Obama e l’Egitto in fiamme

U.S. President Barack Obama makes a statement about the violence in Egypt while at his rental vacation home on the Massachusetts island of Martha's Vineyard in Chilmark, August 15, 2013. (Photo: Reuters)
U.S. President Barack Obama makes a statement about the violence in Egypt while at his rental vacation home on the Massachusetts island of Martha’s Vineyard in Chilmark, August 15, 2013. (Photo: Reuters)

Anthony M. Quattrone, Ph.D.

Il presidente americano Barack Obama è in grande difficoltà di fronte agli avvenimenti che stanno accadendo in Egitto in questi giorni di metà agosto.  Il massacro di centinaia di civili, sostenitori del primo presidente eletto democraticamente, Mohamed Morsi, leader del movimento integralista islamico, i Fratelli Mussulmani, è documentato da tutte le televisioni americane.  Il presidente condanna la violenza contro i civili ma non usa la terminologia “colpo di stato” per descrivere l’intervento dello scorso 3 luglio da parte delle forze armate egiziane, perché la legge americana vieterebbe al governo USA di fornire circa 1,3 miliardi di dollari ai militari egiziani in caso di “golpe”.  In caso di blocco dei finanziamenti USA all’Egitto, non solo le maggiori imprese americane nel campo della difesa, come la Lockheed Martin e la General Dynamics, perderebbero milioni di dollari in commesse militari, ma ci sarebbero anche riflessi negativi sull’industria italiana, perché l’Italia è tra i cinque maggiori fornitori europei delle forze armate egiziane e le esportazioni di armi dall’Italia all’Egitto sono in costante crescita, anche quest’anno.

Il presidente americano Barack Obama aveva rilasciato il 3 luglio 2013 una articolata dichiarazione attraverso un comunicato stampa con precise valutazioni rispetto alle azioni intraprese dalle forze armate egiziane, culminate prima nella rimozione e successivamente nell’arresto del primo presidente Morsi. Il presidente egiziano, che era stato eletto il 24 giugno 2012 con il 51% dei voti, era diventato il bersaglio degli attacchi dell’opposizione quando, il 22 novembre 2012, si era attribuito attraverso un decreto amplissimi poteri fra cui quello di rendere non impugnabili i suoi decreti presidenziali.  Le opposizioni avevano visto nel decreto del 22 novembre 2012 l’inizio di un’involuzione autoritaria, che avrebbe potuto portare alla limitazione dello stato di diritto, schiacciando qualsiasi possibilità di futuro confronto democratico, con l’islamizzazione dello Stato, che avrebbe potuto portare il paese verso una dittatura islamica.

Nella dichiarazione del 3 luglio 2013, Obama espresse la sua profonda preoccupazione “per la decisione delle Forze Armate egiziane di rimuovere il presidente Morsi e sospendere la Costituzione egiziana.”  Il presidente americano lanciò anche un “appello alle forze armate egiziane affinché agiscano rapidamente e responsabilmente per restituire piena autorità ad un governo civile democraticamente eletto, il più presto possibile, attraverso un processo inclusivo e trasparente”. Obama ammonì anche le forze armate affinché si evitasse “qualsiasi arresto arbitrario ai danni del presidente Morsi e dei suoi sostenitori”.  Obama faceva anche appello a tutte le parti per risolvere in modo nonviolento le differenze, garantendo la sicurezza e i diritti di tutti, ribadendo che gli USA non sostenevano nessuna delle parti in lotta, ma che era opinione degli americani che solo il rispetto dello stato di diritto e della procedura democratica avrebbe potuto garantire al popolo egiziano il raggiungimento delle sue giuste aspirazioni.

Dal 3 luglio ad oggi, la situazione in Egitto è precipitata e le peggiori preoccupazioni del presidente Obama si sono avverate.  Oggi, con le immagini in diretta TV del massacro in corso, con la determinazione dei leader dei Fratelli Mussulmani di esigere attraverso la mobilitazione della piazza il rispetto delle regole democratiche che avevano portato all’elezioni di Morsi nel giugno 2012, Obama si trova in una situazione dove qualsiasi iniziativa americana può innescare una serie di eventi imprevedibili.  Nel frattempo il presidente americano ha cancellato il 15 agosto 2013 le esercitazioni che i militari americani e egiziani avrebbero dovuto svolgere il prossimo settembre, ma continua ad evitare di parlare di colpo di stato.

Obama è consapevole che se i militari egiziani non ridessero ai civili il potere nel breve termine e se l’Egitto non riuscisse a continuare nel suo percorso verso uno stato di diritto, con garanzie per i diritti civili, e con un governo eletto democraticamente, il futuro di tutte le rivoluzioni democratiche arabe sarebbe in pericolo.  Il fallimento della democrazia in Egitto e in tutto il mondo arabo fornirebbe argomenti a coloro che in America, sia di centrodestra sia di centrosinistra, credono che l’Islam sia incompatibile con la democrazia, con la libertà e con lo stato diritto e che l’unica forma di dialogo con i paesi islamici è quello che si basa sull’uso della forza.  Il fallimento della democrazia in Egitto potrebbe innescare una reazione a catena in tutto il mondo arabo, allontanando la possibilità di un raggiungimento di una pace duratura fra arabi e israeliani e una soluzione equa per il popolo palestinese.  Le decisioni che prenderà Obama nelle prossime ore potranno influenzare il corso degli eventi per i prossimi anni in tutto lo scacchiere mediorientale.

