La crisi dei mutui, Obama e le buone intenzioni di Bush

La casa, il giardino, la macchina, la bandiera - il sogno americano sotto stress a causa della crisi economica (photo by Anthony M. Quattrone)
La casa, il giardino, la macchina, la bandiera - il sogno americano sotto stress a causa della crisi economica (photo by Anthony M. Quattrone)

Anthony M. Quattrone

 

La crisi dei mutui, con il conseguente pignoramento delle proprietà, sarà uno dei primi temi che il nuovo presidente americano dovrà affrontare appena metterà piede nella Casa Bianca il prossimo 20 gennaio. Barack Obama sa che, per la stragrande maggioranza degli americani, il possesso della casa in cui si vive è forse l’unico elemento fondamentale del sogno americano che non è cambiato nel corso degli ultimi sessanta anni. I membri delle quattro generazioni d’americani che si sono succedute dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, la “silent generation” (i nati fra il 1925 e il 1945), i “baby boomers” (i nati fra il 1946 e il 1964), la “generation x” (i nati fra il 1965 e il 1979), e la parte ormai adulta della “generation y” (i nati fra il 1980 e il 2000) considerano, in larga parte, il possesso della casa in cui si vive un obiettivo principale da raggiungere nel corso della propria vita lavorativa.

Secondo i dati pubblicati il 28 ottobre 2008 dall’ufficio del censimento Usa, quasi il 68 percento dei 111 milioni d’immobili abitativi in America è attualmente occupato dai proprietari, mentre il rimanente 32 percento è dato in affitto. Durante l’attuale crisi economica, l’obiettivo dell’acquisto della prima casa è passato in second’ordine per chi non possiede una casa, mentre sono migliaia gli americani che addirittura rischiano il pignoramento della proprietà, perchè non riescono a tenere il passo con le rate del mutuo da pagare.

Il sogno americano della casa di proprietà è sotto stress, e le notizie di pignoramenti creano pericolose traiettorie negative sia economiche, sia psicologiche, difficili da ribaltare. Tuttavia, Barack Obama dovrà stare attento a non cadere nella trappola in cui è caduto George W. Bush nel 2002, quando, motivato da buone intenzioni, ha finito per gettare i semi che hanno probabilmente contribuito, in seguito, all’attuale crisi dei mutui e dei pignoramenti.

Sin dall’inizio del suo mandato, Bush voleva favorire l’acquisto della prima casa per tutti gli americani, asserendo che la migliore garanzia per la sicurezza economica dei cittadini era il possesso della propria abitazione. Bush spinse i suoi collaboratori a creare strumenti per favorire l’acceso ai mutui per coloro che avevano difficoltà anche nel racimolare i fondi necessari per pagare l’acconto per l’acquisto della casa, che in America si aggirava, in media, fra il cinque e il dieci percento del valore dell’immobile. Il 17 giugno 2002, Bush annunciò, in un discorso presso una chiesa della comunità nera di Atlanta, in Georgia, che voleva incrementare, entro il 2010, di almeno 5,5 milioni il numero dei neri e degli ispano americani che possedevano la casa in cui abitavano, perché, fino a quel momento, meno del 50% dei membri di entrambe comunità erano proprietari di un immobile abitativo. Bush annunciò la disponibilità di fondi federali per finanziare l’acconto, la semplificazione degli atti burocratici per accedere ad un mutuo, l’impegno di due organizzazioni a partecipazione pubblica, responsabili per rendere i mutui più accessibili agli americani, la Freddie Mac e la Fannie Mae, di assistere le minoranze e i più deboli nell’acquisto della casa, ed una serie d’incentivi fiscali per quanto riguardava la tassazione sui redditi. Buonissime intenzioni. Leggi tutto l’articolo

Iraq: La guerra di Bush

Anthony M. Quattrone

In this image from APTN video, a man, centre throws a shoe at US President George W. Bush, background left, during a news conference with Iraq Prime Minister Nouri al-Maliki, Sunday, Dec. 14, 2008, in Baghdad, Iraq. On an Iraq trip shrouded in secrecy and marred by dissent, President George W. Bush on Sunday hailed progress in the war that defines his presidency and got a size-10 reminder of his unpopularity when a man hurled two shoes at him during a news conference. (AP Photo)
In this image from APTN video, a man, centre throws a shoe at US President George W. Bush, background left, during a news conference with Iraq Prime Minister Nouri al-Maliki, Sunday, Dec. 14, 2008, in Baghdad, Iraq. On an Iraq trip shrouded in secrecy and marred by dissent, President George W. Bush on Sunday hailed progress in the war that defines his presidency and got a size-10 reminder of his unpopularity when a man hurled two shoes at him during a news conference. (AP Photo)

La presidenza di George W. Bush sarà sicuramente ricordata come quella che è iniziata con l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, è continuata con la guerra in Iraq, e si è conclusa con la più grande crisi economica registrata in America dal 1929. E’ difficile attribuire a Bush responsabilità di causa ed effetto per i due eventi che hanno marcato l’inizio e la fine della sua presidenza, mentre la guerra in Iraq è sicuramente imputabile direttamente a lui. Ha voluto la guerra, ha cercato i motivi per farla, la ha condotta come voleva, e, infine, la lascerà in eredità al nuovo presidente il 20 gennaio 2009, quando passerà le consegne a Barack Obama.

