Ambientalisti arrabbiati con Obama

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama speaks with an F/A-18 F 'Green Hornet' jet behind him, at an event about energy security, Wednesday, March 31, 2010, at Andrews Air Force Base in Maryland. The F-18 'Green Hornet' will run partly on bio fuel. (AP Photo/Evan Vucci)

La decisione di Barack Obama di permettere la trivellazione dei fondali marini sulla costa sud orientale degli Stati Uniti è un nuovo esempio della via del compromesso adottato dal presidente americano nell’affrontare le questioni fondamentali del Paese. Ovviamente, il tentativo di costruire il consenso su di una posizione mediana lascia scontenti gli aderenti alle posizioni estreme di destra e di sinistra, così com’è successo già pochi giorni fa per la riforma sanitaria. La riforma non assomiglia più a quella proposta inizialmente dal presidente, ma comprende, invece, molte “correzioni” conservatrici suggerite dagli oppositori repubblicani e dalla destra democratica. La riforma è il frutto di oltre un anno di trattative fra tante parti interessate, rappresentati nel Congresso da senatori e deputati dei due maggiori partiti, ma anche da una rete trasversale, influenzata da lobby che hanno lavorato in modo metodico, riuscendo a rompere l’unità del partito democratico.

L’autorizzazione a trivellare alcuni fondali marini americani, in particolare quelli dal Delaware fino alla Florida, è una nuova decisione che ha richiesto coraggio da parte di Obama, perché è un compromesso che scontenta sia le industrie petrolifere che avrebbero voluto mano libera anche in tutte le acque territoriali americane, sia gli ambientalisti, che si sentono traditi dal presidente. Obama ha annunciato il suo piano il 31 marzo 2010 in un discorso alla base dell’Air Force di Andrews, alla presenza del segretario agli Interni Ken Salazar, rivolgendosi in particolare agli scontenti, ricordando che è necessario trovare una via di mezzo, un compromesso, che prenda in considerazione sia le esigenze energetiche degli Stati Uniti, sia la necessità di proteggere le risorse naturali americane. Obama ha dichiarato che, “per aumentare la crescita economica, creare posti di lavoro e mantenerci competitivi, dobbiamo sfruttare le fonti tradizionali, mentre lavoriamo per aumentare la produzione di energie rinnovabili”. Obama ha dovuto anche rassicurare gli amministratori locali repubblicani e democratici che l’autorizzazione a trivellare sarà concessa assicurando la protezione delle aree vitali per il turismo, l’ambiente e la sicurezza nazionale, evitando di essere guidati dall’ideologia politica, ma seguendo i progressi della scienza.

Il presidente ha ricordato agli americani nel suo discorso che è necessario trovare una via di mezzo sulle questioni fondamentali per il Paese. Secondo Obama è necessario “andare in avanti, oltrepassando gli stanchi dibattiti fra sinistra e destra, fra imprenditori e ambientalisti, fra chi pensa che trivellare è la cura, e quelli che pensano che non sia mai ammissibile trivellare.” Per Obama la questione energetica “è troppo importante da permettere che il nostro progresso possa languire, mentre perdiamo tempo nel condurre le stesse vecchie battaglie, trite e ritrite”. Leggi tutto l’articolo

La riforma sanitaria è fatta. Obama ringrazia Nancy Pelosi.

Anthony M. Quattrone

House Speaker Nancy Pelosi of Calif. acknowledges applause from House members after signing the Senate Health Reform Bill, Monday, March 22, 2010, on Capitol Hill in Washington. From left are, House Majority Leader Steny Hoyer of Md., Rep. George Miller, D-Calif., Rep. Louise Slaughter, D-N.Y., Rep. Chris Van Hollen, D-Md., Rep. Henry Waxman, D-Calif., Pelosi, Rep. John Dingell, D-Mich., Rep. Sander Levin, D-Mich.,, and Rep. John Larson, D-Conn. (AP Photo/Manuel Balce Ceneta) (Manuel Balce Ceneta, AP / March 22, 2010)

E’ indubbiamente vero che Barack Obama è il primo presidente americano che è riuscito a portare a compimento una riforma del sistema sanitario di ampio respiro.  E’ riuscito dove Bill Clinton non è riuscito.  Ed è stato capace di non mollare, dinnanzi a tutti gli ostacoli che si sono interposti fra lo stato delle cose e la sua visione di emancipare 32 milioni di americani, non coperti da alcuna assicurazione sanitaria.