Sondaggi Usa: Obama scivola ancora più giù

President Barack Obama delivers a speech to a joint session of Congress at the Capitol in Washington, Thursday, Sept. 8, 2011. Watching are Vice President Joe Biden and House Speaker John Boehner. (AP Photo/Kevin Lamarque, POOL)

Anthony M. Quattrone

Il pessimismo degli americani nei confronti dello stato del Paese aumenta, annullando completamente qualsiasi senso di speranza che aveva accompagnato l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 2008.  Secondo un sondaggio commissionato dal Washington Post e dall’ABC News, condotto fra il 29 agosto e l’1 settembre, 77 percento degli americani sono convinti che il Paese non stia andando nella direzione giusta.  Due terzi degli americani che hanno votato per il Presidente nel 2008, oggi sono convinti che il Paese sia fuori strada.  Oltre sessanta percento degli intervistati disapprovano la politica economica di Obama e non sono convinti che stia facendo abbastanza o quanto sia necessario per creare più posti di lavoro.  Il numero degli americani che sono disoccupati è pari a 9,1 percento della forza lavoro da diversi mesi e non c’è alcuna indicazione che la situazione possa migliorare nel breve o medio termine.  E’ interessante notare che l’opinione negativa nei confronti della politica economica del Presidente è peggiorata di ben dieci punti negli ultimi due mesi e che la popolarità del Presidente è ormai scivolata a quarantatré percento.

Con la popolarità ai minimi livelli a solo quattordici mesi dalla data delle prossime elezioni presidenziali, quando saranno anche rinnovati completamente la Camera e un terzo del Senato, Obama deve inventarsi qualcosa per riguadagnare la fiducia degli elettori.  La boccata d’ossigeno offerta dall’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio ha permesso al Presidente di guadagnare consensi per la sua politica estera e per come conduce la lotta contro il terrorismo mondiale, ma, tipicamente, i risultati delle elezioni americane sono maggiormente correlati all’andamento dell’economia piuttosto che alla politica estera e alla sicurezza nazionale.  Gli americani misurano l’andamento dell’economia principalmente dai dati sull’occupazione, e, in questo momento, con la disoccupazione oltre il nove percento, Obama si trova sul banco degli imputati, indipendentemente dalle sue reali colpe.  E’ la brutale regola della politica americana.

Con la sua popolarità ai minimi storici e la disoccupazione che non scende, Obama ha deciso di presentare giovedì 8 settembre 2011 al Congresso in seduta congiunta l’American Jobs Act, una proposta legislativa che mira a far ripartire l’economia americana attraverso una serie di misure volte ad aumentare l’occupazione e a mettere più soldi a disposizione delle famiglie americane.  Con l’American Jobs Act, Obama propone di incrementare l’occupazione agendo su due leve: gli investimenti nelle infrastrutture con il diretto aumento degli occupati nel settore delle costruzioni, e la riduzione del costo del lavoro attraverso la riduzione delle tasse sul reddito da lavoro.  Con la riduzione del costo del lavoro, Obama spera, da un lato, di invogliare gli imprenditori ad aumentare l’occupazione, e dall’altro, a dare ai lavoratori più soldi in busta paga, con la speranza che spendano di più.  La proposta di Obama, che costerebbe circa 450 miliardi di dollari, fra esenzioni fiscali e investimenti federali, ha bisogno dell’approvazione del Congresso, dove i repubblicani controllano la Camera e i democratici il Senato.

Obama ha chiesto al Congresso di approvare subito la sua proposta, trovando una leggera apertura da parte del leader repubblicano e presidente della Camera, John Boehner, il quale ha commentato a freddo che il piano del presidente “merita considerazione”.  Obama, tuttavia, ha avvertito chi volesse procrastinare un qualsiasi intervento sino alle elezioni presidenziali del novembre 2012 che gli americani non sono disposti ad aspettare i tempi della politica, dichiarando che “qualcuno pensa che le differenze tra noi siano così grandi che solo le elezioni possono risolverle — ma sappiate che le elezioni sono tra quattordici mesi e gli americani non possono permettersi di aspettare quattordici mesi”.

Se l’American Jobs Act fosse approvato dal Congresso nella versione proposta dalla Casa Bianca, le misure dovrebbero partire dal prossimo anno con investimenti in infrastrutture e aiuti diretti agli Stati per circa 140 miliardi di dollari, un’estensione del taglio fiscale per i lavoratori dipendenti per un valore di circa 240 miliardi, e un’estensione dei sussidi di disoccupazione fino al 2012, per un valore di circa sessantadue miliardi. Secondo una stima dei consiglieri di Obama, una famiglia media dovrebbe trovarsi con una disponibilità di circa 1.500 dollari in più nel 2012.

Pubblicato da “Il Denaro” il 23 settembre 2011.

