Due mesi dalle elezioni americane di mid-term: il punto

U.S. President Barack Obama (C) walks backs to the Oval Office after delivering remarks about the economy in the Rose Garden at the White House in Washington, September 3, 2010. With Obama are (L-R) Labor Secretary Hilda Solis, Commerce Secretary Gary Locke, Council of Economic Advisers Chairman Christina Romer, Treasury Secretary Timothy Geithner, Larry Summers, head of President Barack Obama's National Economic Council and Small Business Administrator Karen Mills. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

Mentre la caduta dei consensi nei confronti di Barack Obama indica che un americano su quattro ha cambiato opinione sul presidente, dal giorno del suo insediamento nel gennaio 2009 fino alla fine dell’agosto 2010, i risultati dei sondaggi danno ai repubblicani anche il più alto vantaggio sui democratici per le elezioni per il Congresso mai registrato dalla Gallup.  Nel frattempo, sembra che il partito democratico americano non riesca a prendere l’iniziativa per contrastare l’avanzata repubblicana, anche se i democratici possono contare su di un notevole vantaggio nella raccolta di fondi per finanziare la campagna elettorale.

Le elezioni del prossimo 2 novembre, chiamate di “mid-term”, di metà-termine, perché avvengono quasi a metà del mandato presidenziale, che dura quattro anni, sono considerate dagli osservatori politici americani come un referendum popolare che giudica la performance del presidente in carica.  A novembre, gli americani voteranno per rinnovare un terzo del Senato e l’intera Camera dei rappresentanti. In 37 dei 50 Stati dell’Unione, gli elettori saranno chiamati a scegliere anche il governatore.

Durante le ultime 17 elezioni di mid-term, il partito del presidente in carica ha perso, in media, 17 seggi alla Camera e 4 al Senato.

Il presidente Obama ha subito uno scivolone nei sondaggi svolti dal gennaio 2009, quando si è insediato alla Casa Bianca, fino a pochi giorni fa.  La popolarità del presidente aveva raggiunto 65,5 percento il 17 febbraio 2009, nel primo mese di presidenza, mentre il 29 agosto 2010 è 46 percento.  Le opinioni sfavorevoli al presidente erano 25 percento il 17 febbraio del 2009, e hanno raggiunto 48 percento il 29 agosto 2010.  In breve, Obama e i democratici dovranno affrontare le elezioni di mid-term totalmente in salita, sia per quanto riguarda la tradizionale perdita di seggi per il partito del presidente in carica, sia per l’effettivo momento di difficoltà che il presidente sta affrontando nei sondaggi. Leggi tutto l’articolo

Obama va a picco nei sondaggi

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama walks toward Marine One on the South Lawn of the White House in Washington, Thursday, July 15, 2010. REUTERS/Larry Downing

I sostenitori di Barack Obama sono sbigottiti dalla lenta ma inesorabile erosione della credibilità e della popolarità del presidente americano nei sondaggi svolti negli ultimi mesi.  Obama sembra intrappolato in una ragnatela di eventi negativi, incapace di riprendere l’iniziativa politica.  La crisi economica, il disastro ecologico nel Golfo del Messico, e il perdurare di una guerra senza fine e senza vittoria in Afghanistan formano una miscela esplosiva per gli indici che misurano la fiducia e il gradimento del popolo americano nei confronti del presidente, a meno di quattro mesi dalle elezioni di novembre, quando sarà rinnovata l’intera Camera e un terzo del Senato.

La crisi economica ereditata dall’amministrazione Bush non sembra dare ancora segnali tangibili di inversione di marcia. Sono ancora milioni gli americani disoccupati e che non hanno la benché minima idea di quando e dove torneranno nella forza lavoro.  Il tasso di disoccupazione è ancora vicino al dieci percento, e, secondo i verbali di una riunione tenuta dai i vertici della Federal Reserve Bank, la banca centrale americana, il 22 giugno 2010, gli uomini di Ben Bernanke hanno alzato le forchette per la disoccupazione del 2011 a 8,3-8,7 percento, dal precedente 8,1-8,5, e per quella 2012 al 7,1-7,5 percento, dal precedente 6,6-7,5.

