso una serie di misure nei confronti delle assicurazioni sanitarie private, degli ospedali, le case farmaceutiche, e dei medici. La riforma proposta dai deputati democratici va nella direzione suggerita dal presidente, e offre la possibilità agli americani di scegliere fra assicurazioni sanitarie private e una nuova assicurazione pubblica.

Un sondaggio, condotto la settimana scorsa dalla GfK Roper Public Affairs & Media, rileva che il 56 percento degli americani è fiducioso che Obama riuscirà a riformare il sistema sanitario durante il suo mandato presidenziale. Tuttavia, secondo lo stesso sondaggio, solo il 50 percento degli americani approva come Obama sta portando avanti la politica per la riforma, mentre il 43 percento è contrario, indicando che il presidente sta perdendo l’appoggio degli elettori “indipendenti”.

Obama e la presidentessa della Camera, Nancy Pelosi, vorrebbero che il Congresso approvasse una serie di misure per riformare il sistema sanitario, prima dell’intervallo estivo della Camera, che quest’anno inizia il 9 agosto 2009. La presenza della maggioranza democratica sia alla Camera, sia al Senato, permetterebbe al partito di Obama di far approvare le riforme in brevissimo tempo, ma l’eterogeneità della composizione del partito democratico, dove convivono conservatori puri e progressisti liberal, non permette alla direzione democratica di poter contare su una maggioranza strettamente numerica. Nel partito democratico, un partito generalmente collocato nel centro-sinistra americano, esiste una componente di conservatori, chiamata “Blue Dog” (cane blu), che spesso, vota assieme ai conservatori repubblicani sui temi di economia, e, spesso, anche sui temi sociali. leggi tutto l’articolo

Corte Suprema Usa e paura dell’attivismo giudiziario

Anthony M. Quattrone

U.S. Supreme Court nominee Judge Sonia Sotomayor smiles while answering questions during her fourth and final day of testimony at her U.S. Senate Judiciary Committee confirmation hearings as her mother Celina Sotomayor (L) listens on Capitol Hill in Washington July 16, 2009.   REUTERS/Jason Reed
U.S. Supreme Court nominee Judge Sonia Sotomayor smiles while answering questions during her fourth and final day of testimony at her U.S. Senate Judiciary Committee confirmation hearings as her mother Celina Sotomayor (L) listens on Capitol Hill in Washington July 16, 2009. REUTERS/Jason Reed

Sono in pieno svolgimento le audizioni della commissione giustizia del Senato americano per discutere la nomina della giudice Sonia Sotomayor alla Corte suprema degli Stati Uniti, fatta dal presidente Barack Obama il 26 maggio 2009.  Il dibattito nella commissione precede la conferma ufficiale della giudice da parte del Senato durante la votazione che avverrà molto probabilmente durante la prima settimana di agosto.  La Sotomayor, se sarà confermata, andrà a sostituire il giudice progressista David Souter, che ha lasciato la Corte il 30 giugno 2009, lasciando inalterata la composizione a maggioranza conservatrice dell’attuale Corte, che vede, di solito, cinque giudici conservatori votare compatti contro quattro progressisti, solo su quelle questioni legali che si prestano a divisioni ideologiche.

E’ sicuramente particolare per uno straniero osservare come la nomina di un giudice alla massima corte può suscitare passioni politiche ad altissima tensione, con lunghe dirette che inchiodano alla televisione milioni di americani.  Ogni domanda fatta dai senatori, così come ogni risposta data dal giudice divengono oggetto di studio minuzioso e di commento da parte degli analisti politici e giudiziari.  L’attuale audizione della giudice Sotomayor è seguita dalla diretta televisiva delle reti via cavo, ed è oggetto di lunghi resoconti nei telegiornali via etere, seguendo la consolidata tradizione stabilita con le audizioni di Robert Bork, nominato nel 1987 da Ronald Reagan alla Corte Suprema, e Clarence Thomas, nominato da George  H. W. Bush nel 1991