Sindaci USA: Obama, basta guerre all’estero – i soldi servono a casa

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama speaks about the war in Afghanistan during a televised address from the East Room of the White House, June 22, 2011. Credit: Reuters/Pablo Martinez Monsivais/Pool

L’annuncio che Barack Obama ha fatto il 22 giugno 2011 di voler ritirare 33 mila truppe dall’Afghanistan entro 18 mesi, cui 10 mila entro il 31 dicembre 2011, in netto anticipo rispetto alla programmazione fornita dal Pentagono, è il frutto della realizzazione che non è più possibile per Washington sostenere i costi della guerra e della ricostruzione afgana, mentre negli USA le infrastrutture sono fatiscenti, i servizi sociali sono ridotti all’osso, la disoccupazione è oltre 9 percento e il debito pubblico è in costante rialzo, superando la cifra di 14 mila miliardi di dollari quest’anno.  Con le presidenziali del prossimo anno, non è nemmeno possibile per Obama presentarsi dinanzi all’elettorato con l’accusa di spendere più per ricostruire, o, meglio costruire, l’Afghanistan con i soldi dei contribuenti americani, quando a casa, negli USA, c’è tanto da fare.

Il messaggio che è arrivato a Obama, chiaro e forte, dalla conferenza dei sindaci americani che si è tenuta dal 17 al 21 giugno 2011 a Baltimora, nel Maryland è che i soldi per fare le guerre e ricostruire paesi stranieri devono essere spesi a casa, in America, per gli americani.  Il 20 giugno 2011, nel suo discorso di inaugurazione come nuovo presidente dell’associazione che raggruppa i sindaci delle città americane che superano 30 mila abitanti, Antonio Villaraigosa, sindaco democratico di Los Angeles, ha chiesto al Presidente Obama di portare a casa i “nostri valorosi soldati” e “di onorarli indirizzando ora il nostro impegno verso i bisogni domestici, investendo fondi nella nostra economia per creare posti di lavoro”.  I sindaci lamentano che mentre miliardi di dollari sono spesi nelle missioni militari all’estero, loro hanno dovuto licenziare circa 446 mila dipendenti municipali dal 2008 ad oggi, e fra questi molti sono insegnanti, poliziotti e vigili del fuoco. Non è più possibile, secondo i sindaci, sostenere la costruzione di ponti e autostrade a Bagdad e Kandahar mentre quelle di Baltimora o di Kansas City sono a pezzi e in altre città americane sono del tutto inesistenti.

Il giorno seguente, il 21 giugno 2011, il Senatore democratico conservatore del West Virginia, Joe Manchin III, ha scritto al Presidente una lettera chiedendo di anticipare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan molto prima della data prefissata del 2014.  Per Manchin, “non possiamo più permetterci di tagliare servizi, innalzare le tasse e far decollare il debito per finanziare la ricostruzione in Afghanistan. La domanda a cui il Presidente deve rispondere è molto semplice: cosa vogliamo ricostruire l’America o l’Afghanistan? Allo stato attuale fare entrambe le cose è impossibile”.  La lettera di Manchin segue quella inviata il 15 giugno 2011 da 27 senatori di entrambi schieramenti, in cui i senatori chiedono un ritiro più rapido dall’Afghanistan dopo l’uccisione di Osama bin Landen.

Il presidente Obama, durante la campagna elettorale del 2008 aveva manifestato l’intenzione di spostare le risorse americane dalla guerra in Iraq a quella in Afganistan, ritenendo quest’ultimo paese il nodo centrale nella guerra globale contro il terrorismo di al Qaeda. La spesa della guerra in Afghanistan è salita da 14,7 miliardi di dollari spesi da George W. Bush nel 2003, ai 118,6 miliardi dollari spesi da Obama nel 2011. Con la morte di Osama bin Laden il primo maggio di quest’anno, è diventato difficile convincere gli americani sulla necessità di continuare a spendere miliardi di dollari in Afghanistan, e Obama sa che questo potrebbe essere usato contro di lui dai repubblicani durante la prossima campagna presidenziale del 2012.

E così, pochi giorni dall’appello dei sindaci e dalla lettera del senatore Manchin, il presidente ha deciso di annunciare il 22 giugno 2011 in un messaggio alla nazione in diretta TV un drastico taglio alla spesa della guerra, portando subito a casa una parte dei 100 mila soldati oggi dispiegati in Afghanistan. Leggi tutto

Fed, più trasparenza per il futuro

Prima conferenza stampa della Fed americana

Anthony M. Quattrone

Federal Reserve Chairman Ben Bernanke speaks during a news conference at the Federal Reserve in Washington, Wednesday, April 27, 2011. (AP Photo/Susan Walsh)

Il fatto che Ben Bernanke, il presidente della Fed, la banca centrale americana, abbia tenuto una conferenza stampa lo scorso 27 aprile 2011, rispondendo dal vivo a domande sulle decisioni inerenti alla politica monetaria a stelle e strisce, è una notizia già per se.  Il Federal Reserve System, informalmente chiamato la Fed, è stato istituito nel 1913 dal Congresso americano a seguito di una serie di gravi crisi monetarie per prevenire e governare eventuali crisi finanziarie.  Bernanke è il chairman della Fed dal 2006, e il suo mandato è stato confermato dal presidente americano Barack Obama fino al 2014.