Obama ha vinto, di nuovo, e ora lo slogan è ancora una volta passato da “yes, we can” a “yes, we did it”, così come accadde nel novembre 2008, quando ha vinto le elezioni presidenziali.

Obama ha incontrato degli ostacoli veramente enormi nel condurre la lotta per la riforma.  Primo fra tutti, era il calo di attenzione nei confronti del tema della riforma sanitaria, quando l’attenzione del Paese era ed è quasi totalmente focalizzata sulla crisi economica e la perdita dei posti di lavoro.  Ottenere il consenso degli americani per riformare il sistema sanitario quando il problema primario è la disoccupazione, la perdita della casa, l’incertezza del futuro, e la dissoluzione del sogno americano è stata, e forse è ancora, una missione impossibile.  I sondaggi non sostengono il presidente nel suo impegno per la riforma, anche ora che ha vinto, perché le preoccupazioni dell’americano medio sono concentrate altrove.  Obama, tuttavia, promettendo di essere un leader che avrebbe rifiutato di governare in base ai sondaggi, sapeva che era necessario intaccare i meccanismi perversi del sistema sanitario, responsabile di una grossa fetta della spesa globale degli americani, per assicurare ai cittadini un sacrosanto diritto, innegabile in qualsiasi paese occidentale nel ventunesimo secolo, quello di potersi curare senza dover necessariamente indebitarsi a vita.  Obama sapeva che la maggioranza di cui gode oggi nel Congresso sarebbe potuta svanire già nelle prossime elezioni di novembre, e non sarebbe stato più possibile riformare in modo drastico il sistema sanitario.  Ora o mai più.

Gli ostacoli sulla strada di Obama includevano anche una forte opposizione interna al suo partito, dove differenze etniche, regionali, politiche, e ideologiche facevano a turno nell’impedire ai massimi leader democratici di tessere una piattaforma unitaria.  L’anima liberal si scontrava in modo brutale con gli anti abortisti, mentre l’opposizione repubblicana poteva rimanere tranquillamente alla finestra, osservando una guerra fratricida. Leggi tutto l’articolo

Stati Uniti-Israele: crisi storica

La scelta di Netanyahu di costruire nuove case a Gerusalemme Est mette in difficoltà la politica anti-iraniana di Obama

US Vice President Joe Biden (L) and Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu sit down for dinner at the prime minister's residence in Jerusalem. Israel sealed off the West Bank amid tension in Jerusalem over controversial plans to build new homes for Jewish settlers and fears of fresh violence at the Al-Aqsa mosque compound. (AFP/File/David Furst)

Anthony M. Quattrone

Qualcosa si è rotto nel rapporto fra gli Stati Uniti e Israele quando, durante la visita del vice presidente americano, Joe Biden, il governo di Gerusalemme ha annunciato di aver approvato la costruzione di nuove unità abitative per israeliani nella parte orientale della capitale, annessa nel giugno 1967, dopo la “Guerra dei sei giorni”. Molti paesi non riconoscono la sovranità di Israele su Gerusalemme, mentre l’autorità nazionale palestinese vorrebbe che la parte orientale della città diventasse la capitale del futuro stato palestinese. La determinazione dello status permanente della Città santa, della sua sovranità territoriale, è uno dei principali temi da risolvere per fare avanzare il processo di pace in Medio Oriente.

La visita di Biden in Israele e in Palestina la settimana scorsa doveva servire per far ripartire il processo di pace, arenatosi con l’avvento al potere di Hamas a Gaza nel 2006, seguito da provocatori e devastanti lanci di missili da Gaza contro le popolazioni civili in Israele fra il 2006 e il dicembre 2008, e l’intervento armato israeliano a Gaza nel dicembre 2008. Durante i ventidue giorni di combattimenti, a Gaza sono morti 1.400 palestinesi e tredici israeliani, e sono stati inflitti danni ingenti alle infrastrutture palestinesi. L’intervento militare israeliano terminò pochi giorni prima dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca.

