Mid-term: I conservatori più forti nel Congresso Usa

House Republican leader John Boehner of Ohio celebrates the GOP's victory that changes the balance of power in Congress and will likely elevate him to speaker of the House, during an election night gathering hosted by the National Republican Congressional Committee at the Grand Hyatt hotel in Washington, Tuesday, Nov. 2, 2010. (AP Photo/Cliff Owen)

L’alleanza conservatrice contro Obama, formata dalla destra democratica e dai repubblicani, avanza nel Congresso Usa

Anthony M. Quattrone

I risultati delle elezioni americane del 2 novembre 2010 sono in linea con le previsioni fatte dai sondaggi svolti poche settimane prime del voto. I repubblicani hanno conquistato la Camera con una schiacciante maggioranza di 240 a 189 (mancano ancora i risultati finali per sei seggi), portando via, per ora, 61 deputati ai democratici. Al Senato, dove i democratici e i loro alleati indipendenti hanno ancora la maggioranza con 53 seggi, i repubblicani sono riusciti a raggiungere 47, aumentando la rappresentanza di ben sei seggi. Fra i governatori, i repubblicani hanno strappato ai democratici sei stati. Oggi sono 29 i governatori repubblicani, contro 19 democratici e un indipendente (una carica non è stata ancora assegnata). In sintesi, i repubblicani possono dichiarare vittoria su tutti i fronti.

Il presidente Barack Obama, ad inizio del suo mandato nel gennaio 2009, poteva contare su una schiacciante maggioranza al Senato, formata da 55 senatori democratici e da 2 indipendenti, contro 41 per la minoranza repubblicana (due dei 100 seggi erano vacanti).  Oggi, la maggioranza formata dai senatori democratici e dagli alleati indipendenti è diminuita di sei seggi, cambiando leggermente il rapporto di forza fra maggioranza e minoranza nel Senato.  L’analisi dei risultati del voto per il Senato deve prendere in considerazione due importanti dati.  Il primo è il raffronto fra democratici e repubblicani.  Il secondo è quello fra progressisti e conservatori.  La presenza di una componente conservatrice all’interno del partito democratico rende più complessa l’analisi dei risultati del voto, specialmente per quanto concerne i programmi e gli obiettivi politici espressi dal presidente Obama.

Andiamo in ordine e partiamo con il confronto fra democratici e repubblicani al Senato. Leggi tutto l’articolo

Elezioni Usa: la base democratica ritorna in vita

Vice President Joe Biden at a rally in Tacoma, Wash., on the campus of the University of Washington - Tacoma on Friday, Oct. 8, 2010. (AP Photo/Ted S. Warren)

Anthony M. Quattrone

A tre settimane dalle elezioni di mid-term del 2 novembre 2010, repubblicani e democratici americani si danno battaglia per conquistare il voto degli indecisi.  Secondo il più recente sondaggio nazionale eseguito per ABC/Washington Post, i repubblicani hanno un vantaggio di circa sei punti percentuali sui democratici.  Questo vantaggio si è dimezzato rispetto a un mese fa, quando i repubblicani erano avanti di circa tredici punti percentuali.  Nelle elezioni di mid-term sono in palio tutti i 435 seggi per la Camera, trentasette dei 100 seggi del Senato, e trentanove delle cinquantaquattro cariche di governatore.  I repubblicani sono in testa alla Camera e per le cariche di governatore, mentre al Senato sembra che i democratici riusciranno a contenere i danni senza perdere la maggioranza.

Secondo i sondaggi locali, condotti in tutti i distretti elettorali, e in base alle tradizioni di voto, alla Camera i repubblicani possono contare di ottenere, con “certezza” 204 seggi, mentre 184 sono quelli “certi” per i democratici.  Trentanove seggi sono “in bilico”, dove i sondaggi rilevano che non è ancora possibile indicare una previsione di voto.  Su questi seggi si convoglierà l’interesse degli apparati dirigenti dei due partiti, incanalando enormi risorse finanziarie per conquistare sia gli elettori indecisi, sia per convincere la tradizionale base elettorale a rivotare per i candidati del proprio partito.