La Fed è un animale molto strano.  L’organo direttivo della Fed è composto dai presidenti di dodici Federal Reserve Bank regionali e da sette governatori nominati dal presidente americano.  I membri del consiglio direttivo della Fed, una volta nominati, non possono essere rimossi se non alla fine del mandato.  Le decisioni della Fed, un’agenzia pubblica indipendente dal governo federale americano, non sono soggette al controllo da parte né del potere esecutivo, né del legislativo.  In un sistema di “checks and balances”, la Fed gioca un ruolo fondamentale nel controbilanciare il potere esecutivo e legislativo nella gestione dell’economia americana attraverso la politica monetaria centrale.  Ben Bernanke è il quattordicesimo chairman della Fed dalla sua costituzione ed è uno dei tre in vita, assieme a Paul Volcker (1979-1987) e Alan Greenspan (1987-2006).

Non sono pochi gli americani che incolpano la Fed di ogni male del Paese.  I fautori delle più complesse versioni delle teorie del complotto indicano nella Fed il vertice dei poteri forti che rappresentano i banchieri mondiali.  La segretezza delle operazioni della Fed ha contribuito sin dalla sua fondazione nel generare e sostenere le più svariate formulazioni delle teorie del complotto.  Un filo conduttore che collega le varie teorie contro la Fed è di carattere antisemita che mette in primo piano i banchieri ebraici come i Rothschild.  La trasparenza delle decisioni della Fed è pertanto diventata una fondamentale necessità sia per contrastare le teorie complottistiche, sia per ridurre il malumore per le decisioni che l’autorità monetaria prende periodicamente in risposta alle condizioni dell’economia a stelle e strisce. “E’ stato un fatto positivo” ha scritto il New York Times in un editoriale del 27 aprile 2011, “vedere Ben Bernanke incontrare la stampa mercoledì, in quello che è il primo della serie d’incontri programmati ogni trimestre, con domande e risposte.  Si vede che la Fed ha imparato, anche se nel modo più difficile, che deve lavorare per creare comprensione e consenso per le sue politiche.”

La politica della Fed non potrà risolvere l’alto tasso di disoccupazione, la caduta del valore degli immobili, la debole crescita dei redditi, e l’erosione del settore manifatturiero, che secondo Bernanke sono i maggiori problemi dell’economia americana, senza un cambio di rotta nella politica fiscale decisa da parte del presidente e del Congresso.  L’editoriale del New York Times rileva che solo la politica fiscale può affrontare questi temi, e questo sarà possibile solo se il Senato, controllato dai democratici, e la Camera, controllata dai repubblicani, troveranno un accordo su come racimolare più fondi e investirli in specifici programmi, progetti, e sforzi tendenti verso la ripresa economica.  Nel frattempo, la Fed va avanti per la sua strada, continuando a regolare la quantità di moneta in circolazione e le condizioni creditizie dell’economia. Bernanke ha confermato che giugno finirà il secondo round da 600 miliardi di dollari di acquisti di titoli pubblici e che i tassi d’interesse sui fondi federali rimarranno fra lo zero e 0,25% per ora.

Bernanke prevede che il tasso d’inflazione per il 2011 si assesterà fra l’1,3 e l’1,6% e la crescita del prodotto interno lordo sarà fra il 3,1 e il 3,3%.  La notizia più importante per la maggioranza degli americani e per il presidente Obama, già impegnato nella campagna elettorale del 2012, è che il tasso di disoccupazione in Usa dovrebbe scendere all’8,4-8,8% nel 2011.

–Pubblicato in terza pagina su “Il Denaro” del 5 maggio 2010:    http://news.denaro.it/blog/2011/05/05/fed-piu-trasparenza-per-il-futuro/

Il governo federale Usa ha rischiato la chiusura

President Barack Obama greets crowds of tourists at the Lincoln Memorial a day after Congress came to agreement on funding the federal government, emphasizing that national parks, monuments and museums are open and filled with visitors, in Washington D.C., April 9, 2011. Reuteurs/Mike Theiler

Anthony M. Quattrone

I ruoli istituzionali e il gioco delle parti negli Stati Uniti possono addirittura portare allo “shutdown” del governo federale, in altre parole alla chiusura di quasi tutti i servizi governativi e alla sospensione degli stipendi dei dipendenti pubblici federali. Il Congresso americano, formato dalla Camera a maggioranza repubblicana, e dal Senato controllato dai democratici, è l’autorità che decide e approva la spesa del governo federale. Il presidente propone il bilancio al Congresso, e, alla fine dei lavori di quest’ultimo, può accettare o apporre il veto sulle decisioni del ramo legislativo.

Lo scorso venerdì 8 aprile, i dipendenti pubblici del governo federale degli Stati Uniti, civili e militari, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo alla notizia, giunta in extremis, poco prima della mezzanotte, che repubblicani e democratici avevano trovato un accordo per il prolungamento di una settimana del finanziamento delle spese federali. Quest’accordo darà tempo al Congresso di definire in dettaglio, entro il 15 aprile 2011, la finanziaria per coprire le spese federali previste per gli ultimi sei mesi dell’anno fiscale in corso che finisce il 30 settembre 2011.