Secondo i dati pubblicati a fine giugno dal governo Usa, a maggio è aumentato il numero delle nuove richieste di sussidi di disoccupazione, in contrasto con le previsioni degli analisti che prevedevano un leggero calo. A maggio sono anche aumentate le richieste di sussidi pre-esistenti, le cui proroghe richiederanno l’approvazione del Congresso per fornire la copertura finanziaria.

La vendita al dettaglio è calato di 1,1 percento a maggio e di un ulteriore mezzo punto a giugno, secondo i dati pubblicati dal governo Usa il 14 luglio 2010.  Le proiezioni negative sull’occupazione hanno anche costretto la banca centrale a rivedere le stime del prodotto interno lordo (Pil) per i prossimi anni, perché l’alto tasso di disoccupazione influenzerà, ovviamente, la spesa delle famiglie, riducendo i consumi, che rappresentano circa settanta percento del Pil.  La massima crescita del Pil americano, prevista dai banchieri centrali, è stata ridotta di 0,2 punti percentuali per il 2010, dal 3,7 a 3,5 percento, e di 0,3 punti dal 4,5 a 4,2 percento per il 2011. Leggi tutto

Obama licenzia McChrystal e chiama Petraeus

Anthony M. Quattrone

President Obama, with Vice President Joseph R. Biden Jr., Gen. David H. Petraeus and Secretary of Defense Robert M. Gates, announced his removal of Gen. Stanley A. McChrystal as the top commander in Afghanistan on Wednesday and his appointment of Gen. Petraeus to lead the war effort there. Doug Mills/The New York Times

Il presidente Barack Obama ha licenziato il 23 giugno 2010 il generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe Usa e alleate in Afghanistan, e l’ha rimpiazzato con il suo diretto superiore, il generale David H. Petraeus, per condurre una guerra che ormai va avanti da ben nove anni.  Obama ha punito McChrystal per le spregiudicate dichiarazioni che il generale e il suo staff hanno rilasciato alla rivista americana Rolling Stone, normalmente specializzata in fatti musicali, in cui hanno criticato, senza mezzi termini, membri dell’amministrazione Obama, alcuni senatori, e anche qualche governante di paesi alleati, suscitando irritazione ai massimi livelli sia negli Usa, sia fra gli alleati.

Il generale Petraeus, per contro, è considerato l’artefice della strategia militare americana, denominata “surge” (ondata o rinforzi) che ha stabilizzato l’Iraq nel 2008, permettendo il successivo ritiro del grosso delle forze americane dal Paese.  Petreaus è stimato per il suo approccio razionale e metodico nella conduzione di operazioni militari, e per la capacità di rimanere calmo e rispettoso delle autorità civili, anche dinanzi ad attacchi pubblici, che rasentano la diffamazione, come quando nel settembre del 2007 testimoniò dinanzi al Congresso per spiegare la sua strategia militare in Iraq, e alcuni gruppi della sinistra democratica giocarono sul suo nome, trasformando la fonetica in “Betray us”, overro, “tradiscici”. Leggi tutto

Obama si impantana nel greggio della Louisiana

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama speaks after meeting with Coast Guard Admiral Thad Allen and local officials on efforts to fight the BP oil spill at Coast Guard Station Gulfport in Gulfport, Mississippi. Obama labeled the Gulf oil spill an environmental 9/11 and made a fourth disaster zone trip Monday while aides strong-armed BP to set up a multi-billion dollar victim fund. (AFP/Mandel Ngan)

Secondo un sondaggio condotto dalla Gallup, settantuno percento degli americani pensa che il presidente Barack Obama non abbia reagito con la giusta forza nei confronti della British Petroleum (BP), responsabile della più grossa crisi ambientale nella storia degli Stati Uniti.  Gli americani sono convinti che il disastro petrolifero nel Golfo del Messico, dove una piattaforma per l’estrazione del petrolio è esplosa e in seguito è affondata, causando la morte di undici lavoratori, il ferimento di altri diciassette, e disperdendo nel mare un flusso continuo di petrolio grezzo da quasi due mesi, avrà un impatto ecologico ed economico che durerà oltre un decennio.

