Barack Obama sugli allori: sono due grossi successi, quelli ottenuti dal Presidente americano nell’arco di venti giorni. Il primo è la ratifica a Praga, l’8 Aprile scorso, dell’accordo con la Russia del cosiddetto START 2. Il secondo successo è il risultato positivo del summit di Washington sulla sicurezza nucleare. Due eventi che sicuramente hanno rilanciato l’immagine dell’inquilino della Casa Bianca in politica estera.
Il trattato START 2, firmato da Obama e dal suo omonimo russo, Dmitri Medvedev, prevede che i due paesi mantengano rispettivamente non più di 1.550 testate strategiche, cioè una diminuzione più incisiva rispetto all’accordo START del 1991. Mosca, che possiede molte più testate, taglierà del trenta per cento il suo arsenale, composto di 2.500 testate nucleari. Washington lo ridurrà invece del venticinque per cento. L’accordo ha durata decennale e potrebbe essere rinnovato al massimo per altri cinque anni. leggi tutto l’articolo
Il vertice a Vienna tra i cinque membri permanenti dell’Onu (USA, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia, più la Germania, cioè il 5+1) e il governo iraniano sulla questione del nucleare, dopo gli iniziali segnali positivi dell’incontro di Ginevra di inizio mese, si trova ad una svolta. Infatti, il presidente Ahmadinejad ha dichiarato ”che le potenze occidentali sono passate da una politica di confronto alla cooperazione nella questione del nucleare, per questo ora possiamo collaborare, ma non cambieremo la nostra posizione sul diritto al nucleare”, parole che forse possono essere valutate come un ribaltamento decisivo. L’Iran aveva rinviato la firma sull’accordo che prevedeva che l’80 per cento dell’uranio dichiarato fosse portato in Russia per essere arricchito. Il governo di Teheran aveva preso tempo, probabilmente anche per divergenze interne. Non sono neanche mancati poi, momenti in cui il vertice stava per fallire totalmente a seguito degli attentati suicida verso i vertici della guardia nazionale iraniana, che ha portato alla morte di 40 persone nella regione sud-orientale del Baluchistan, con la conseguente denuncia di Teheran su responsabilità di agenti segreti appartenenti ad apparati di intelligence straniere. Accusando in pratica i governi di Washington e Londra.
Il processo di distensione tra Iran di Ahmadinejad e gli USA di Barak Obama aveva avuto avvio il primo ottobre a Ginevra. Durante questo vertice, Teheran aveva accettato di discutere con il 5+1 di questioni riguardanti il nucleare. Inoltre aveva invitato il responsabile dell’AIEA, Mohammed el Baradei, a ispezionare gli impianti siti nei pressi della città sciita di Qom.
Intorno a questo impianto, solo poche settimane prima, la tensione tra l’Iran e la comunità internazionale, e specialmente gli Stati Uniti, era tornata a crescere. Infatti, il governo di Teheran aveva rivelato, proprio durante il vertice del G20 di Pittsburgh, la presenza di un altro impianto segreto per l’arricchimento dell’uranio.
Per Obama, e per i suoi alleati europei, questo era stato un altro segno del doppio gioco iraniano. Washington aveva dichiarato di non credere alla buona fede del governo degli ayatollah, in quanto le intelligence occidentali erano a conoscenza di questo secondo impianto da tempo, e raccoglievano prove e informazioni più forti per poter dimostrare l’inganno dell’Iran al mondo. Leggi tutto l’articolo
E’ difficile non reagire emotivamente dinnanzi alle scene della violenta repressione da parte delle forze dell’ordine della Repubblica Islamica dell’Iran nei confronti di migliaia di cittadini che manifestano contro i presunti brogli elettorali. Le immagini dei primi giorni, con i manifestanti che innalzavano cartelli con la scritta in inglese“Where is my vote?” (dov’è il mio voto?), hanno fatto spazio a scene di inaudita violenza, culminate con la morte, ripresa in diretta, della ventiseienne Neda Agha Soltan, nelle strade di Teheran, in un lago di sangue, soccorsa inutilmente dal padre e da altri manifestanti.
Chi ama la libertà e crede nello stato di diritto, nella democrazia, e nel rispetto della dignità umana dell’avversario politico non può rimanere indifferente di fronte a quanto sta succedendo in Iran. Non importa se Mir Hossein Mousavi, il maggiore oppositore del presidente Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno 2009, sia considerato meglio o peggio di quest’ultimo. Non importa se in passato sia stato fra i fautori del percorso iraniano verso il nucleare. Quello che importa è che migliaia, se non milioni, di iraniani hanno alzato la voce, chiedendo giustizia, chiedendo l’annullamento delle elezioni per le troppe irregolarità denunciate in ogni zona del paese, mentre le votazioni erano ancora in corso.