I democratici sono preoccupati di perdere il controllo della Camera, dove servono 218 deputati per raggiungere la maggioranza.  Per raggiungere quota 218, i democratici devono assolutamente conquistare ventiquattro dei trentanove seggi ancora “in bilico”. La direzione del partito sembrerebbe proiettata verso una strategia che tende a sostenere in modo massiccio tutti quei candidati adesso in carica e alcuni di quei esordienti che hanno ragionevoli possibilità di vincere contro candidati repubblicani in carica o esordienti.  Il deputato del Maryland, Chris Van Hollen, capo del Comitato elettorale democratico, è fiducioso che il sostegno che il partito nazionale darà ai candidati democratici sarà sufficiente per impedire che i repubblicani si addentrino troppo all’interno dei “territori” democratici.  Il comitato elettorale ha impegnato almeno 52 milioni di dollari (pari a circa 40 milioni di Euro) per pubblicità televisiva per sostenere direttamente i candidati democratici durante gli ultimi giorni di campagna elettorale.  La direzione democratica è al lavoro per sostenere in particolare alcuni dei veterani del partito che in questo momento sono in difficoltà, come il deputato del Colorado, John Salazar, quello della Georgia, Sanford Bishop, Phil Hare dell’Illinois, Joe Donnelly dell’Indiana, e in particolare il presidente della commissione forze armate della Camera, il deputato del Missouri, Ike Skelton.  Leggi tutto l’articolo

Il Tea Party: la stella marina contro il ragno

Anthony M. Quattrone

Delaware Republican Senate candidate Christine O'Donnell addresses supporters during a Tea Party Express news conference in support of her election bid, in Wilmington, Del., in this photo taken Tuesday, Sept. 7, 2010. A week later, she won against the full force of the Republican establishment, seizing the nomination from Rep. Mike Castle, R-Del. (AP Photo/Rob Carr)

Il movimento “Tea Party” ha ottenuto diverse vittorie nelle primarie del partito repubblicano che si sono svolte negli ultimi mesi per scegliere i candidati da contrapporre ai democratici per le elezioni del prossimo novembre per il rinnovo del Congresso . Il movimento, che si colloca nella generale area conservatrice, è ancora un “lavoro in corso”, che, anche per merito della sua struttura completamente decentralizzata, senza gerarchie e senza leader nazionali, è diventato una vera spina nel fianco dell’establishment del partito repubblicano.  Per le personalità repubblicane che attualmente occupano posizioni di potere nel partito è difficile co-optare le istanze del movimento perché nel Tea Party non esistono leader, nel senso tradizionale, con cui discutere e negoziare.  I successi dei candidati del Tea Party nelle primarie preoccupano la leadership repubblicana in primo luogo perché le proposte e il linguaggio del movimento potrebbero spaventare la base elettorale tradizionale del partito e i moderati non schierati, favorendo così i candidati democratici, e perché, anche se i repubblicani riuscissero ad ottenere la maggioranza al Congresso, si troverebbero divisi in correnti in forte contrapposizione fra loro.

La struttura del Tea Party è quella di un movimento aperto, tenuto assieme da pochi punti fondamentali che ruotano attorno a due pilastri: la necessità di limitare il peso della tassazione, e quella di imporre severi limiti al potere del governo federale.  Il Tea Party usa l’Internet come primario mezzo di comunicazione, dove il dibattito interno del movimento, così come le comunicazioni di servizio, avvengono in tempo reale, a costi irrilevanti, con larga partecipazione, e con la capacità di raggiungere ogni angolo del Paese.  Il decalogo dei principi fondamentali del Tea Party è stato formulato, recentemente, attraverso la Rete, permettendo a coloro che s’identificano nel movimento, di esprimere un parere, metterlo a confronto con quello degli altri, e poi votare le priorità.  Fra i dieci punti più votati in Rete, spicca la necessità di controllare la legittimità del Congresso in ogni suo atto legislativo, seguito da una serie di proposte atte a ridurre gli sprechi federali, controllare le spese governative, e, di conseguenza, ridurre le tasse.  Quasi tutti i punti sono collegati alle questioni economiche, evitando accenni a questioni prettamente sociali o squisitamente politiche, spostando la visione del conservatorismo economico molto più verso il liberismo estremo, rispetto a quella abbracciata dai repubblicani tradizionali. Leggi tutto l’articolo

Due mesi dalle elezioni americane di mid-term: il punto

U.S. President Barack Obama (C) walks backs to the Oval Office after delivering remarks about the economy in the Rose Garden at the White House in Washington, September 3, 2010. With Obama are (L-R) Labor Secretary Hilda Solis, Commerce Secretary Gary Locke, Council of Economic Advisers Chairman Christina Romer, Treasury Secretary Timothy Geithner, Larry Summers, head of President Barack Obama's National Economic Council and Small Business Administrator Karen Mills. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

Mentre la caduta dei consensi nei confronti di Barack Obama indica che un americano su quattro ha cambiato opinione sul presidente, dal giorno del suo insediamento nel gennaio 2009 fino alla fine dell’agosto 2010, i risultati dei sondaggi danno ai repubblicani anche il più alto vantaggio sui democratici per le elezioni per il Congresso mai registrato dalla Gallup.  Nel frattempo, sembra che il partito democratico americano non riesca a prendere l’iniziativa per contrastare l’avanzata repubblicana, anche se i democratici possono contare su di un notevole vantaggio nella raccolta di fondi per finanziare la campagna elettorale.