Il pessimismo degli americani in questa circostanza sembrerebbe contrastare, almeno per il momento, con lo stereotipo a stelle e strisce del “si può fare”.  Il sondaggio, condotto pochi giorni prima del discorso alla Nazione che Obama ha tenuto la sera del 15 giugno 2010, e trasmesso dalle maggiori reti americane, indica che la maggioranza degli americani non ha nessuna fiducia nel lavoro che la BP sta facendo, mentre un quarto boccia completamente l’intervento presidenziale e federale.  Tuttavia, il sondaggio rivela anche che sono di più gli americani che preferiscono lasciare che la BP risolva il problema, piuttosto che spostare la direzione delle operazioni al governo federale, il quale è considerato meno competente del gigante petrolifero nell’affrontare il tipo di problema posto dalla fuoriuscita di greggio dal pozzo petrolifero.

Il disastro ambientale è iniziato il 20 aprile 2010, quando esplode un pozzo di petrolio a 1.500 metri di profondità sotto piattaforma Deepwater Horizon, la quale s’incendia e affonda dopo due giorni.  La fuoriuscita di greggio da quel che rimane del pozzo sul fondo marino ha contaminato vaste aree di mare, rendendo necessario alla Guardia Costiera americana di ordinare il 2 giugno 2010 l’interdizione della pesca per un totale di 228 mila chilometri quadrati, pari a trentasette percento delle coste Usa del Golfo del Messico.  La fuoriuscita di greggio ha ormai superato l’ammontare che ha inquinato le limpide acque dell’Alaska nel 1989, quando la nave Exxon Valdez riversò 262 mila barili di greggio, pari a circa quarantadue milioni di litri, rendendo l’attuale “il peggior disastro ambientale della storia degli Stati Uniti come ha dichiarato la Casa Bianca lo scorso 30 maggio. Leggi tutto

E’ sempre più gelo fra Netanyahu e Obama

Dopo l’incidente navale davanti a Gaza, il rapporto tra i due leader si è compromesso. Il nodo Turchia.

US President Barack Obama (R) speaks with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu (L) in New York in 2009. (AFP/File/Jim Watson)

Anthony M. Quattrone

L’incontro che si doveva tenere il primo giugno alla Casa Bianca fra il presidente americano, Barack Obama, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, era stato organizzato da Rahm Emanuel, il capo di stato maggiore del presidente americano, durante una recente visita privata in Israele, per ricucire le differenze fra americani e israeliani, e per migliorare i rapporti personali fra i due leader.  Emanuel, che è ebreo e aveva prestato servizio volontario civile per l’esercito israeliano lavorando come meccanico durante la prima guerra del golfo, era riuscito a convincere Netanyahu a fermarsi a Washington, per un breve incontro con Obama, alla fine del viaggio programmato in Canada.

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, right, shakes hands with White House Chief of Staff Rahm Emanuel, during their meeting in Jerusalem, Wednesday, May 26, 2010. President Barack Obama's chief of staff invited the Israeli prime minister to the White House , after Prime Minister Benjamin Netanyahu's previously scheduled visit to Canada. Emanuel was in the country on a private visit. (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

L’incontro fra i due leader è saltato a causa dell’incidente navale del 31 maggio 2010, quando, in acque internazionali, la marina militare israeliana ha abbordato sei imbarcazioni che trasportavano aiuti umanitari a Gaza, per conto di un’organizzazione non governativa turca, uccidendo diversi passeggeri e ferendone molti altri sulla nave turca Mavi Marmara, nel corso di un’impacciata operazione militare, non esattamente in linea con la nota efficienza e precisione dei reparti speciali israeliani.

Secondo una versione ufficiale, Netanyahu è ritornato immediatamente in patria per gestire la crisi e secondo altre versioni non ufficiali ma altrettanto verosimili, Obama sarebbe estremamente irato nei confronti del premier israeliano.

La dimensione psicologica dei due leader, i problemi che affrontano nella politica nazionale dei rispettivi paesi, e la crisi dei rapporti con la Turchia crea un intreccio di variabili da cui possono nascere delle traiettorie alquanto inquietanti per quanto riguarda la risoluzione del problema palestinese, considerata da autorevoli strateghi, come il generale americano David Petraeus, una delle questioni fondamentali nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica. Leggi tutto l’articolo

Usa: i repubblicani calvacano la depressione

U.S. President Barack Obama faces reporters during a news conference in the East Room of the White House in Washington, May 27, 2010. Obama promised on Thursday to hold BP accountable in the catastrophic Gulf of Mexico oil spill and said his administration would do everything necessary to protect and restore the coast. REUTERS/Jason Reed

Anthony M. Quattrone

Le elezioni americane del prossimo novembre saranno influenzate primariamente dall’andamento dell’economia, sia quella dell’intera Nazione, sia quella dei differenti Stati dell’Unione. La recessione ha eliminato in America circa otto milioni di posti di lavoro nel settore privato e la disoccupazione è ancora attorno al dieci percento.  Anche se ci sono modesti segnali di ripresa, e migliaia di nuovi posti di lavoro sono creati ogni mese, i segnali restano preoccupanti.