Le divergenze fra Stati Uniti e Israele non sono nuove. Tuttavia, questa volta, secondo una prima dichiarazione dell’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, si è alla presenza di “una crisi di proporzioni storiche, la peggiore dal 1975”. L’ambasciatore ha rettificato più tardi la dichiarazione, cercando di imputare ai giornali un’erronea interpretazione delle sue dichiarazioni.

Mentre i governanti israeliani cercano di minimizzare l’accaduto, negli Usa l’atmosfera non è delle migliori nei confronti del tradizionale e fidato alleato in Medio Oriente. Diversi membri del governo Obama hanno apertamente criticato il primo ministro Benjamin Netanyahu sia per la decisione riguardanti Gerusalemme Est, sia per la globale mancanza di rispetto nei confronti degli Usa. Le critiche spaziano da generali dichiarazioni per l’ingratitudine dei governanti israeliani verso gli americani, ad aperte accuse di sabotaggio del processo di pace e delle iniziative che il presidente Obama sta prendendo verso il mondo arabo e islamico. Leggi tutto l’articolo

Usa, la campagna elettorale è già cominciata

President Barack Obama gestures during a town hall meeting at Green Valley High School in Henderson, Nev, Friday, Feb. 19, 2010. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

Anthony M. Quattrone

Un anno fa il Congresso americano, a maggioranza democratica, approvava il piano di stimoli per l’economia americana chiesto dal presidente Barack Obama. Ad un anno di distanza, non è ancora certo quanto abbia inciso il piano nell’impedire che la recessione economica sprofondasse in una depressione pari solo alla catastrofe seguita dal crack del 1929. Il presidente Obama sostiene che l’intervento dello scorso anno abbia salvato l’economia americana, rimettendola sul binario che conduce verso risoluzione della crisi. I repubblicani sono del parere opposto, indicando che il denaro pubblico è stato sperperato in progetti inutili, aumentando notevolmente il debito a carico dei contribuenti di oggi e delle future generazioni. Il 17 febbraio 2009, Obama approvò la “American Recovery and Reinvestment Act”, per un valore di 787 miliardi di dollari, dando il via ad un massiccio intervento da parte del governo federale nell’economia americana. Il valore complessivo dell’intervento ha raggiunto quota 862 miliardi con le misure aggiuntive approvate in seguito. Ad oggi, tuttavia, solo un terzo della cifra approvata è stata effettivamente spesa.

L’anno scorso, Obama avrebbe voluto che il Congresso approvasse una serie di misure condivise dai due schieramenti politici. La principale differenza fra repubblicani e democratici verteva sull’incidenza della tassazione nello stimolo dell’economia. Per i repubblicani, era preferibile ridurre in modo sostanziale le tasse per stimolare l’economia, piuttosto che aumentare la spesa pubblica; mentre per i democratici la riduzione delle tasse poteva essere solo una delle varie parti del pacchetto di misure. Alla fine, la maggioranza democratica ha approvato, senza ottenere il sostegno di nessun deputato e senatore repubblicano, una serie di misure che comprendevano finanziamenti agli Stati dell’Unione, investimenti nei settori dell’energia, dell’educazione scolastica, e delle infrastrutture, speciali interventi a sostegno degli ammortizzatori sociali, oltre alla riduzione delle tasse per 288 miliardi di dollari sia per i cittadini, sia per le imprese. Anche se la riduzione delle tasse è pari al 36 per cento dell’intero pacchetto di misure, i democratici non sono riusciti ad ottenere il sostegno dei repubblicani. Nel recente discorso sullo Stato dell’Unione, Obama ha voluto ricordare ai repubblicani che lui ha ridotto le tasse attraverso il pacchetto di misure approvate lo scorso febbraio, venendo incontro alle richieste dei conservatori, ma, per motivi puramente politici, nessun repubblicano ha mai riconosciuto quest’aspetto dell’intervento presidenziale. Leggi tutto l’articolo