Le elezioni del prossimo 2 novembre, chiamate di “mid-term”, di metà-termine, perché avvengono quasi a metà del mandato presidenziale, che dura quattro anni, sono considerate dagli osservatori politici americani come un referendum popolare che giudica la performance del presidente in carica.  A novembre, gli americani voteranno per rinnovare un terzo del Senato e l’intera Camera dei rappresentanti. In 37 dei 50 Stati dell’Unione, gli elettori saranno chiamati a scegliere anche il governatore.

Durante le ultime 17 elezioni di mid-term, il partito del presidente in carica ha perso, in media, 17 seggi alla Camera e 4 al Senato.

Il presidente Obama ha subito uno scivolone nei sondaggi svolti dal gennaio 2009, quando si è insediato alla Casa Bianca, fino a pochi giorni fa.  La popolarità del presidente aveva raggiunto 65,5 percento il 17 febbraio 2009, nel primo mese di presidenza, mentre il 29 agosto 2010 è 46 percento.  Le opinioni sfavorevoli al presidente erano 25 percento il 17 febbraio del 2009, e hanno raggiunto 48 percento il 29 agosto 2010.  In breve, Obama e i democratici dovranno affrontare le elezioni di mid-term totalmente in salita, sia per quanto riguarda la tradizionale perdita di seggi per il partito del presidente in carica, sia per l’effettivo momento di difficoltà che il presidente sta affrontando nei sondaggi. Leggi tutto l’articolo

Obama va a picco nei sondaggi

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama walks toward Marine One on the South Lawn of the White House in Washington, Thursday, July 15, 2010. REUTERS/Larry Downing

I sostenitori di Barack Obama sono sbigottiti dalla lenta ma inesorabile erosione della credibilità e della popolarità del presidente americano nei sondaggi svolti negli ultimi mesi.  Obama sembra intrappolato in una ragnatela di eventi negativi, incapace di riprendere l’iniziativa politica.  La crisi economica, il disastro ecologico nel Golfo del Messico, e il perdurare di una guerra senza fine e senza vittoria in Afghanistan formano una miscela esplosiva per gli indici che misurano la fiducia e il gradimento del popolo americano nei confronti del presidente, a meno di quattro mesi dalle elezioni di novembre, quando sarà rinnovata l’intera Camera e un terzo del Senato.

La crisi economica ereditata dall’amministrazione Bush non sembra dare ancora segnali tangibili di inversione di marcia. Sono ancora milioni gli americani disoccupati e che non hanno la benché minima idea di quando e dove torneranno nella forza lavoro.  Il tasso di disoccupazione è ancora vicino al dieci percento, e, secondo i verbali di una riunione tenuta dai i vertici della Federal Reserve Bank, la banca centrale americana, il 22 giugno 2010, gli uomini di Ben Bernanke hanno alzato le forchette per la disoccupazione del 2011 a 8,3-8,7 percento, dal precedente 8,1-8,5, e per quella 2012 al 7,1-7,5 percento, dal precedente 6,6-7,5.

Secondo i dati pubblicati a fine giugno dal governo Usa, a maggio è aumentato il numero delle nuove richieste di sussidi di disoccupazione, in contrasto con le previsioni degli analisti che prevedevano un leggero calo. A maggio sono anche aumentate le richieste di sussidi pre-esistenti, le cui proroghe richiederanno l’approvazione del Congresso per fornire la copertura finanziaria.

