Politica estera al centro della campagna presidenziale USA

Anthony M. Quattrone

E’ difficile comprendere quale traiettoria imboccherà la politica estera americana dopo le elezioni presidenziali del prossimo novembre. Una vittoria democratica potrebbe essere caratterizzata da una totale discontinuità con la politica estera perseguita durante gli ultimi otto anni dal presidente George W. Bush.  Molti sperano che la Casa Bianca abitata dal senatore dell’Illinois, Barack Obama, possa divenire il centro di un nuovo modo di concepire la politica mondiale, dove la priorità dell’azione concordata, e multilaterale, metterebbe in secondo piano la tentazione di agire in unilateralmente.

L’opinionista del New York Times, Gail Collins, nota, tuttavia, che Obama non è mai stato contrario né all’uso della forza militare in senso preventivo e unilaterale, né alla guerra in assoluto.  Collins ricorda che nel famoso discorso che Obama ha tenuto il 2 ottobre 2002, contro l’affidamento dei poteri di guerra al presidente George W. Bush da parte del Congresso, che permise al presidente di ordinare l’attacco all’Iraq il 20 marzo 2003, il senatore dell’Illinois fece la distinzione fra guerre giuste e quelle sbagliate, dichiarando che era contrario alla guerra in Iraq perché era una guerra stupida. Per Collins, Obama vuole evitare di fare cose “stupide” in politica estera, e così si spiegherebbero anche le sue recenti dichiarazioni sui tempi del ritiro delle truppe Usa dall’Iraq.  Obama ha promesso, durante le primarie, di ritirare le forze Usa entro 16 mesi dall’inizio della sua presidenza; ma pochi giorni fa ha raffinato la sua promessa, affermando che è pronto a far slittare la data se le condizioni sul terreno lo impongono.  In breve, non vuole fare cose “stupide”.

Obama è consapevole che molti osservatori sono preoccupati per la poca esperienza che ha in politica estera, come spesso gli rinfacciava durante le primarie la senatrice di New York, Hillary Clinton. Le preoccupazioni degli osservatori, in questo campo, potrebbero affievolirsi appena il candidato democratico fa conoscere i nomi di chi sono i suoi principali consiglieri in materia di politica estera.

Una vittoria a novembre del senatore dell’Arizona, John McCain, il candidato repubblicano, non tranquillizzerebbe, tuttavia, gli osservatori americani e internazionali, principalmente perché nel partito repubblicano ci sono posizioni abbastanza contrastanti, se non addirittura diametralmente opposte, in tema di politica estera. Derek Chollet e James Goldgeier hanno scritto un articolo l’8 luglio per Politico.com, intitolato “La divisione sulla politica estera causa problemi per i repubblicani”. Secondo questi due commentatori, la discordia in casa repubblicana fra idealisti e pragmatici si sta acuendo, al punto da far riemergere di nuovo la falla di demarcazione che negli anni 90 caratterizzava la visione della politica estera della destra americana.

Secondo Chollet e Goldgeier, mentre i realisti pragmatici si battono contro i neoconservatori per dominare la politica estera del Partito repubblicano, due gruppi di estremisti conservatori, gli isolazionisti, scettici di qualsiasi impegno globale, e i nazionalisti, impegnati contro l’immigrazione, rimangono forti. Durante i vent’anni che hanno preceduto la caduta del Muro di Berlino nel 1989, l’anti-comunismo è stato, all’interno della destra americana, il collante delle diverse visioni in conflitto.

Negli anni 90, i conservatori si suddividevano fra coloro che predicavano l’isolazionismo, come Pat Buchanan, i realisti pragmatici capeggiati da James Baker e Brent Scowcroft, e la nuova scuola di idealisti neoconservatori, come Norman Podhoretz.  Con l’attacco terrorista dell’11 settembre 2001, i conservatori americani si sono temporaneamente uniti davanti ai pericoli posti dal terrorismo islamico, e hanno appoggiato la visione del presidente George W. Bush di usare la potenza americana, non solo per difendere l’esistenza stessa della nazione, ma anche per esportare la democrazia.

Secondo Chollet e Goldgeiger, tuttavia, la frustrazione dei conservatori nei confronti della politica del presidente Bush in Iraq, e le accuse di manifestata incompetenza nei confronti della sua amministrazione in materia di politica estera in generale, stanno facendo riemergere le divisioni interne alla destra americana. Sono sempre di più coloro che a destra chiedono che il governo americano badi più ai suoi interessi strategici, piuttosto che alle questioni basate sui valori e gli ideali, come la diffusione della democrazia.

Il partito repubblicano, negli ultimi trenta, è riuscito a convincere l’elettorato Usa di avere una visione più chiara sulla questione della sicurezza nazionale e sul ruolo dell’America nel mondo. Se McCain vorrà continuare questa percezione da parte dell’elettorato dovrà fare presto a scegliere quale scuola di pensiero vorrà seguire fra quelle tradizionalmente dominanti fra i conservatori, e sarà necessario far capire agli elettori chi saranno i suoi principali consiglieri.