Cosa fare? Appoggiare l’opposizione o evitare qualsiasi interferenza, reale o apparente, negli affari interni dell’Iran? Nel corso degli ultimi dieci giorni, l’amministrazione del presidente Barack Obama ha dovuto mettere a punto un’elaborata strategia della comunicazione, mentre gli eventi in Iran andavano prendendo una piega drammatica. Ai primi cenni di contestazione delle elezioni, l’amministrazione americana ha preferito astenersi da qualsiasi commento che poteva andare ad inficiare il tentativo di instaurare un dialogo con il regime di Teheran. La politica estera proposta da Obama, già durante la campagna elettorale, è basata sul realismo piuttosto che sull’idealismo. Obama aveva promesso che avrebbe tentato di ingaggiare l’Iran in un dibattito proficuo per entrambi i paesi, nella speranza di indurre il paese persiano ad abbandonare qualsiasi velleità di potenza nucleare, e qualsiasi favoreggiamento di gruppi intenti a praticare il terrorismo contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.
Man mano che le manifestazioni della piazza andavano intensificandosi, e le notizie degli scontri riuscivano a superare la censura imposta ai giornalisti, arrivando in tutto il mondo attraverso Internet, l’amministrazione Obama ha dovuto rielaborare la sua strategia della comunicazione nei confronti della situazione iraniana. Il 19 giugno 2009, sette giorni dopo le elezioni iraniane, la Camera dei deputati Usa ha votato una mozione approvata da 405 deputati contro due astenuti e uno contrario, che “sostiene la lotta dei cittadini iraniani che abbracciano i valori della libertà, dei diritti umani, delle libertà civili, e dello stato di diritto”. La mozione condanna l’uso della violenza da parte del governo iraniano nei confronti dei manifestanti, la censura degli organi di informazione, e la soppressione dei mezzi di comunicazione elettronica, come Internet e i cellulari, riaffermando l’universalità dei diritti individuali e l’importanza di elezioni giuste e democratiche. Leggi tutto l’articolo
Il presidente Usa alle prese con Iran e Nord Corea
Anthony M. Quattrone
l’Iran e la Corea del Nord, definiti da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, stati canaglia e parte della “Axis of Evil” (asse del male), assieme all’Iraq di Saddam Hussein, sono oggi di nuovo al centro dell’attenzione della politica estera americana, per gli stessi motivi di sette anni fa. Entrambi i paesi progrediscono verso l’acquisizione di armi di distruzione di massa, lavorando tenacemente ai rispettivi programmi nucleari.
Il 24 maggio 2009, l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori riuniti Usa, ha dichiarato alla televisione americana ABC, che “la Repubblica islamica potrebbe sviluppare la bomba atomica entro tre anni.” Il 25 maggio 2009, il giorno dopo le dichiarazioni di Mullen, la Corea del Nord ha fatto esplodere il suo secondo ordigno nucleare, in barba alle diffide fatte dalle Nazioni Uniti, dopo il primo test nucleare del 2006. Nell’arco di due giorni, gli Stati Uniti, e il mondo intero si sono trovati di nuovo di fronte ad un’asse del male, ristrutturato, rielaborato, e più avanzato rispetto al 2002, ma orfano dell’Iraq di Saddam.
Se nel caso dell’Iraq è ormai assodato che non c’erano armi di distruzione di massa, nel caso dell’Iran e della Corea del Nord, sono gli stessi governanti ad ammettere che si lavora verso l’acquisizione del nucleare, facendo pubblico sfoggio dei progressi fatti. Il presidente americano Barack Obama forse sarà costretto ad ammettere che Bush non aveva visto male nel caso di Iran e della Corea del Nord, ma potrà continuare a sostenere che la guerra in Iraq è stato un errore che ha distolto l’America dai pericoli effettivi causati dalle politiche di Teheran and Pyongyang, in campo nucleare, e non ha permesso alle forze americane e della coalizione di completare il lavoro in Afghanistan per debellare permanentemente la presenza di al Qaeda.