La vendita al dettaglio è calato di 1,1 percento a maggio e di un ulteriore mezzo punto a giugno, secondo i dati pubblicati dal governo Usa il 14 luglio 2010.  Le proiezioni negative sull’occupazione hanno anche costretto la banca centrale a rivedere le stime del prodotto interno lordo (Pil) per i prossimi anni, perché l’alto tasso di disoccupazione influenzerà, ovviamente, la spesa delle famiglie, riducendo i consumi, che rappresentano circa settanta percento del Pil.  La massima crescita del Pil americano, prevista dai banchieri centrali, è stata ridotta di 0,2 punti percentuali per il 2010, dal 3,7 a 3,5 percento, e di 0,3 punti dal 4,5 a 4,2 percento per il 2011. Leggi tutto

Obama licenzia McChrystal e chiama Petraeus

Anthony M. Quattrone

President Obama, with Vice President Joseph R. Biden Jr., Gen. David H. Petraeus and Secretary of Defense Robert M. Gates, announced his removal of Gen. Stanley A. McChrystal as the top commander in Afghanistan on Wednesday and his appointment of Gen. Petraeus to lead the war effort there. Doug Mills/The New York Times

Il presidente Barack Obama ha licenziato il 23 giugno 2010 il generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe Usa e alleate in Afghanistan, e l’ha rimpiazzato con il suo diretto superiore, il generale David H. Petraeus, per condurre una guerra che ormai va avanti da ben nove anni.  Obama ha punito McChrystal per le spregiudicate dichiarazioni che il generale e il suo staff hanno rilasciato alla rivista americana Rolling Stone, normalmente specializzata in fatti musicali, in cui hanno criticato, senza mezzi termini, membri dell’amministrazione Obama, alcuni senatori, e anche qualche governante di paesi alleati, suscitando irritazione ai massimi livelli sia negli Usa, sia fra gli alleati.

Il generale Petraeus, per contro, è considerato l’artefice della strategia militare americana, denominata “surge” (ondata o rinforzi) che ha stabilizzato l’Iraq nel 2008, permettendo il successivo ritiro del grosso delle forze americane dal Paese.  Petreaus è stimato per il suo approccio razionale e metodico nella conduzione di operazioni militari, e per la capacità di rimanere calmo e rispettoso delle autorità civili, anche dinanzi ad attacchi pubblici, che rasentano la diffamazione, come quando nel settembre del 2007 testimoniò dinanzi al Congresso per spiegare la sua strategia militare in Iraq, e alcuni gruppi della sinistra democratica giocarono sul suo nome, trasformando la fonetica in “Betray us”, overro, “tradiscici”. Leggi tutto

Obama si impantana nel greggio della Louisiana

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama speaks after meeting with Coast Guard Admiral Thad Allen and local officials on efforts to fight the BP oil spill at Coast Guard Station Gulfport in Gulfport, Mississippi. Obama labeled the Gulf oil spill an environmental 9/11 and made a fourth disaster zone trip Monday while aides strong-armed BP to set up a multi-billion dollar victim fund. (AFP/Mandel Ngan)

Secondo un sondaggio condotto dalla Gallup, settantuno percento degli americani pensa che il presidente Barack Obama non abbia reagito con la giusta forza nei confronti della British Petroleum (BP), responsabile della più grossa crisi ambientale nella storia degli Stati Uniti.  Gli americani sono convinti che il disastro petrolifero nel Golfo del Messico, dove una piattaforma per l’estrazione del petrolio è esplosa e in seguito è affondata, causando la morte di undici lavoratori, il ferimento di altri diciassette, e disperdendo nel mare un flusso continuo di petrolio grezzo da quasi due mesi, avrà un impatto ecologico ed economico che durerà oltre un decennio.

Il pessimismo degli americani in questa circostanza sembrerebbe contrastare, almeno per il momento, con lo stereotipo a stelle e strisce del “si può fare”.  Il sondaggio, condotto pochi giorni prima del discorso alla Nazione che Obama ha tenuto la sera del 15 giugno 2010, e trasmesso dalle maggiori reti americane, indica che la maggioranza degli americani non ha nessuna fiducia nel lavoro che la BP sta facendo, mentre un quarto boccia completamente l’intervento presidenziale e federale.  Tuttavia, il sondaggio rivela anche che sono di più gli americani che preferiscono lasciare che la BP risolva il problema, piuttosto che spostare la direzione delle operazioni al governo federale, il quale è considerato meno competente del gigante petrolifero nell’affrontare il tipo di problema posto dalla fuoriuscita di greggio dal pozzo petrolifero.