Sanità: Obama pronto al compromesso

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama walks to the gym at the Physical Fitness Center at Ft. McNair in Washington Sunday Feb. 14, 2010, to play basketball. (AP Photo/Susan Walsh)

“Mettiamo le migliori idee sul tavolo”, ha proposto il presidente americano Barack Obama ai leader democratici e repubblicani del Congresso durante un incontro tenuto lo scorso 9 febbraio. Il presidente è ormai consapevole che non ha i voti necessari nel Congresso per effettuare la massiccia riforma del sistema sanitario americano che avrebbe voluto portare a termine durante il suo primo anno di Presidenza.

Con la perdita del seggio democratico nel Massachusetts nelle elezioni di gennaio per sostituire il senatore democratico Edward Kennedy, scomparso lo scorso agosto, il partito del presidente ha perso la maggioranza assoluta di 60 dei 100 seggi che compongono il Senato, che permette al partito di maggioranza di controllare completamente l’agenda dell’alta camera, e di bloccare qualsiasi tentativo di ostruzionismo parlamentare da parte della minoranza. Obama oggi si rende conto che, indipendentemente dal seggio perso a gennaio da parte dei democratici, non aveva a disposizione nemmeno la maggioranza di 51 senatori per portare avanti la riforma. La divisione nel Partito democratico è molto ideologica, con la componente conservatrice pronta a votare assieme ai repubblicani per bloccare le proposte dei progressisti. Se Obama avesse avuto un sostegno reale da parte di tutti i senatori democratici, la riforma sarebbe stata approvata durante l’autunno del 2009, immediatamente dopo la sosta estiva. Non è stato così, perché il presidente era ed è rimasto in minoranza sul tema della riforma sanitaria, fin dal suo insediamento un anno fa.

Obama ha proposto ai capigruppo dei due partiti di svolgere un summit il 25 febbraio prossimo, dinnanzi alle telecamere, per discutere su come portare avanti la riforma sanitaria. Alcuni leader repubblicani hanno espresso, tuttavia, delle perplessità sull’idea del summit televisivo, perché lo considerano una potenziale trappola politica, che permetterebbe ai democratici di svilire, dinnanzi all’opinione pubblica, le proposte repubblicane. I repubblicani sono giustamente preoccupati, perchè, secondo un sondaggio condotto pochi giorni fa per il “Washington Post”, la maggioranza degli americani vuole che il Congresso e il presidente continuino a lavorare per fare la riforma del sistema sanitario. Secondo il sondaggio, sei americani su dieci sono dell’opinione che i repubblicani non stanno facendo abbastanza per raggiungere un compromesso con Obama, e quattro su dieci credono che il presidente stia facendo troppo poco per ottenere l’appoggio degli avversari. Leggi tutto l’articolo

Obama, niente più sconti alla Cina

The Dalai Lama delivers a speech in Washington, DC in October 2009. The White House is standing tough on President Barack Obama's plans to meet with the Dalai Lama in February 2010, firmly rejecting Chinese pressure to snub him as rows escalate between Washington and Beijing. (AFP/File/Karen Bleier)

Dall’incontro con Dalai Lama alle presioni sullo yuan passando per le armi a Taiwan: la musica è cambiata