La presidenza Bush, nel 2000, presentando una squadra di persone con grande esperienza, come il vice presidente Dick Cheney, il ministro della difesa, Donald Rumsfeld, il segretario di stato, Colin Powell, e, il consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, aveva dato al paese la sensazione, secondo Chollet e Goldgeiger, che la politica estera americana era in mano ad una squadra di altissimo livello.  Anche nel 2004, quando Bush ebbe la riconferma alla presidenza, riuscì a convincere l’America che la sua squadra di governo era più affidabile di quella che i democratici avrebbero potuto presentare, e che dal 2001 l’America era più sicura.  La squadra di Bush, con tutta la sua grande esperienza, ha portato l’America nel pantano dell’Iraq nel 2003, e non ha ancora saputo tirarla fuori.

Pubblicato sull’Avanti! il 16 luglio 2008 con il titolo: “Politica estera, Obama e McCain in cerca di una linea” (sopratitolo: “Usa 2008/ A meno di quattro mesi dal voto per le Presidenziali, nessuno dei due candidati risulta convincente“)

Autore: Tony Quattrone

Tony Quattrone è stato eletto rappresentante del Partito Democratico USA in Italia dal marzo 2015 al marzo 2017 (Democrats Abroad Italy-Chair). Ora vive a Houston, Texas, dove milita nel Partito Democratico della Contea di Harris. Ha vissuto in Italia per quasi 50 anni, dove ha lavorato prima per i programmi universitari del Dipartimento della Difesa USA, e poi come Capo delle Risorse Civili del Comando NATO di Napoli. Ha pubblicato oltre 200 articoli in italiano per diverse testate (Quaderni Radicali, Il Denaro, L'Avanti, ecc.) ed è stato intervista più volte dalla RAI e altre emittenti in Italia a proposito delle elezioni USA.

Un commento su “Politica estera al centro della campagna presidenziale USA”

  1. Premettendo di essere un sostenitore di Barack Obama, ritengo che avrà molti problemi a dare una sterzata alla politica estera americana. La realtà è ben diversa e solo un diplomatico alla Kissinger potrebbe tirar fuori gli Stati Uniti dal pantano iracheno senza perdere la faccia. Il problema è capire se davvero gli Stati Uniti vogliano dare una svolta alla loro politica estera. Personalmente ritengo che Obama rappresenti in qualche modo il ”cambiamento”(nell’eventualità che vinca) ed infatti si vede tranquillamente in lui qualcosa di John F. Kennedy e nel suo programma qualcosa della nuova frontiera. Forse erano proprio 40 anni che gli americani non vivevano una campagna elettorale per le presidenziali di questo genere, con una figura molto idealista e idealizzata come quella di Obama.Ma Obama, come Kennedy, eredita una situazione internazionale non certo facile e potrebbe davvero avere degli smacchi politici pesanti (come Kennedy alla Baia dei Porci) essendo la politica estera il suo tallone di Achille e tutti saranno pronti a puntargli il dito contro anche all’interno del suo partito, a mio avviso fortemente spaccato dopo queste primarie. La situazione irachena non permette certo di sperare che le truppe americane si possano ritirare in 16 mesi, e questo lo sanno sia Obama che Mcain. A questo punto poi non bisogna nemmeno dimenticarsi dei venti di guerra verso l’Iran (forse qui però un attacco sarebbe molto più giustificato). Sono un forte sostenitore della leadership che gli USA devono avere nel mondo, ma ritengo un grande errore politico e militare, da parte dell’amministrazione Bush, l’attacco all’Iraq. Probabilmente però oggi sarebbe un errore più grande ritirarsi, bisonerebbe perciò tentare un forte sforzo diplomatico per risolvere la questione. Obama dice che lo sforzo militare americano dovrebbe essere più concentrato sull’Afghanistan per trovare Bin Laden (e su questo punto , cioè sulla cattura di Bin Laden, si trova daccordo con Mcain naturalmente) ma io ritengo che bisognerebbe guardare anche oltre. Auspico che chiunque vinca questa sfida capisca che il vero problema estero per gli Stati Uniti non è l’Iraq (ovviamente in prospettiva futura) o la guerra al terrorismo, ne l’Iran, ma è la sfida militare (e non solo più economica) che lancerà la Cina, ed è per questo che chiunque vinca deve sapere che un Medioriente ed un mondo islamico finalmente pacificato e integrato all’interno di un alleanza con gli USA e l’occidente, potrebbe diventare un avamposto geografico, politico e militare da puntare contro un futuro blocco cinese.

    L’avvertimento è che quindi si lascino da parte tentazioni di invasione o attacco all’Iran, a favore di una politica estera più moderata e meno aggressiva nei confronti di questi paesi. Questa secondo me dovrà essere la missione di Obama o di Mcain.

    Quindi si dovrà tentare di concepire un nuovo modo di fare politica, non più basato come negli ultimi anni, come una sfida con il mondo islamico ma anzi tentare di mediare con esso.

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