Secondo un sondaggio condotto dalla Rasmussen il 22 e 23 maggio 2010, usando un campione composto di persone che più probabilmente andranno a votare a novembre, 48 percento pensa che i problemi economici che il Paese sta affrontando siano stati causati dalla recessione iniziata durante l’amministrazione Bush.  Questa percentuale è scesa di cinque punti dal rilevamento effettuato lo scorso aprile e di ben quattordici punti dal maggio 2009.  La percentuale delle persone che attribuisce la colpa alle politiche adottate da Obama è salita di quattro punti percentuali, da trentanove percento dello scorso mese a quarantatré dell’attuale sondaggio, ma è più basso della rilevazione effettuata nell’ottobre 2009, quando raggiunse quarantacinque percento, il massimo della sua presidenza.

Secondo un’analisi dei dati ufficiali pubblicati da un’agenzia del governo federale Usa, il Bureau of Economic Analysis, per il primo trimestre del 2010, condotta dalla testata USA Today, la percentuale del reddito personale degli americani proveniente da fonti pubbliche ha toccato il massimo storico, mentre quella da fonti private ha toccato il minimo.  Il reddito proveniente da fonti pubbliche, che include oltre alle pensioni, alle indennità di disoccupazione, ai buoni pasto per i meno abbienti, e gli altri programmi di sostentamento del reddito per i più deboli, anche gli stipendi dei dipendenti pubblici, è salito da 12,1 percento del primo trimestre 2000, a 14,2 percento nel dicembre 2007, quando iniziò la recessione, a 17,9 del primo trimestre di quest’anno.  Durante lo stesso periodo, il reddito proveniente dal settore privato è sceso da 47,6 percento registrato nel primo trimestre del 2000, a 44,6 percento nel dicembre 2007, all’attuale 41,9. Leggi tutto l’articolo

Usa, soffia il vento “anti-incumbent”

Anthony M. Quattrone

U.S. Senate candidate Rand Paul talks with his wife Kelley as he waits to be introduced at a Republican party unity rally in Frankfort, Kentucky, Saturday, May 22, 2010. (AP Photo/Ed Reinke)

Negli Stati Uniti spira un vento contrario ai quei senatori, deputati, e governatori attualmente in carica che dovranno competere nelle prossime elezioni di novembre per ottenere il rinnovo del loro mandato. In questi giorni si stanno svolgendo alcune delle primarie democratiche e repubblicane per scegliere i candidati che gareggeranno per il rinnovo della Camera, un terzo del Senato, e per l’elezione di 36 dei 50 governatori dei differenti Stati americani per le elezioni di novembre, le cosiddette mid-term, cioè quelle che si svolgono a metà del mandato presidenziale di Barack Obama.

Secondo tutti i maggiori sondaggi svolti nelle ultime settimane, circa 70 percento degli americani giudica sfavorevolmente il lavoro svolto dai membri del Congresso, indipendentemente dal partito di appartenenza. Secondo un sondaggio svolto per l’Associated Press, solo 36 percento voterebbe per un candidato attualmente in carica. E’ particolarmente significativo che un sondaggio condotto per ABC/Washington Post abbia rilevato che la maggioranza degli americani ha più fiducia in Barack Obama, di quanto ne abbia nei deputati e senatori dell’opposizione repubblicana per quanto riguarda l’economia, la riforma sanitaria, la riforma finanziaria, e la gestione del deficit federale. Questo dato, tuttavia, non garantisce i deputati e i senatori democratici dall’irritazione popolare nei confronti del Congresso, e qualche pezzo grosso dell’establishment del partito di Obama inizia a traballare.

