Obama ritorna dalla Cina a mani vuote

U.S. President Barack Obama smiles as he tours the Great Wall in Badaling, China, Wednesday, Nov. 18, 2009. (AP Photo/Charles Dharapak)

Anthony M. Quattrone

Il presidente Barack Obama ha battuto il record di George H. W. Bush per il numero di viaggi fatti all’estero durante il primo anno di un mandato presidenziale americano.  Bush padre aveva raggiunto 14 paesi, mentre Obama, con il viaggio in Asia, è arrivato già a 20.  E’ chiaro che Obama sta tentando di migliorare l’immagine degli Usa cercando di far prevalere una visione di un’America aperta al dialogo e pronta ad ingaggiare avversari o presunti tali, attraverso un confronto franco e leale.

Il viaggio in Asia, ed in particolare in Cina, tuttavia, secondo i giornalisti Helene Cooper e Edward Wong dell’International Herald Tribune, non permetterà ad Obama di portare a casa alcuna particolare concessione, né per quanto riguarda la politica economica, né sulla scottante questione dei diritti civili.  In pratica, secondo i due giornalisti, Obama non è riuscito a trovare un accordo con il presidente cinese Hu Jintao su nessuno dei temi importanti.  Non si parla di appoggio cinese per effettuare sanzioni nei confronti di Teheran per impedire agli iraniani di continuare ad ignorare la comunità internazionale sulla questione del nucleare.  I cinesi non vogliono prendere in considerazione di permettere la rivalutazione della loro moneta per paura di ridurre le esportazioni.  Sulla questione dei diritti civili, l’unico accordo raggiunto fra i due paesi è il riconoscimento che le parti hanno sostanziali divergenze.

Secondo Eswar Prasad, un sinologo della Cornwell University, i cinesi hanno magistralmente gestito la scena, amplificando le dichiarazioni di Obama a favore delle politiche cinesi, nascondendo le differenze, come nel caso della questione dei diritti civili e la politica monetaria cinese.  Anche quando ad Obama è stato permesso di condurre una discussione pubblica con gli studenti a Shangai, seguendo il formato della “town-hall meeting” ormai diventato comune negli appuntamenti politici negli Usa, i cinesi si sono affrettati a riempire la sala con fedeli studenti iscritti alla gioventù comunista, o figli di membri del partito.  In breve, non c’è niente di nuovo dietro la grande muraglia del comunismo cinese, a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino.

Lo staff di Obama, tuttavia, è dell’opinione che l’obiettivo principale della visita presidenziale in Cina è stato raggiunto, perchè, senza offendere l’interlocutore, sono stati sollevati alcune questioni di principio, come quelle inerenti ai diritti umani e quelli civili, in un ambito privato, lontano dalle telecamere.  Secondo Michael A. Hammer, portavoce del Consiglio nazionale per la sicurezza americana, “Siamo venuti per parlare schiettamente a proposito di quei temi che sono importanti per noi, senza farlo in un modo inutilmente offensivo, seguendo lo stile rispettoso di Obama”.

L’unico tema inerente ai diritti civili che Obama ha toccato in pubblico è stata la questione tibetana, quando a Shangai, il 17 novembre 2009, il presidente americano ha chiesto a Hu Jintao di riavviare il dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama.  Obama ha dichiarato durante un incontro con i giornalisti che “pur riconoscendo che il Tibet fa parte della Repubblica popolare cinese, gli Stati Uniti sostengono una rapida ripresa del dialogo fra il governo cinese e i rappresentanti del Dalai Lama per risolvere ogni preoccupazione e dissidio che possa esservi tra le parti”.  Con l’eccezione della dichiarazione pubblica di Obama sul Tibet, il presidente americano ha evitato temi taboo, come la sollevazione di Piazza Tienanmen del 1989, l’arresto di attivisti per i diritti civili, e la repressione delle minoranze.

Durante in corso del viaggio all’estero, Obama non ha potuto evitare di fare attenzione al dibattito politico negli Usa, dove secondo un sondaggio condotto dalla Quinnipiac University la popolarità di Obama è scesa al 48 percento, con soltanto il 38 percento che approva la politica della Casa Bianca in Afghanistan.  Gli interventi in economia non hanno prodotto i risultati sperati, almeno fino ad ora, specialmente nel campo dell’occupazione.

Secondo l’opinionista conservatore del New York Times, Ross Douthat, gli assistenti di Obama hanno convinto l’opinione pubblica dieci mesi fa sulla giustezza del pacco di misure proposte per stimolare l’economia, indicando che la proiezione per la disoccupazione prevista per l’autunno era del 9 percento senza lo stimolo all’economia, e l’8 percento con lo stimolo.  Secondo Douthat, i dati reali per il mese di ottobre, pubblicati dal Dipartimento del lavoro, sono del 10,4 percento, ben 2,4 punti superiori a quanto previsto con l’approvazione dello stimolo economico.

Le notizie per Obama non sono buone nemmeno sul fronte dell’edilizia abitativa.  Il giornalista Javier C. Hernandez del New York Times rivela che secondo il dipartimento del commercio erano previste 590 mila nuove costruzioni nel mese di ottobre, ma, soltanto 529 mila unità sono state effettivamente costruite.  La ripresa dell’edilizia abitativa doveva essere un chiaro segnale che l’economia era sulla strada della ripresa.

Il periodo delle festività natalizie è dietro l’angolo, e non sarà sufficiente l’approvazione della riforma del sistema sanitario, sempre che Obama ci riesca prima di Natale, per far rallegrare i milioni di disoccupati, che ora rischiano anche di perdere il sussidio di disoccupazione, se il Congresso non si affretta a finanziarlo ed estenderlo oltre il gennaio 2010.

Il mancato progresso nella conduzione della guerra in Afghanistan, l’impegno continuo in Iraq, la notizia dell’aumento dei suicidi nelle forze armate, e la mancata chiusura di Guantanamo entro il gennaio 2010, contrariamente a quanto Obama ordinava esattamente dieci mesi fa, poche ore dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, creano una miscela esplosiva, che il giovane presidente americano deve saper abilmente disinnescare.  La miccia è corta, e la mancata ripresa dell’occupazione può fare da detonatore.  Obama, tuttavia, ha spesso sorpreso gli osservatori con il suo ottimismo, la sua competenza, e la sua grande capacità oratoria.  L’attuale congiuntura è forse il primo vero banco di prova per il presidente.

Autore: Tony Quattrone

Tony Quattrone è stato eletto rappresentante del Partito Democratico USA in Italia dal marzo 2015 al marzo 2017 (Democrats Abroad Italy-Chair). Ora vive a Houston, Texas, dove milita nel Partito Democratico della Contea di Harris. Ha vissuto in Italia per quasi 50 anni, dove ha lavorato prima per i programmi universitari del Dipartimento della Difesa USA, e poi come Capo delle Risorse Civili del Comando NATO di Napoli. Ha pubblicato oltre 200 articoli in italiano per diverse testate (Quaderni Radicali, Il Denaro, L'Avanti, ecc.) ed è stato intervista più volte dalla RAI e altre emittenti in Italia a proposito delle elezioni USA.

Un commento su “Obama ritorna dalla Cina a mani vuote”

  1. Tony, per fare grande un Presidente ci vogliono anche grandi collaboratori. A me sembra che il Prsidente debba lottare contro tutti, anche all’interno del suo gruppo parlamentare. Questo lo porta a fare tutto di testa sua e, poichè non ha molta esperienza ma solo impeto giovanile, tutto cuore e innovazione, ad incontare seri ostacoli. Un abbraccio, Enzo.

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