La nomina di Bork scatenò la passione politica di milioni di liberal americani, convinti che Bork avrebbe abolito sia le leggi contro la discriminazione razziale, sia il diritto delle donne di abortire.  La campagna portata avanti dai liberal attraverso gli organi di informazione per “uccidere” politicamente Bork fu così convincente, che il Senato decise di bocciare il 23 ottobre 1987 la sua candidatura con un voto di 58 contrari e 42 favorevoli.  Le tattiche usate contro Bork da parte dei democratici hanno dato vita ad un nuovo verbo,“to bork”, ripreso dalla Oxford English Dictionary nel 2002, per definire l’attacco sistematico e brutale contro un candidato per impedire la sua elezione o nomina ad una carica pubblica. Leggi tutto l’articolo

America-Russia, disgelo a metà

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)
US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)

La visita di Barack Obama a Mosca il 6 e 7 luglio 2009 aveva lo scopo di far ripartire i rapporti fra Stati Uniti e Russia con il piede giusto, dopo un lungo periodo d’incomprensioni. Alcune decisioni delle precedenti amministrazioni americane avevano fatto scattare reazioni basate sull’orgoglio ed il nazionalismo russo. La politica americana a favore dell’ampliamento dell’Alleanza Atlantica verso est, e l’invasione russa in Georgia, lo scorso agosto, hanno portato allo stallo la cooperazione fra i due paesi. In campagna elettorale, Obama aveva promesso di fare un “reset” del rapporto con la Russia, per rimettere in piedi una più fattiva collaborazione, mirando anche ad una drastica riduzione degli arsenali nucleari.

Obama e il presidente russo Dmitry Medvedev hanno raggiunto un accordo preliminare che dovrebbe prendere il posto del trattato sulla riduzione delle armi strategiche (START), che scade il prossimo 5 dicembre. Americani e russi possiedono oltre il 90 percento di tutte le armi nucleari, e ora mirano a diminuire i loro arsenali di almeno un terzo, riducendo il tetto attuale delle 2.200 testate strategiche a circa 1.500, entro sette anni. Il nuovo accordo prevede anche una drastica riduzione dei vettori strategici, comprendenti missili balistici, e quelli montati su sottomarini e caccia bombardieri, lasciando in piedi l’attuale sistema di verifica.

Obama è riuscito ad ottenere il transito in Russia di truppe americane dirette in Afghanistan, e la Russia ha anche ripreso il dialogo e la collaborazione militare con l’Alleanza Atlantica, sospesa dopo l’invasione della Georgia. La questione dei sistemi radar e di difesa missilistica che gli americani vorrebbero installare nella Repubblica Ceca e in Polonia, rimane ancora aperta, ma Medvedev ha indicato che il dialogo prosegue.

Obama può sicuramente registrare un passo in avanti nei rapporti con Mosca, ma rimane una generale diffidenza da parte dei russi nei confronti degli americani. A differenza di quanto è successo nelle altre capitali, visitate negli scorsi mesi dal presidente americano, non si è registrato alcuna manifestazione di “obamamania”. Secondo alcuni sondaggi, la maggioranza dei russi è sospettosa degli americani, e considerano gli Stati Uniti colpevoli di flagranti atti di abuso di potere nelle questioni di politica internazionale. Leggi tutto l’articolo

Petraeus, l’Iraq, e la democrazia

Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command
Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command

Anthony M. Quattrone

La nuova strategia militare sviluppata alla fine del 2006 e attuata nel 2007 dal generale americano David Petraeus, chiamata “surge” (ondata o impennata), che prevedeva un grosso aumento della presenza delle truppe a stelle e strisce in Iraq per un limitato periodo di tempo, ha avuto successo.  Il 30 giugno 2009, i militari americani si sono ritirati da tutte le grandi città irachene, consegnando il controllo del territorio alle forze armate irachene.  Dopo due anni e mezzo dall’inizio del “surge”, la strategia del generale Petraeus ha raggiunto gli obiettivi preposti, ed è diventato il modello per la nuova strategia del presidente Barack Obama in Afghanistan.