Anthony M. Quattrone

Il presidente americano, Barack Obama, a un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca, ha deciso di cambiare politica nei confronti della Cina comunista. Prima della sua visita a Pechino, lo scorso novembre, Obama ha tenuto un atteggiamento particolarmente prudente e attento nei confronti delle sensibilità cinesi, evitando di sollevare pubblicamente qualsiasi argomento controverso, dai diritti civili all’economia, alle questioni generali di politica estera. Da qualche giorno i toni sono concretamente cambiati, e si ravvisa una decisa pressione politica americana nei confronti del colosso asiatico per quanto riguarda la politica estera e militare, i diritti civili, e l’economia.Ormai sembrerebbe far parte di un passato remoto la dichiarazione che il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha fatto durante la sua prima visita ufficiale a Pechino un anno fa, quando disse che i diritti civili non dovevano interferire nei rapporti fra Stati Uniti e Cina, causando non poche perplessità fra chi guarda all’America come il massimo difensore della libertà e dei diritti umani. Poche settimane fa, infatti, dopo che Google ha denunciato atti di pirateria informatica da parte di hacker cinesi, presumibilmente ingaggiati dalle autorità di Pechino per violare le caselle postali “g-mail” di noti attivisti per i diritti civili, la Clinton ha apertamente criticato la Cina per la censura che impone sui motori di ricerca dell’Internet, sostenendo la necessità di “un unico Internet, dove l’intera umanità abbia eguale accesso al sapere e alle idee”.

Il presidente Obama aveva chiaramente indicato durante la sua visita in Cina che la questione dei diritti civili era e rimane importante per gli Usa, ma, a parte qualche moderata dichiarazione pubblica, ha evitato, durante la visita, di riportarla al centro della politica americana nei confronti di Pechino, preferendo di puntualizzare i punti di accordo fra i due Paesi. Sembrava che il presidente e i suoi massimi collaboratori sperassero che attraverso una silenziosa politica nel retroscena, si poteva ottenere di più dai cinesi. Forse, oggi, il presidente si è reso conto che la massima di Mao Tse Tung, che la contraddizione interna è più importante di quella esterna, è ancora valida in Cina, dove gli equilibri politici interni al Partito comunista sono più importanti dei rapporti internazionali e di qualsiasi fattore esterno. Leggi tutto l’articolo

Obama tira dritto: “Io non mi arrendo”

President Barack Obama delivers his State of the Union address on Capitol Hill in Washington, Wednesday, Jan. 27, 2010. (AP Photo/Tim Sloan, Pool)

Discorso sullo stato dell’Unione

Anthony M. Quattrone

“Io non mi arrendo” è il messaggio principale che il presidente americano, Barack Obama, ha mandato al Paese durante il discorso sullo stato dell’Unione che ha tenuto il 27 gennaio 2010.  Il presidente, che ha completato il suo primo anno di governo pochi giorni fa, affronta una contingenza negativa per la sua presidenza, caratterizzata dal calo dei consensi da parte degli elettori, tre gravi sconfitte elettorali negli ultimi mesi in Virginia, nel New Jersey, ed in Massachusetts, lo stallo sulla riforma sanitaria, e nessuna notizia buona riguardante la crisi economica.  Una tempesta perfetta per qualsiasi politico.

Nel suo discorso dinnanzi al Congresso, Obama è stato determinato nel riaffermare il programma politico esposto durante la campagna elettorale del 2008, ma ha anche dimostrato di aver compreso che è molto più difficile far trovare un accordo fra democratici e repubblicani sui temi fondamentali per il paese di quanto lui si aspettasse.  Obama ha anche compreso quanto è difficile governare lo stesso partito democratico, fatto di tante anime, dalla conservatrice alla progressista.  Il controllo unilaterale del Senato, con 60 democratici contro i 40 dei repubblicani, che il partito di Obama aveva fino alla settimana scorsa, non è servito per far approvare la riforma sanitaria, perché alcuni senatori democratici sono effettivamente più a destra dei repubblicani.  La perdita del seggio di Ted Kennedy nel Massachusetts, dopo 47 anni di ininterrotto dominio democratico, ha riportato i democratici a 59 senatori, perdendo il diritto legale di bloccare qualsiasi tentativo di ostruzionismo parlamentare da parte dei repubblicani.

Secondo un sondaggio condotto per il Wall Street Journal/NBC, il 58 percento degli americani pensa che il paese stia andando nella direzione sbagliata, mentre solo il 28 percento crede che il governo federale funzioni bene.  Secondo lo stesso sondaggio, solo il 47 percento degli americani approva il lavoro che Obama sta facendo per risolvere la crisi economica.  La critica più ricorrente da parte dell’opinione pubblica è che il presidente spende troppe energie per portare avanti la riforma sanitaria a detrimento della creazione di posti di lavoro.  Ed è forse per questo che Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha detto agli americani che la sua preoccupazione principale è l’economia e la creazione di posti di lavoro, ma che non ha nessun’intenzione di abbandonare le iniziative che sono al centro della sua azione politica, come la riforma del sistema sanitario.