Gli attacchi terroristici contro New York e Washington nel settembre 2001 sono stati degli atti di guerra da parte di forze irregolari, non appartenenti ad alcuna nazione, ma ospitati presso uno stato sovrano, l’Afghanistan. La guerra che gli Stati Uniti hanno fatto contro questo paese, l’occupazione che è seguita, e la campagna armata ancora in corso contro Al Qaeda e i suoi alleati Taliban hanno trovato un largo consenso sia nell’opinione pubblica mondiale, sia fra i giuristi internazionali.

Quanto Bush ha fatto dopo l’occupazione dell’Afghanistan ha trovato poco consenso nel mondo. La creazione del carcere di Guantanamo, non soggetta alle leggi civili degli Stati Uniti o alle diverse Convenzioni di Ginevra, dove sono ancora ospitati circa 250 “combattenti illegali”, o persone sospettate di essere tali, ha marcato in modo indelebile la nobile tradizione della “due process” legale americana. Solo in poche altre occasioni, sempre caratterizzate dalla paura di un nemico esterno, l’America ha messo da parte il “due process”, come quando durante la Seconda guerra mondiale migliaia di americani di origine giapponese e italiana furono internati in campi di concentramento.

Durante un’intervista con l’ABC News il primo dicembre, Bush si è rammaricato sia d’essere stato colto di sorpresa dall’atto di guerra contro gli Stati Uniti, sia perché le informazioni sulle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein erano errate. Bush, tuttavia, non riesce ad ammettere che, secondo le informazioni disponibili fino ad ora, non c’era alcun collegamento fra il dittatore iracheno e gli attacchi terroristici del 2001, e che mancava una relazione di causa ed effetto. Leggi tutto l’articolo

La transizione da Bush ad Obama è iniziata

President George W. Bush greets President-elect Barack Obama as he arrives to the White House in Washington, November 10, 2008. (Jim Bourg/Reuters)
President George W. Bush greets President-elect Barack Obama as he arrives to the White House in Washington, November 10, 2008. (Jim Bourg/Reuters)

Anthony M. Quattrone

Il presidente eletto americano, Barack Obama, ha iniziato il lavoro per la transizione alla Casa Bianca, che si concluderà con l’insediamento del 20 gennaio 2009, quando presterà il giuramento di fedeltà alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Secondo le migliori tradizioni americane, il presidente in carica, George W. Bush, e la sua amministrazione garantiranno al nuovo governo un passaggio di consegne senza intoppi, specialmente in considerazione che il Paese è attualmente impegnato su due fronti militari abbastanza impegnativi e sta affrontando una crisi economica, forse senza precedenti.

I primi due collaboratori scelti dal presidente eletto, per attuare la transizione, sembrano indicare chiaramente che il neo eletto presidente vorrà seguire una traiettoria progressista nella formazione del suo governo. Obama ha nominato, per il ruolo di Capo di Gabinetto, un clintoniano di ferro, il deputato democratico dell’Illinois, Rahm Emanuel, considerato un grande amico d’Israele, un liberal nel campo della politica sociale ed economica, ma anche un politico molto pragmatico ed un profondo conoscitore dei meccanismi del Congresso.  Obama ha scelto Joseph Podesta, l’ex Capo di Gabinetto di Bill Clinton, da affiancare a Valerie Jarrett e Pete Rouse, che già facevano parte della cerchia ristretta di suoi collaboratori, per guidare la squadra responsabile per la transizione fra l’amministrazione in carica e quella del futuro presidente.  Podesta è da diversi giorni al lavoro con lo staff di Bush, assieme ad un centinaio di collaboratori democratici, già in possesso di un nulla osta di segretezza, che si affiancheranno alle loro controparti repubblicane per i prossimi due mesi.

Secondo il portavoce del presidente eletto, Stephanie Cutter, nessuna nomina per le cariche nel nuovo governo dovrebbe essere annunciata durante questa settimana, ma Obama potrebbe comunicare la scelta di consiglieri che dovrebbero affiancarlo durante la sua presidenza.  L’attenzione degli organi d’informazione americani si stanno focalizzando sulla promessa che Obama ha fatto, durante la sua campagna elettorale, di nominare anche alcuni repubblicani a ricoprire ruoli di prestigio all’interno della sua amministrazione.  Secondo la stampa americana, il generale Colin Powell, l’ex Segretario di stato del primo governo dell’attuale presidente Bush, potrebbe essere in lizza per il ministero della pubblica istruzione.  Si ricorda che Powell ha dato il suo sostegno ad Obama proprio a qualche settimana dalle elezioni, forse garantendogli il voto di molti indecisi.  Il senatore repubblicano del Nebraska, Chuck Hagel, è un possibile candidato per la Difesa, mentre il senatore repubblicano dell’Illinois, Richard Lugar, potrebbe aspirare a diventare il Segretario di stato.  In passato, anche Bill Clinton scelse di nominare un repubblicano alla difesa, forse per alleviare le preoccupazioni dei vertici militari, ma non sarebbe ipotizzabile che Obama nomini dei repubblicani sia alla difesa, sia agli esteri, e, pertanto è più probabile che un repubblicano vada alla difesa, mentre la scelta agli esteri potrebbe ricadere su un democratico, come il senatore del Massachusetts, John Kerry, o sull’ambasciatore Richard Holbrooke.  Leggi tutto l’articolo