Già cadono le prime teste famose nella guerra “anti-incumbent” (contro il candidato in carica). L’ottantenne Alan Specter, il senatore della Pennsylvania, eletto cinque volte come repubblicano, passato ai democratici undici mesi fa, ha perso le primarie democratiche del 18 maggio 2010 contro il deputato Joe Sestak, per 47 a 53 percento. Specter aveva il sostegno dell’establishment del partito democratico, fra cui Barack Obama e Edward Rendell, il governatore della Pennsylvania. Il coraggio del vincitore, Ed Sestak, un ammiraglio in pensione al suo secondo mandato come deputato, è stato premiato da un elettorato non convinto della bontà della “conversione” di Specter da repubblicano a democratico. Lo stesso Sestak aveva attaccato Specter accusandolo di aver cambiato casacca solo per opportunismo, perché non fosse più convinto di poter vincere le primarie repubblicane. Solo qualche settimana fa, Sestak era in svantaggio per 2 a 1 nei sondaggi fra gli elettori democratici, ma il vento “anti-incumbent” lo ha sicuramente aiutato nella battaglia tutta in salita. A novembre Sestak sfiderà l’ex deputato repubblicano Pat Toomey, in quello che sarà, probabilmente, una sfida dal risultato incerto fino all’ultimo voto in Pennsylvania. Leggi tutto l’articolo

Arizona: Grana immigrazione per i repubblicani

La nuova legge in materia varata dallo Stato dell’Arizona fa perdere ai repubblicani i consensi degli ispanici

In this Monday, April 10, 2006 picture, immigration rights supporters hold a rally in downtown Los Angeles. (AP Photo/Kevork Djansezian)

Anthony M. Quattrone

Il tema immigrazione è scoppiato fra le mani dei leader repubblicani americani nel momento meno opportuno, a sei mesi dalle elezioni di mid-term del prossimo novembre, quando saranno rinnovate un terzo dei seggi del Senato, l’intera Camera dei Deputati, e andranno in gara 36 cariche di governatore dei 50 Stati dell’unione. Le proteste in America stanno montando contro una legge sull’immigrazione clandestina approvata il 23 aprile 2010 dal governatore dell’Arizona, la repubblicana Jan Brewer. Diversi consigli comunali in varie parti degli Stati Uniti, molte organizzazioni culturali e sportive, e rappresentanti delle associazioni che tutelano i diritti delle minoranze chiedono il formale boicottaggio dello Stato dell’Arizona, fino a quando rimarrà in vigore la nuova legge. Le organizzazioni che rappresentano la comunità ispano-americana sono fra le più attive nel protestare contro la nuova legge, creando notevoli difficoltà per i dirigenti politici repubblicani, compagni di partito della governatrice Brewer e della maggioranza che controlla il ramo legislativo dello Stato dell’Arizona..

Secondo il New York Times, la legge approvata dallo Stato dell’Arizona “trasforma in sospetti criminali tutti gli abitanti di origine ispanica dell’Arizona, anche se sono immigrati con regolare permesso di soggiorno, o cittadini americani”. Secondo la versione finale della legge, sarà possibile per la polizia chiedere alle persone fermate perchè sospettate di aver violato una legge, i documenti relativi all’immigrazione. Secondo alcuni osservatori, diventerebbe buona prassi per un cittadino americano che viaggia in Arizona, di avere con se il passaporto perché, da come è stata emanata la legge, l’onere della prova di cittadinanza o di presenza legale nello Stato è totalmente a carico del fermato, e in mancanza di documenti, si va in prigione. Mentre da un punto di vista formale, la legge approvata in Arizona potrebbe anche reggere nelle corti federali contro eventuali eccezioni legali, la protesta delle organizzazioni ispaniche verte sulla questione del “racial profiling”, ovvero del “puntamento” razziale nei confronti delle persone che hanno un aspetto ispanico, nelle zone a ridosso del confine con il Messico. In breve, la preoccupazione degli oppositori della nuova legge dell’Arizona è che sarebbe troppo facile per la polizia trovare mille scuse per fermare delle persone “sospette”, finendo per puntare illegalmente gli ispanici. Secondo alcune stime ufficiali, tre quarti dei quasi 12 milioni di immigrati clandestini in America sono ispanici. Il racial profiling è già stato considerato una violazione dei diritti costituzionali di coloro che ne sono vittime, e le corti hanno condannato, in diverse occasioni, i dipartimenti di polizia e le agenzie governative che lo praticavano. Leggi tutto l’articolo