Gli altri obiettivi principali che il presidente aveva enunciato per il primo anno di presidenza, oltre alla riforma del sistema sanitario, non sono stati raggiunti.  Non è riuscito a chiudere la prigione di Guantanamo.  Non è riuscito ad imporre limiti sull’emissione di gas inquinanti.  Non ha riformato il sistema finanziario.  Non ha firmato un nuovo patto con la Russia per le riduzioni degli armamenti.  Queste sono iniziative politiche ancora vive, e forse a breve avranno un seguito, ma, per il momento, il presidente ha dovuto affrontare la cruda realtà che i tempi della politica americana richiedono costanti compromessi e attenzioni rivolte agli interessi di una miriade di gruppi di pressione rappresentati nel Congresso.  Obama voleva bloccare l’influenza delle lobby sulla politica, ma, anche in questo campo, non è riuscito ancora a registrare alcun passo in avanti.  Le lobby sono presenti a Washington, facendo il lavoro di sempre, pur adattandosi a nuove regole, ma rimanendo influenti come prima. Leggi tutto l’articolo

Obama e l’arte del compromesso

Primo anno di presidenza Obama

President Barack Obama visits a Boys and Girls Club in Washington, Monday, Dec. 21, 2009, to read a book and give out cookies to children. (AP Photo/Charles Dharapak)

Anthony M. Quattrone

L’azione politica di Barack Obama nel suo primo anno di presidenza è stata caratterizzata dal compromesso. Ironicamente, Obama può contare su di un’ampia maggioranza democratica sia alla Camera, sia al Senato, ma non può contare su di un partito democratico unito, pronto a sostenerlo al Congresso. L’anima progressista si è scontrata in diverse occasioni con quella conservatrice, e, solo grazie all’abilità di mediare da parte della dirigenza democratica, e da parte di Obama in prima persona, è stato possibile portare avanti parte del programma proposto durante la campagna elettorale. Forse è proprio l’abilità di Obama di trovare una via di mezzo, un compromesso, che ha sorpreso maggiormente gli osservatori politici americani. Obama è disposto a considerarsi soddisfatto e vincente anche quando una sua proposta è ridotta all’osso attraverso il dibattito parlamentare. La riforma sanitaria, tanto sostenuta da Obama in campagna elettorale, è un esempio della propensione del presidente di effettuare compromessi per salvare il salvabile, e per fare avanzare di qualche passo il suo programma politico.

L’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti il 20 gennaio dell’anno che sta per finire è stato sicuramente un evento storico perchè è il primo afro americano eletto alla massima carica dello Stato americano. Lo stesso evento è stato anche una fonte di preoccupazione per gli osservatori della politica americana, perchè il resoconto della carriera politica del giovane presidente includeva solo l’elezione a senatore per lo stato dell’Illinois. Con la fine dell’anno, si inizia a tirare le somme per valutare l’efficacia di Obama, se ha tenuto le promesse fatte, e se il Paese sta meglio o peggio di quando si è insediato alla presidenza. Quello che traspare è che Obama è veramente abile nell’avanzare il suo programma politico, cercando il compromesso dove si può, con grande senso pragmatico.

Il sito Internet www.politifact.com, che appartiene al St. Petersburg Times, svolge un ruolo di costante monitoraggio rispetto all’azione politica di Obama, attraverso la compilazione di una lista di 513 promesse fatte dal presidente durante la campagna elettorale. Ad oggi, il presidente ha portato a compimento 102 azioni nella lista delle promesse, mantenendone 75, facendo compromessi riguardanti 18, e rompendone 9. Delle restanti 411 promesse, 202 riguardano azioni politiche attualmente in pieno svolgimento, 39 sono bloccate in una situazione di stallo, e per 170 non ci sono ancora abbastanza elementi da dare una valutazione definitiva.