Il presidente americano Barack Obama ha dato il drammatico annuncio dell’accordo fra repubblicani e democratici alle 23:08 di venerdì, aggiungendo un po’ di retorica patriottica, cercando anche di apparire come chi è stato capace di unire conservatori e progressisti nell’interesse supremo del Paese. Obama ha iniziato il suo discorso di quattro minuti con grande retorica. “Dietro di me” ha detto il presidente americano, “attraverso questa finestra, potete vedere il Monumento di Washington, che centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo visitano ogni anno. Le persone che vengono qua lo fanno per imparare la nostra storia e per essere ispirati dalla nostra democrazia – quella di un Paese dove cittadini di diverse culture e credenze possono ancora fondersi in un’unica nazione. Sono contento di poter annunciare che domani il Monumento di Washington e tutto il governo federale saranno normalmente al lavoro. Questo sarà possibile perché gli americani di diverse fedi si sono ancora una volta uniti.”

La Finanziaria è basata su un compromesso che prevede tagli alle spese per 38 miliardi di dollari. I repubblicani, capeggiati dallo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, avrebbero voluto ottenere tagli più sostanziosi, oltre all’abolizione dei finanziamenti federali per qualsiasi tipo di aborto e una notevole riduzione per gli interventi a favore dell’ambiente. Al contrario, il leader democratico al Congresso, il senatore Harry Reid, avrebbe voluto ridurre i tagli e, dove necessari, spalmarli su un periodo più lungo, onde evitare conseguenze sociali. Il compromesso è criticato sia dalla frangia ultra conservatrice del partito repubblicano, in testa i membri del Tea Party Movement, sia dalla sinistra liberal del partito democratico. Obama ha cercato di sfruttare anche l’insoddisfazione delle frange più estremiste per apparire come il mediatore e l’uomo di centro, che guarda verso gli interessi del Paese a lungo termine. Nel suo discorso al Paese, Obama ha spiegato che le scelte compiute sono “dolorose ma necessarie”, ponendo l’accento sulla necessità per gli americani “di vivere in base ai nostri mezzi, per proteggere il futuro dei nostri figli”, ricordando che “vivere secondo le nostre risorse è il solo modo in cui potremo proteggere gli investimenti che renderanno gli Stati Uniti competitivi”.

Ora lo scontro fra repubblicani e democratici si sposterà sul limite imposto dal Congresso sul debito pubblico nazionale, che in questo momento non può superare la cifra di 12.500 miliardi di dollari. Se gli americani non troveranno come fare altri tagli al bilancio federale, gli esperti prevedono che sarà necessario superare il limite già fra cinque settimane. In una lettera della settimana scorsa, il Segretario al Tesoro, Timothy F. Geithner, ha scritto ai leader del Congresso che il governo federale raggiungerà il limite il 16 maggio, e che attraverso alcuni spostamenti di fondi fra i diversi conti del governo, sarà possibile guadagnare tempo sino all’8 luglio. Se il Tesoro non potrà superare il limite imposto dal Congresso, non potrà far fronte al pagamento dei debiti maturati sugli interessi da pagare ai creditori del governo. In pratica, il governo americano rischierebbe l’inadempienza. Secondo Jamie Dimon dell’JP Morgan Chase, un’eventuale decisione di non alzare il limite legale del debito pubblico americano potrebbe portare a conseguenze catastrofiche e imprevedibili.

Ora tocca a Obama prepararsi per spegnere un fuoco ancora più intenso.

Masse arabe in rivolta: Obama deve scegliere fra idealismo e realismo.

U.S. President Barack Obama speaks about Libya while U.S. Secretary of State Hillary Clinton listens in the White House in Washington February 23, 2011 Reuters/Kevin Lamarque

Anthony M. Quattrone

La Casa Bianca si trova, ancora una volta, a dover scegliere fra idealismo e realismo nel rispondere a una crisi internazionale.  E ancora una volta dovrà scegliere fra la relativa tranquillità che un regime repressivo e dittatoriale può garantire e l’inquietante incertezza del cambiamento, che nasce dalla richiesta di libertà e democrazia.  L’America che ha eletto Barack Obama sull’onda del “yes we can”, del “change”, non è tradizionalmente propensa ad appoggiare movimenti di massa e rivoluzioni all’insegna dei medesimi slogan che hanno accompagnato il primo afro-americano alla Casa Bianca.  Di solito, l’America “realista” sta dalla parte di chi garantisce lo status quo, il libero scambio, l’accesso alle risorse prime, mentre quella “idealista” sta dalla parte delle masse popolari in rivolta, che s’ispirano il più delle volte ai principi della Dichiarazione di Indipendenza Americana e ai dieci emendamenti alla Costituzione, la dichiarazione dei diritti.  Quale scuola di pensiero influenza oggi la Casa Bianca?  Obama è un realista o un’idealista?  Con chi si sta schierando l’America oggi, con i regimi arabi repressivi, che fino ad oggi hanno garantito ordine e stabilità, o con le masse popolari in rivolta, che aspirano all’emancipazione, ma che producono nel frattempo instabilità e incertezza?

Il Dipartimento di Stato gestito da Hillary Clinton è stato attento, fin dall’inizio della crisi che ha colpito i diversi regimi arabi nel nord dell’Africa e in Medio Oriente, nell’incalzare le autorità costituite ad accettare le richieste di riforma che arrivavano dalle piazze in rivolta, senza mai sconfessare direttamente i governanti in carica.  La prudenza adottata dalla Clinton ha permesso agli Stati Uniti di cavalcare da un lato l’idealismo della rivolta, rimanendo saldamente ancorati a una politica improntata al realismo, necessaria per proteggere gli interessi americani nella regione.