La strategia di Obama per l’Iran

Un percorso a più piste per contenere l’Iran

Iranian President Mahmoud Ahmadinejad applied Wednesday for a US visa to head his country's delegation to the nuclear non-proliferation review conference at the United Nations next week, both sides said.« Read less (AFP/File/Atta Kenare)

Anthony M. Quattrone

La destra americana accusa il presidente Barack Obama di aver intrapreso una politica troppo conciliante nei confronti dell’Iran. L’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite, John R. Bolton, ha dichiarato che gli Stati Uniti sono in grande ritardo, perché “l’Iran è molto avanti nell’acquisire armi nucleari”. Secondo Bolton gli Usa hanno “passato quattordici mesi con un presidente inesperto e ingenuo”. Bolton è “preoccupato perché quest’amministrazione crede di poter trattare con l’Iran. Questa è una fantasia.” Bolton non crede che una nuova fase di sanzioni possa servire per bloccare la corsa dell’Iran verso il nucleare per scopi militari.

L’avversario repubblicano di Obama alle presidenziali del 2008, il senatore dell’Arizona, John McCain ha dichiarato il 14 aprile 2010 che gli iraniani riusciranno ad ottenere la bomba atomica se gli Stati Uniti non agiscono più audacemente. Secondo McCain, “gli Usa continuano a puntare una pistola carica all’Iran, senza mai tirare il grilletto”, pertanto, perdendo credibilità. Per l’altro senatore repubblicano dell’Arizona, Jon Kyl, la conferenza sul disarmo nucleare, che si è tenuto a Washington il 12 e 13 aprile 2010, è stata una vera delusione, perché “il presunto grande risultato del summit è una risoluzione non vincolante che in larga parte riformula la politica attuale e non fa nessun rilevante passo in avanti nel trattare le minacce di terrorismo nucleare o il progresso dell’Iran verso l’armamento nucleare”. Leggi tutto l’articolo

Le tre taiettorie della politica estera di Obama

Apertura all’Islam, cambio di rotta in Afghanistan, e riduzione dell’arsenale atomico nel mondo: Barack va spedito

U.S. President Barack Obama speaks during a news conference at the end of the Nuclear Security Summit in Washington, April 13, 2010.… Read more » REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

La politica estera del presidente americano Barack Obama si è sviluppata, fino a questo momento, su tre principali traiettorie: l’apertura nei confronti del mondo islamico, il cambio di rotta nella conduzione della guerra in Afghanistan, e la riduzione e il controllo delle armi nucleari nel mondo.

La prima traiettoria, l’apertura degli Usa nei confronti del mondo islamico, è molto ambiziosa sia a causa del pregiudizio dell’americano medio che associa il terrorismo all’Islam, sia per la percezione del mondo islamico che gli Usa sono sempre dalla parte di Israele, contro i palestinesi e la nazione araba in generale.  Con il discorso che ha tenuto all’Università del Cairo il 4 giugno 2009, Obama ha cercato di mettere in risalto le cose che la cultura americana e quella islamica hanno in comune, lanciando messaggi di rispetto, tolleranza, e condivisione.  Il percorso di avvicinamento fra Islam e America è ancora lungo e pieno di ostacoli che dovranno essere affrontati e superati con pazienza e molto realismo. Uno dei maggiori ostacoli rimane il conflitto fra Israele e palestinesi, che continua ad alimentare sentimenti antiamericani in tutto il Medio Oriente. L’atteggiamento intransigente da parte di alcuni governanti israeliani, così come le discutibili iniziative riguardanti la presenza di coloni israeliani in territori arabi e palestinesi, e le recenti decisioni di autorizzare la costruzione di nuove unità abitative ebraiche a Gerusalemme creano nuovi ostacoli per la politica di avvicinamento nei confronti dell’intero mondo islamico.  Per il generale David H. Petraeus, il comandante delle forze militari Usa nel Medio Oriente e uno dei massimi strateghi militari americani di tutti i tempi, il conflitto fra Israele e i palestinesi tocca direttamente gli interessi nazionali americani, creando un ambiente poco sicuro per le forze militari Usa in tutto il Medio Oriente. Leggi tutto l’articolo