I numeri delle promesse fatte rispetto a quelle mantenute e quelle rotte sono interessanti, e possono essere integrate dalle rilevazioni dei maggiori sondaggi sul gradimento nei confronti del presidente da parte degli americani. Secondo un sondaggio svolto dalla Gallup durante il periodo fra il 16 e il 18 dicembre, il 50 percento degli americani manifestano il gradimento nei confronti di Obama, e il 43 gli è contrario. I risultati più recenti non sono certamente comparabili al margine favorevole che la Gallup ha registrato durante la prima settimana della presidenza, quando Obama godeva di un livello di approvazione pari al 64 percento contro un’opinione sfavorevole contenuta al 17. Un sondaggio della Rasmussen, datato 17 dicembre 2009, è forse più preoccupante per il giovane presidente, perchè registra un divario abbastanza consistente fra il 26 percento degli elettori che danno ad Obama un altissimo gradimento, e il 41 che manifesta un alto livello di disapprovazione. Lo stesso tipo di sondaggio fatto dalla Rasmussen dieci mesi fa dava ad Obama una proporzione inversa, con coloro che mostravano un alto gradimento in netto vantaggio su quelli che manifestavano un’alta disapprovazione, per 40 a 20 percento. Sicuramente Obama non può aspettarsi grandi balzi in avanti nel gradimento nei suoi confrontri da parte degli elettori americani, se la crisi non rallenta in modo visibile, e migliaia di americani ritornano al lavoro. Leggi tutto l’articolo

Senza l’aiuto del Pakistan, non si vince in Afghanistan

Il presidente americano ha ritirato il 10 dicembre 2009  il Premio Nobel per la Pace

Anthony M. Quattrone

U.S. President and Nobel Peace Prize laureate Barack Obama laughs after receiving his medal and diploma from Nobel committee chairman Thorbjorn Jagland at the Nobel Peace Prize ceremony at City Hall in Oslo December 10, 2009. The United States must uphold moral standards when waging wars that are necessary and justified, Obama said on Thursday as he accepted the Nobel Prize for Peace. REUTERS/John McConnico/Pool (Norway Politics)

La guerra in Afghanistan non può essere vinta senza la collaborazione fattiva del Pakistan. E’ quanto Barack Obama ha più volte sostenuto sia nel corso della campagna elettorale, sia da quando ha iniziato il suo mandato presidenziale. Obama ha evidenziato il suo pensiero durante il discorso che ha tenuto a West Point il primo dicembre, quando ha annunciato l’incremento delle truppe americane da inviare in Afghanistan, dichiarando che “il nostro successo in Afghanistan è inestricabilmente legato alla nostra partnership con il Pakistan”.

La strategia americana nei confronti del Pakistan è influenzata sicuramente dalla duplice natura della risposta pachistana alla richiesta di aiuto da parte degli americani per combattere il terrorismo islamico. Da un lato, i governanti di Islamabad dichiarano una totale disponibilità nell’impedire che il territorio pachistano possa essere usato come santuario per gli estremisti islamici. Dall’altro lato, Islamabad non vuole provocare reazioni da parte degli estremisti, evitando così un’eventuale campagna terroristica sul fronte interno. Obama ha chiaramente descritto l’ambivalenza pachistana nel suo discorso a West Point, quando ha detto che “ci sono stati coloro in Pakistan che hanno sostenuto che la lotta contro l’estremismo non è la loro battaglia, e che è nell’interesse del Pakistan fare poco, cercando un compromesso con coloro che usano la violenza”.

Non è chiaro, tuttavia, perchè Obama ha usato il passato per descrivere l’ambivalenza pachistana. Secondo i giornalisti David E. Ranger e Eric Schmitt del New York Times, Obama non ha voluto esprimere chiaramente quale è l’opinione americana rispetto all’attuale atteggiamento pachistano, per non alienare il governo guidato da Asif Ali Zardari o l’esercito pachistano comandato dal generale Ashfaq Parvez Kavani.