La rivoluzione in corso nei paesi arabi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente è partita il 17 dicembre 2010, quando Mohamed Bouazizi un ambulante tunisino si è dato alle fiamme per protestare contro un’ingiustizia subita.  Gli eventi scaturiti dal sacrificio di Bouazizi hanno portato prima alle dimissioni a metà gennaio 2011 di Zine el-Abidine Ben Ali, al potere da ventiquattro anni, e, infine, a fine febbraio, alle manifestazioni giornaliere da parte di migliaia di tunisini che chiedono le dimissioni del governo provvisorio, guidato da Mohamed Ghannouchi.  Le possenti proteste popolari in Egitto dal 25 gennaio 2011 hanno portato alle dimissioni di Hosni Mubarak due settimane più tardi, l’11 febbraio 2011.  Cinque giorni dopo, il 16 febbraio 2011, le masse popolari in Libya chiedono la fine della dittatura di Muammar Gheddafi, che dura da oltre quaranta anni.  Gheddafi in questi giorni è in seria difficoltà, e non è ancora certa quale piega prenderà la protesta della piazza.  Le proteste in Giordania e in Bahrein hanno avuto, almeno per il momento, conseguenze meno drammatiche per il potere costituito, perché le autorità hanno immediatamente aperto canali per dialogare con la piazza, in parte seguendo i consigli della Casa Bianca.

La politica estera americana dovrà sviluppare una strategia capace di prendere in considerazione il rapido cambiamento degli scenari nella regione anche per quanto riguarda gli interessi strategici dei partner europei.  Molti paesi del vecchio continente sono legati a doppio filo con i regimi arabi, sia per gli enormi investimenti finanziari arabi in Europa, sia per le commesse delle imprese europee nei paesi arabi.  E’ di vitale importanza per l’Europa assicurarsi anche uno stabile approvvigionamento di petrolio e gas dai paesi oggi al centro delle rivolte popolari.  Gli europei sono anche particolarmente preoccupati per gli eventuali arrivi in massa di tantissimi immigrati in fuga dai paesi in rivolta.  Qualsiasi intervento americano a sostegno delle masse arabe in rivolta potrebbe suscitare un’irritazione molto forte da parte degli alleati europei.
Il direttore di Time e commentatore della Cnn, Fareed Zakaria avverte che Obama non potrà rimanere a lungo affacciato alla finestra, in attesa degli eventi.  Per Zakaria, “l’amministrazione deve formulare una strategia che si adegui a questo storico change”, lo dovrà fare al più presto.

Obama il centrista

Anthony M. Quattrone

U.S. President Barack Obama views a turbine as he tours General Electric's birthplace in Schenectady, New York, January 21, 2011. With Obama is plant manager Kevin Sharkey. REUTERS/Kevin Lamarque

Molti osservatori americani si chiedono, a due anni dall’inaugurazione della presidenza Obama, quale sia il credo politico, o l’ideologia dell’attuale inquilino della Casa Bianca.  Barack Obama è stato eletto all’insegna del cambiamento, l’unità, la condivisione, la razionalità, la risoluzione, il pragmatismo.  Secondo Jacob Bronsther, in un articolo pubblicato nel Christian Science Monitor il 21 gennaio 2011, gli americani conoscono la differenza ideologica tra Franklin Delano Roosevelt e Ronald Reagan, ma non sono certi sui valori filosofici e politici di Obama.  Bronsther, il quale sostiene che Obama ha enunciato dei principi metodologici, come il pragmatismo e il cambiamento, piuttosto che dei principi ideologici, ricorda che nel 2009 il New York Times chiese al Presidente se ci fosse una parola che potesse definire la sua filosofia.  Il giornale gli chiese se fosse un socialista, o un progressista, o un “liberal”.  Obama rispose che non voleva lasciarsi coinvolgere in quel tipo di discussione, rilevando la sua avversione per le etichette.  Per Bronsther, la riluttanza di Obama di dichiarare quali sono i suoi principi guida, se è più vicino a Roosevelt o a Reagan, crea enormi problemi per tutti, e in primo luogo per il Paese che lui vorrebbe o dovrebbe unire attorno ad una visione.  Se Obama vuole creare a un movimento che duri nel tempo, dovrà, primo o poi, enunciare il suo credo.

Secondo quanto scrivono Jackie Calmes e Jeff Zeleny nel New York Times del 22 gennaio 2011, Obama cercherà di raccontare una visione “centrista” in occasione del discorso sullo stato dell’Unione del prossimo 25 gennaio 2011.  In un video che Obama ha inviato ai suoi sostenitori, emerge l’intenzione del Presidente di spostarsi verso il centro, appellandosi agli elettori indipendenti, ai manager e agli imprenditori che si sentono alienati dall’espansione del ruolo del governo federale nell’economia e dalla virulenta lotta fra democratici e repubblicani nel Congresso.  Secondo Jackie Calmes e Jeff Zeleny, Obama cercherà di focalizzare l’attenzione degli americani sulla necessità di costruire fondamenta solide su cui ergere l’America del futuro, basandosi sul concetto di unità nazionale e di rinascita, assieme alla necessità d’interventi mirati da parte del governo federale, cercando nel frattempo di ridurre il deficit di bilancio.