La storia del “surge” è forse un esempio della dinamicità della democrazia americana, dove, fra tesi e antitesi, si arriva finalmente alla sintesi, bipartisan, nell’interesse del Paese.  Nel novembre 2006, quando il Congresso americano, appena passato dalla maggioranza repubblicana a quella democratica, era diviso sulla strategia che l’America doveva adottare per uscire dal pantano della guerra in Iraq, nessuno avrebbe scommesso che una strategia di incremento piuttosto che di riduzione delle forze armate Usa in Iraq, avrebbe avuto successo.

La vittoria democratica nelle elezioni del “mid-term” era considerata un mandato per bocciare, nel suo insieme, la politica del presidente repubblicano George W. Bush in Iraq.  Poco dopo le elezioni, il 6 dicembre 2006, un gruppo di studio bipartisan, l’Iraq Study Group, diretto dal repubblicano James Baker e dal democratico Lee Hamilton, aveva chiaramente indicato che c’era bisogno di idee fresche e coraggiose per permettere alle forze armate americane di lasciare l’Iraq, garantendo, allo stesso tempo, la stabilità e la pace nel paese.  Nel frattempo, anche fra i militari, le migliori menti erano al lavoro per cercare come rendere l’Iraq più sicuro, creare un quadro di riferimento in cui potesse svilupparsi la democrazia e le sue istituzioni, e stabilire un piano per il ripiegamento delle truppe Usa nel paese. Leggi tutto l’articolo

Iran: la via stretta di Obama

Inaudita violenza contro la libertà

Iranian supporters of defeated presidential candidate Mir Hossein Mousavi hold signs during a demonstration outside the Iranian consulate in Dubai on June 15. Mahmoud Ahmadinejad has again slammed US President Barack Obama for "interfering" in Iran, as debate over the Iranian president's disputed re-election continued. (AFP/File/Marwan Naamani)
Iranian supporters of defeated presidential candidate Mir Hossein Mousavi hold signs during a demonstration outside the Iranian consulate in Dubai on June 15. Mahmoud Ahmadinejad has again slammed US President Barack Obama for "interfering" in Iran, as debate over the Iranian president's disputed re-election continued. (AFP/File/Marwan Naamani)

Anthony M. Quattrone

E’ difficile non reagire emotivamente dinnanzi alle scene della violenta repressione da parte delle forze dell’ordine della Repubblica Islamica dell’Iran nei confronti di migliaia di cittadini che manifestano contro i presunti brogli elettorali.  Le immagini dei primi giorni, con i manifestanti che innalzavano cartelli con la scritta in inglese“Where is my vote?” (dov’è il mio voto?), hanno fatto spazio a scene di inaudita violenza, culminate con la morte, ripresa in diretta, della ventiseienne Neda Agha Soltan, nelle strade di Teheran, in un lago di sangue, soccorsa inutilmente dal padre e da altri manifestanti.

Chi ama la libertà e crede nello stato di diritto, nella democrazia, e nel rispetto della dignità umana dell’avversario politico non può rimanere indifferente di fronte a quanto sta succedendo in Iran.  Non importa se Mir Hossein Mousavi, il maggiore oppositore del presidente Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno 2009, sia considerato meglio o peggio di quest’ultimo.  Non importa se in passato sia stato fra i fautori del percorso iraniano verso il nucleare.  Quello che importa è che migliaia, se non milioni, di iraniani hanno alzato la voce, chiedendo giustizia, chiedendo l’annullamento delle elezioni per le troppe irregolarità denunciate in ogni zona del paese, mentre le votazioni erano ancora in corso.

Cosa fare? Appoggiare l’opposizione o evitare qualsiasi interferenza, reale o apparente, negli affari interni dell’Iran?  Nel corso degli ultimi dieci giorni, l’amministrazione del presidente Barack Obama ha dovuto mettere a punto un’elaborata strategia della comunicazione, mentre gli eventi in Iran andavano prendendo una piega drammatica.  Ai primi cenni di contestazione delle elezioni, l’amministrazione americana ha preferito astenersi da qualsiasi commento che poteva andare ad inficiare il tentativo di instaurare un dialogo con il regime di Teheran.  La politica estera proposta da Obama, già durante la campagna elettorale, è basata sul realismo piuttosto che sull’idealismo.  Obama aveva promesso che avrebbe tentato di ingaggiare l’Iran in un dibattito proficuo per entrambi i paesi, nella speranza di indurre il paese persiano ad abbandonare qualsiasi velleità di potenza nucleare, e qualsiasi favoreggiamento di gruppi intenti a praticare il terrorismo contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.