I due giornalisti della testata newyorchese hanno rivelato, in un articolo pubblicato il 7 dicembre 2009, che l’amministrazione Obama avrebbe aumentato la pressione sui governanti pachistani già un mese fa, prima che Obama prendesse la decisione sull’aumento delle truppe americane da inviare in Afghanistan. Secondo i giornalisti, il generale Jim Jones, consigliere della sicurezza nazionale americana, e John O. Brennan, capo del contro terrorismo americano, hanno incontrato i capi delle forze armate pachistane e dei loro servizi di intelligence, per consegnare un messaggio secco e diretto ai governanti pachistani: o fate di più per combattere i gruppi taleban che attaccano le forze americane dalla parte pachistana del confine con l’Afghanistan, e che prendono rifugio in quella parte dopo aver sferrato attacchi in territorio afgano, o gli Stati Uniti interverranno con molta più forza e determinazione, anche in territorio pachistano, lungo il confine che lo separa dall’Afghanistan. leggi tutto l’articolo

Afghanistan: Ora è la guerra di Obama

Il messaggio è chiaro: agli avversari, Obama tende la mano, mentre a chi ha deciso di essere un nemico mortale per l’America, mostra la canna del fucile.

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama greets cadets after speaking about the war in Afghanistan at the U.S. Military Academy at West Point, N.Y., Tuesday, Dec. 1, 2009. (AP Photo/Charles Dharapak)

Il titolo d’apertura del giornale non ufficiale delle forze armate americane Stars and Stripes del 2 dicembre 2009 è emblematico: “Ora è la guerra di Obama”. Il discorso che il presidente americano Barack Obama ha tenuto martedì all’accademia militare di West Point, quando ha annunciato l’invio di 30 mila soldati in Afghanistan “finire il lavoro iniziato otto anni fa”, suggella la sintonia fra la Casa Bianca e i vertici delle forze armate americane, che forse non era stata contemplata da parte del Pentagono come possibile un anno fa, quando Obama è stato eletto. Il titolo del giornale è quasi liberatorio nei confronti del peggior incubo che qualsiasi soldato americano può avere, vale a dire, quello che il suo Comandante in Capo, non lo sosterebbe, mentre è in corso la guerra. Con il suo discorso, Obama ha chiarito ogni dubbio, dopo aver studiato a fondo le opzioni presentate dai vertici militari, e anche dagli analisti civili, su come finire il lavoro in Afghanistan, e ha optato per l’invio delle truppe a sostegno del lavoro del generale Stanley McChrystal.

Il discorso di Obama dinnanzi ai cadetti, trasmesso in diretta televisiva, è servito anche per rassicurare i militari che il paese non sarà vittima della sindrome del Vietnam, della guerra che si perde a Washington, nei palazzi della politica, ancora prima di essere combattuta sul campo. Le differenze fra Afghanistan e Vietnam sono lampanti, secondo il presidente. In Afghanistan, a differenza del Vietnam, l’America combatte assieme ad un’alleanza di 43 paesi, che considerano legittimo l’intervento americano contro i taleban. A differenza del Vietnam, in Afghanistan, l’America non si trova a lottare contro un’insurrezione appoggiata da larghi strati della popolazione. Per Obama, è di fondamentale importanza il fatto che gli Usa combattono in Afghanistan contro al Qaida, e contro i taleban che li hanno ospitati nel paese, ovvero contro coloro che hanno sferrato il criminale attacco dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington.

La chiamata alle armi di Obama e la decisione di appellarsi agli alleati della NATO per portare a termine il lavoro iniziato otto anni fa in Afghanistan può essere letta nella più ampia strategia che il presidente americano sta portando avanti nel rinnovamento della politica estera americana. Mentre da un lato il presidente si dimostra aperto al dialogo con tutti, dall’altro dimostra la determinazione ad usare la forza con chi minaccia in un modo serio ed inequivocabile la sicurezza Usa. Il messaggio è chiaro: agli avversari, Obama tende la mano, mentre a chi ha deciso di essere un nemico mortale per l’America, mostra la canna del fucile. Leggi tutto l’articolo