Nel video inviato ai sostenitori, Obama ricorda che la sua attenzione principale rimane quello di assicurare che l’America sia competitiva sul mercato globale, e che si creino posti di lavoro non solo oggi ma anche nel futuro. Per Obama, ci sono grandi sfide di fronte agli americani, ma “siamo capaci di affrontarle, se ci uniamo come popolo — repubblicani, democratici, e indipendenti – se siamo capaci di focalizzarci su quello che ci unisce, e se siamo disposti a trovare un terreno comune, anche quando siamo impegnati in ardenti discussioni”.  Secondo il New York Times, il tentativo di Obama di rinnovare la sua immagine dopo due anni d’iniziative percepite come progressiste da parte degli americani, sarà difficile, ma non impossibile, anche perché stanno arrivando, finalmente, alcuni segnali positivi dall’economia.

Il problema per il presidente americano sarà quello di conciliare il tentativo di apparire di centro, riducendo il deficit pubblico, senza perdere il sostegno della sinistra progressista del partito democratico, spendendo di più nei campi dell’istruzione pubblica, i trasporti, e l’innovazione tecnologica.  Se l’economia si riprendesse, e più americani tornassero al lavoro, il miracolo potrebbe avvenire, con introiti maggiori per l’erario, e una conseguente riduzione del deficit, senza sacrificare le iniziative care a Obama e alla sinistra liberal.
Nell’attesa per il discorso di martedì sullo stato dell’Unione, l’opposizione repubblicana ha già deciso di continuare sulla strada intrapresa due anni fa, cioè di attaccare Obama su tutto senza dare mai tregua.  Per il momento, la strategia repubblicana ha pagato con la riconquista della Camera nelle elezioni dello scorso novembre.  Se l’economia dovesse riprendersi, tuttavia, i repubblicani avranno bisogno di argomenti più convincenti per sconfiggere Obama nel 2012, e non vorranno, sicuramente, apparire agli americani come quelli che si augurino “il tanto peggio, tanto meglio” per scopi puramente politici.

La sinistra democratica Usa: “Obama, ci manchi!”

Treasury Secretary Timothy Geithner (C) and Office of Management and Budget Director Jacob Lew (R) arrive Wednesday for a meeting with Congressional leaders to discuss the Bush-era tax cuts. Barack Obama's Republican foes laid out a year-end strategy on Wednesday that could doom efforts to approve a nuclear pact with Russia and lift a ban on gays serving openly in the military. (AFP/Getty Images/Chip Somodevilla)

Anthony M. Quattrone

La sinistra del partito democratico americano è in rivolta contro il presidente Barack Obama. Alcune decisioni che il Presidente ha preso dopo la sconfitta del suo partito nelle elezioni di un mese fa hanno messo in allarme i liberal, che oggi hanno dato inizio alla campagna “rivogliamo Obama”. La sinistra liberal accusa il presidente di essersi rimangiato alcune importanti promesse fatte in campagna elettorale.

La decisione di Obama, resa pubblica il 29 novembre 2010, di congelare gli stipendi dei dipendenti civili del governo federale, seguita dalla notizia del giorno dopo, secondo cui il presidente sembrerebbe intento a non abrogare le agevolazioni fiscali per i maxi redditi approvate dal suo predecessore, hanno provocato la dura reazione della sinistra del partito.

Secondo i liberal, il congelamento degli stipendi di tre milioni di civili del governo federale per il 2011 e il 2012 è un’operazione di facciata, atta solo a soddisfare la destra repubblicana, la quale è caratterizzata da posizioni liberiste e antistataliste. L’apparente obiettivo è quello di ridurre il debito pubblico attraverso un risparmio di circa due miliardi di dollari nel 2011, raggiungendo un risparmio di circa 28 miliardi nei prossimi cinque anni e di circa 60 miliardi nell’arco di dieci anni. La sinistra liberal accusa Obama di poca chiarezza perché il risparmio previsto non è altro che una goccia nel mare del disavanzo americano, e i due miliardi di dollari che si risparmierebbero nel 2011 sono nulla rispetto ad un bilancio federale stimato in circa 3.830 miliardi di dollari per il prossimo anno. Per la sinistra liberal, l’iniziativa di Obama punisce i lavoratori federali e renderà l’impiego pubblico americano ancora meno attraente. Secondo dati provenienti dallo stesso governo americano, gli stipendi dei dipendenti federali sono inferiori di circa 22 percento rispetto ai lavoratori che svolgono pari mansioni nel settore privato. Leggi tutto l’articolo

La politica economica di Obama riporta GM in borsa

Anthony M. Quattrone

General Motors CEO Dan Akerson (L) smiles with others before ringing the opening bell of the New York Stock Exchange November 18, 2010. REUTERS/Shannon Stapleton

Il salvataggio della General Motors effettuato dal governo americano sedici mesi fa creò notevole preoccupazione fra gli elettori americani perché pochi credevano che il gigante dell’auto avrebbe mai potuto restituire al governo di Washington il mega prestito di 49,5 miliardi di dollari.  Invece, il 18 novembre 2010 il presidente della casa automobilistica di Detroit, Dan Akerson, ha potuto suonare la tradizionale campanella della borsa di Wall Street, dando inizio alle contrattazioni, collocando milioni di azioni della GM, per oltre 20 miliardi di dollari, a prezzi più alti di quanto previsto.  Il governo americano ha già recuperato, attraverso la vendita delle azioni GM in suo possesso, già undici miliardi di dollari, riducendo la sua quota azionaria da 61 a circa 30 percento.