Man mano che le manifestazioni della piazza andavano intensificandosi, e le notizie degli scontri riuscivano a superare la censura imposta ai giornalisti, arrivando in tutto il mondo attraverso Internet, l’amministrazione Obama ha dovuto rielaborare la sua strategia della comunicazione nei confronti della situazione iraniana.  Il 19 giugno 2009, sette giorni dopo le elezioni iraniane, la Camera dei deputati Usa ha votato una mozione approvata da 405 deputati contro due astenuti e uno contrario, che “sostiene la lotta dei cittadini iraniani che abbracciano i valori della libertà, dei diritti umani, delle libertà civili, e dello stato di diritto”.  La mozione condanna l’uso della violenza da parte del governo iraniano nei confronti dei manifestanti, la censura degli organi di informazione, e la soppressione dei mezzi di comunicazione elettronica, come Internet e i cellulari, riaffermando l’universalità dei diritti individuali e l’importanza di elezioni giuste e democratiche. Leggi tutto l’articolo

Obama e le canaglie

Il presidente Usa alle prese con Iran e Nord Corea

South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)
South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)

Anthony M. Quattrone

l’Iran e la Corea del Nord, definiti da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, stati canaglia e parte della “Axis of Evil” (asse del male), assieme all’Iraq di Saddam Hussein, sono oggi di nuovo al centro dell’attenzione della politica estera americana, per gli stessi motivi di sette anni fa.  Entrambi i paesi progrediscono verso l’acquisizione di armi di distruzione di massa, lavorando tenacemente ai rispettivi programmi nucleari.

Il 24 maggio 2009, l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori riuniti Usa, ha dichiarato alla televisione americana ABC, che “la Repubblica islamica potrebbe sviluppare la bomba atomica entro tre anni.”  Il 25 maggio 2009, il giorno dopo le dichiarazioni di Mullen, la Corea del Nord ha fatto esplodere il suo secondo ordigno nucleare, in barba alle diffide fatte dalle Nazioni Uniti, dopo il primo test nucleare del 2006.  Nell’arco di due giorni, gli Stati Uniti, e il mondo intero si sono trovati di nuovo di fronte ad un’asse del male, ristrutturato, rielaborato, e più avanzato rispetto al 2002, ma orfano dell’Iraq di Saddam.

Se nel caso dell’Iraq è ormai assodato che non c’erano armi di distruzione di massa, nel caso dell’Iran e della  Corea del Nord, sono gli stessi governanti ad ammettere che si lavora verso l’acquisizione del nucleare, facendo pubblico sfoggio dei progressi fatti.  Il presidente americano Barack Obama forse sarà costretto ad ammettere che Bush non aveva visto male nel caso di Iran e della Corea del Nord, ma potrà continuare a sostenere che la guerra in Iraq è stato un errore che ha distolto l’America dai pericoli effettivi causati dalle politiche di Teheran and Pyongyang, in campo nucleare, e non ha permesso alle forze americane e della coalizione di completare il lavoro in Afghanistan per debellare permanentemente la presenza di al Qaeda.

Obama ora dovrà decidere quali politiche adottare nei confronti dei due paesi superstiti dell’asse del male.  Mentre l’Iran tiene aperto il discorso sul nucleare con la comunità internazionale, giocando al tira e molla sui controlli, dichiarando che mira ad usare l’atomo solo per scopi civili, la Corea del Nord non fa mistero della sua intenzione di diventare una potenza nucleare per scopi militari.  Un test missilistico in Iran non è mai connesso, pubblicamente, al programma nucleare, mentre a Pyongyang non si fanno misteri sugli obiettivi dei test, sulla gittata dei missili e sulla capacità di trasportare testate nucleari. Leggi tutto l’articolo