Obama ora dovrà decidere quali politiche adottare nei confronti dei due paesi superstiti dell’asse del male. Mentre l’Iran tiene aperto il discorso sul nucleare con la comunità internazionale, giocando al tira e molla sui controlli, dichiarando che mira ad usare l’atomo solo per scopi civili, la Corea del Nord non fa mistero della sua intenzione di diventare una potenza nucleare per scopi militari. Un test missilistico in Iran non è mai connesso, pubblicamente, al programma nucleare, mentre a Pyongyang non si fanno misteri sugli obiettivi dei test, sulla gittata dei missili e sulla capacità di trasportare testate nucleari. Leggi tutto l’articolo
Dopo la crisi economica, Barack affronta la politica estera
Anthony M. Quattrone
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, aveva chiesto al Congresso di approvare, entro la metà di febbraio, un pacchetto di misure per stimolare l’economia americana. A fine gennaio, la Camera aveva approvato un piano che prevedeva una spesa di 819 miliardi di dollari. Pochi giorni fa, il Senato ha approvato una versione più magra. Finalmente, mercoledì 11 febbraio, i due rami del Congresso hanno trovato un accordo fra di loro e hanno anche raggiunto un compromesso con Obama, per un piano che prevede una spesa totale di 790 miliardi di dollari.
Secondo il capogruppo della maggioranza democratica al Congresso, Harry Reid, “un terzo della cifra servirà per ridurre la pressione fiscale per le famiglie del ceto medio, abbassando le tasse per oltre il 95 percento dei lavoratori americani.” Gli altri due terzi del pacchetto saranno spesi per le infrastrutture, il trasporto di massa, l’ammodernamento del sistema scolastico, e altri investimenti che dovrebbero servire per la creazione di circa 3,5 milioni di posti di lavoro, oltre a misure speciali per sostenere coloro che hanno perso l’impiego nel corso dell’attuale crisi.
L’annuncio del compromesso ha avuto un effetto immediato, importantissimo anche da un punto di vista psicologico, con l’annuncio della compagnia Caterpillar, il primo fabbricante mondiale d’attrezzatura pesante per la costruzione e l’industria mineraria, che ha deciso di ritirare le lettere di licenziamento che aveva già spedito a circa 22 mila lavoratori. Fino a qualche mese fa, ottenere un impiego alla Caterpillar era considerato una garanzia di lavoro a vita per un operaio o un tecnico americano. Il ritiro dei licenziamenti da un messaggio di ottimismo e di speranza, all’intera economia americana e al ceto medio, forse anche più dell’andamento di Wall Street. Con il compromesso raggiunto, il Congresso potrà presentare al presidente l’intero piano fra qualche giorno, perfettamente in linea con lo scadenziario richiesto da Obama.
L’attenzione di Obama si sta spostando con maggiore enfasi verso la politica estera, ed in particolare sul rapporto fra gli Stati Uniti e l’Iran. Durante la campagna elettorale, Obama aveva più volte manifestato l’intenzione di riaprire il dialogo con Teheran, alternando la possibilità di sedersi con la leadership iraniana senza porre condizioni, con posizioni più rigide, in linea con la tradizionale politica americana, chiedendo agli iraniani di bloccare il piano nucleare in atto e di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele. Leggi tutto l’articolo
Era il 19 Luglio, quando a Ginevra i 5+1 (5 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) concessero a Teheran due settimane di tempo per congelare il programma nucleare avviato dal paese sin dal 1978, ed in particolare l’arricchimento dell’uranio, in cambio di un pacchetto di incentivi per consentire l’avvio di colloqui preliminari con l’obiettivo di smorzare i toni delle tese relazioni diplomatiche con l’Occidente.
Di lì a poco, la risposta del Presidente iranianoAhmadinejad, repentina ed immediata, ma non eccessivamente incline al compromesso, è stata puntualmente pubblicata sul sito internet presidenziale al termine di un colloquio a Teheran col presidente siriano Al-Assad .
“Qualsiasi negoziato cui prenderemo parte”, tuona in maniera risoluta Ahmadinejad, “sarà inequivocabilmente in linea con l’obiettivo della realizzazione del diritto dell’Iran al nucleare e la nazione iraniana non arretrerà un millimetro dai suoi diritti”.
Parole che tracciano un incolmabile solco all’interno della comunità internazionale e mirano ad inasprire gli ormai precari equilibri in Medio Oriente.
All’interno del più ampio spettro della National Security Strategy dettagliatamente stilata dall’Amministrazione Bush, lo scacchiere mediorientale si colloca, difatti, in maniera ambigua e disomogenea, data la diversa “affinità” dei paesi dell’area nei confronti degli Usa, e considerando, inoltre, che alcuni di essi, quali Iran ed a fasi alterne Siria e Libia, rientrano egregiamente nella malvista categoria dei “rogue States” (Stati canaglia).