Secondo Obama, “la quotazione a Wall Street è una pietra miliare non solo per quest’azienda, simbolo dell’industria americana, ma anche per l’intero settore dell’auto”.  Obama, riassumendo la politica economica del suo governo, ha dichiarato che “il sostegno a questa azienda ha permesso di salvare migliaia di posti di lavoro e di aiutare un’azienda a modernizzarsi per affrontare le sfide future”.

Non tutti sono felici per il successo della politica economica di Obama e dei democratici.  Paul Krugman, giornalista del New York Times, professore di economia a Princeton, e premio Nobel per l’economia nel 2008, ha scritto che alcuni deputati e senatori repubblicani non sono affatto contenti che l’America possa uscire dalla crisi economica, o almeno, non sono contenti che questo accada durante la presidenza Obama.

Il premio Nobel ha pubblicato un provocatorio articolo sul giornale newyorchese il 19 novembre 2010 intitolato “l’asse della depressione”, giocando sulla famosa frase “l’asse del male” coniata da George W. Bush, in occasione del suo discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002.  Mentre il presidente Bush si riferiva a Iraq, Iran e Corea del Nord, accusati di essere gli sponsor del terrorismo internazionale, il giornalista del Times fa riferimento all’asse insolita formata dalla Cina, dalla Germania e dal partito repubblicano americano, uniti nel tentativo di bloccare gli interventi monetari del presidente della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, atti a stimolare la crescita dell’economia americana.

Secondo Krugman è normale che Cina e Germania siano preoccupati per possibili interventi di Bernanke, perché, se avranno successo, indebolirebbero il dollaro, rendendo le esportazioni americane più competitive a spese dei concorrenti, e un dollaro debole potrebbe ridurre anche il deficit commerciale statunitense nei confronti di Pechino e Bonn.

Per il premio Nobel non è accettabile, invece, che alcuni parlamentari repubblicani americani siano intenti a stroncare gli interventi della Fed solo per motivi di puro calcolo politico.  Krugman accusa il deputato repubblicano Mike Pence e il senatore repubblicano Bob Corker di essere incoerenti negli attacchi che hanno fatto a Bernanke quando lo hanno invitato a sospendere qualsiasi iniziativa di espansione monetaria che potesse indebolire il dollaro e aumentare l’inflazione.  Krugman fa notare, nel suo articolo, che Bernanke sta seguendo le indicazioni che il paladino della politica della destra economica americana, il premio Nobel Milton Friedman, dette in una situazione di crisi analoga a quella attuale, quando raccomandò alla Banca del Giappone nel 1998 di acquistare sul mercato obbligazioni del governo nipponico.

La campagna elettorale presidenziale del 2012 è praticamente iniziata con il collocamento delle azioni GM e con le pressioni sulla Fed.

Mid-term: I conservatori più forti nel Congresso Usa

House Republican leader John Boehner of Ohio celebrates the GOP's victory that changes the balance of power in Congress and will likely elevate him to speaker of the House, during an election night gathering hosted by the National Republican Congressional Committee at the Grand Hyatt hotel in Washington, Tuesday, Nov. 2, 2010. (AP Photo/Cliff Owen)

L’alleanza conservatrice contro Obama, formata dalla destra democratica e dai repubblicani, avanza nel Congresso Usa

Anthony M. Quattrone

I risultati delle elezioni americane del 2 novembre 2010 sono in linea con le previsioni fatte dai sondaggi svolti poche settimane prime del voto. I repubblicani hanno conquistato la Camera con una schiacciante maggioranza di 240 a 189 (mancano ancora i risultati finali per sei seggi), portando via, per ora, 61 deputati ai democratici. Al Senato, dove i democratici e i loro alleati indipendenti hanno ancora la maggioranza con 53 seggi, i repubblicani sono riusciti a raggiungere 47, aumentando la rappresentanza di ben sei seggi. Fra i governatori, i repubblicani hanno strappato ai democratici sei stati. Oggi sono 29 i governatori repubblicani, contro 19 democratici e un indipendente (una carica non è stata ancora assegnata). In sintesi, i repubblicani possono dichiarare vittoria su tutti i fronti.

Il presidente Barack Obama, ad inizio del suo mandato nel gennaio 2009, poteva contare su una schiacciante maggioranza al Senato, formata da 55 senatori democratici e da 2 indipendenti, contro 41 per la minoranza repubblicana (due dei 100 seggi erano vacanti).  Oggi, la maggioranza formata dai senatori democratici e dagli alleati indipendenti è diminuita di sei seggi, cambiando leggermente il rapporto di forza fra maggioranza e minoranza nel Senato.  L’analisi dei risultati del voto per il Senato deve prendere in considerazione due importanti dati.  Il primo è il raffronto fra democratici e repubblicani.  Il secondo è quello fra progressisti e conservatori.  La presenza di una componente conservatrice all’interno del partito democratico rende più complessa l’analisi dei risultati del voto, specialmente per quanto concerne i programmi e gli obiettivi politici espressi dal presidente Obama.

Andiamo in ordine e partiamo con il confronto fra democratici e repubblicani al Senato. Leggi tutto l’articolo