Il disastro ambientale è iniziato il 20 aprile 2010, quando esplode un pozzo di petrolio a 1.500 metri di profondità sotto piattaforma Deepwater Horizon, la quale s’incendia e affonda dopo due giorni.  La fuoriuscita di greggio da quel che rimane del pozzo sul fondo marino ha contaminato vaste aree di mare, rendendo necessario alla Guardia Costiera americana di ordinare il 2 giugno 2010 l’interdizione della pesca per un totale di 228 mila chilometri quadrati, pari a trentasette percento delle coste Usa del Golfo del Messico.  La fuoriuscita di greggio ha ormai superato l’ammontare che ha inquinato le limpide acque dell’Alaska nel 1989, quando la nave Exxon Valdez riversò 262 mila barili di greggio, pari a circa quarantadue milioni di litri, rendendo l’attuale “il peggior disastro ambientale della storia degli Stati Uniti come ha dichiarato la Casa Bianca lo scorso 30 maggio. Leggi tutto

E’ sempre più gelo fra Netanyahu e Obama

Dopo l’incidente navale davanti a Gaza, il rapporto tra i due leader si è compromesso. Il nodo Turchia.

US President Barack Obama (R) speaks with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu (L) in New York in 2009. (AFP/File/Jim Watson)

Anthony M. Quattrone

L’incontro che si doveva tenere il primo giugno alla Casa Bianca fra il presidente americano, Barack Obama, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, era stato organizzato da Rahm Emanuel, il capo di stato maggiore del presidente americano, durante una recente visita privata in Israele, per ricucire le differenze fra americani e israeliani, e per migliorare i rapporti personali fra i due leader.  Emanuel, che è ebreo e aveva prestato servizio volontario civile per l’esercito israeliano lavorando come meccanico durante la prima guerra del golfo, era riuscito a convincere Netanyahu a fermarsi a Washington, per un breve incontro con Obama, alla fine del viaggio programmato in Canada.

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, right, shakes hands with White House Chief of Staff Rahm Emanuel, during their meeting in Jerusalem, Wednesday, May 26, 2010. President Barack Obama's chief of staff invited the Israeli prime minister to the White House , after Prime Minister Benjamin Netanyahu's previously scheduled visit to Canada. Emanuel was in the country on a private visit. (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

L’incontro fra i due leader è saltato a causa dell’incidente navale del 31 maggio 2010, quando, in acque internazionali, la marina militare israeliana ha abbordato sei imbarcazioni che trasportavano aiuti umanitari a Gaza, per conto di un’organizzazione non governativa turca, uccidendo diversi passeggeri e ferendone molti altri sulla nave turca Mavi Marmara, nel corso di un’impacciata operazione militare, non esattamente in linea con la nota efficienza e precisione dei reparti speciali israeliani.

Secondo una versione ufficiale, Netanyahu è ritornato immediatamente in patria per gestire la crisi e secondo altre versioni non ufficiali ma altrettanto verosimili, Obama sarebbe estremamente irato nei confronti del premier israeliano.

La dimensione psicologica dei due leader, i problemi che affrontano nella politica nazionale dei rispettivi paesi, e la crisi dei rapporti con la Turchia crea un intreccio di variabili da cui possono nascere delle traiettorie alquanto inquietanti per quanto riguarda la risoluzione del problema palestinese, considerata da autorevoli strateghi, come il generale americano David Petraeus, una delle questioni fondamentali nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica. Leggi tutto l’articolo

Usa: i repubblicani calvacano la depressione

U.S. President Barack Obama faces reporters during a news conference in the East Room of the White House in Washington, May 27, 2010. Obama promised on Thursday to hold BP accountable in the catastrophic Gulf of Mexico oil spill and said his administration would do everything necessary to protect and restore the coast. REUTERS/Jason Reed

Anthony M. Quattrone

Le elezioni americane del prossimo novembre saranno influenzate primariamente dall’andamento dell’economia, sia quella dell’intera Nazione, sia quella dei differenti Stati dell’Unione. La recessione ha eliminato in America circa otto milioni di posti di lavoro nel settore privato e la disoccupazione è ancora attorno al dieci percento.  Anche se ci sono modesti segnali di ripresa, e migliaia di nuovi posti di lavoro sono creati ogni mese, i segnali restano preoccupanti.

Secondo un sondaggio condotto dalla Rasmussen il 22 e 23 maggio 2010, usando un campione composto di persone che più probabilmente andranno a votare a novembre, 48 percento pensa che i problemi economici che il Paese sta affrontando siano stati causati dalla recessione iniziata durante l’amministrazione Bush.  Questa percentuale è scesa di cinque punti dal rilevamento effettuato lo scorso aprile e di ben quattordici punti dal maggio 2009.  La percentuale delle persone che attribuisce la colpa alle politiche adottate da Obama è salita di quattro punti percentuali, da trentanove percento dello scorso mese a quarantatré dell’attuale sondaggio, ma è più basso della rilevazione effettuata nell’ottobre 2009, quando raggiunse quarantacinque percento, il massimo della sua presidenza.

Secondo un’analisi dei dati ufficiali pubblicati da un’agenzia del governo federale Usa, il Bureau of Economic Analysis, per il primo trimestre del 2010, condotta dalla testata USA Today, la percentuale del reddito personale degli americani proveniente da fonti pubbliche ha toccato il massimo storico, mentre quella da fonti private ha toccato il minimo.  Il reddito proveniente da fonti pubbliche, che include oltre alle pensioni, alle indennità di disoccupazione, ai buoni pasto per i meno abbienti, e gli altri programmi di sostentamento del reddito per i più deboli, anche gli stipendi dei dipendenti pubblici, è salito da 12,1 percento del primo trimestre 2000, a 14,2 percento nel dicembre 2007, quando iniziò la recessione, a 17,9 del primo trimestre di quest’anno.  Durante lo stesso periodo, il reddito proveniente dal settore privato è sceso da 47,6 percento registrato nel primo trimestre del 2000, a 44,6 percento nel dicembre 2007, all’attuale 41,9. Leggi tutto l’articolo

Usa, soffia il vento “anti-incumbent”

Anthony M. Quattrone

U.S. Senate candidate Rand Paul talks with his wife Kelley as he waits to be introduced at a Republican party unity rally in Frankfort, Kentucky, Saturday, May 22, 2010. (AP Photo/Ed Reinke)

Negli Stati Uniti spira un vento contrario ai quei senatori, deputati, e governatori attualmente in carica che dovranno competere nelle prossime elezioni di novembre per ottenere il rinnovo del loro mandato. In questi giorni si stanno svolgendo alcune delle primarie democratiche e repubblicane per scegliere i candidati che gareggeranno per il rinnovo della Camera, un terzo del Senato, e per l’elezione di 36 dei 50 governatori dei differenti Stati americani per le elezioni di novembre, le cosiddette mid-term, cioè quelle che si svolgono a metà del mandato presidenziale di Barack Obama.

Secondo tutti i maggiori sondaggi svolti nelle ultime settimane, circa 70 percento degli americani giudica sfavorevolmente il lavoro svolto dai membri del Congresso, indipendentemente dal partito di appartenenza. Secondo un sondaggio svolto per l’Associated Press, solo 36 percento voterebbe per un candidato attualmente in carica. E’ particolarmente significativo che un sondaggio condotto per ABC/Washington Post abbia rilevato che la maggioranza degli americani ha più fiducia in Barack Obama, di quanto ne abbia nei deputati e senatori dell’opposizione repubblicana per quanto riguarda l’economia, la riforma sanitaria, la riforma finanziaria, e la gestione del deficit federale. Questo dato, tuttavia, non garantisce i deputati e i senatori democratici dall’irritazione popolare nei confronti del Congresso, e qualche pezzo grosso dell’establishment del partito di Obama inizia a traballare.

Già cadono le prime teste famose nella guerra “anti-incumbent” (contro il candidato in carica). L’ottantenne Alan Specter, il senatore della Pennsylvania, eletto cinque volte come repubblicano, passato ai democratici undici mesi fa, ha perso le primarie democratiche del 18 maggio 2010 contro il deputato Joe Sestak, per 47 a 53 percento. Specter aveva il sostegno dell’establishment del partito democratico, fra cui Barack Obama e Edward Rendell, il governatore della Pennsylvania. Il coraggio del vincitore, Ed Sestak, un ammiraglio in pensione al suo secondo mandato come deputato, è stato premiato da un elettorato non convinto della bontà della “conversione” di Specter da repubblicano a democratico. Lo stesso Sestak aveva attaccato Specter accusandolo di aver cambiato casacca solo per opportunismo, perché non fosse più convinto di poter vincere le primarie repubblicane. Solo qualche settimana fa, Sestak era in svantaggio per 2 a 1 nei sondaggi fra gli elettori democratici, ma il vento “anti-incumbent” lo ha sicuramente aiutato nella battaglia tutta in salita. A novembre Sestak sfiderà l’ex deputato repubblicano Pat Toomey, in quello che sarà, probabilmente, una sfida dal risultato incerto fino all’ultimo voto in Pennsylvania. Leggi tutto l’articolo