Le due sponde dell’Atlantico: tra multilateralismo ed integrazione

Diana De Vivo

A distanza di pochi giorni dal “No” irlandese in seguito al referendum indetto dal paese per la ratifica del Trattato di Lisbona, che riprende quasi il 90% delle riforme promosse con il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa del 2005, l’Europa unita sente inesorabilmente sorgere il lontano eco della “crisi di riflessione” che si insinuò tra le democrazie del continente in seguito alla bocciatura francese ed olandese dello stesso. Ed ecco immediatamente riproporsi uno scenario che ha il sapore dell’avvenuto, ancestrale timore dei governi d’Europa, e che spinge ad “andare avanti”, come esorta con impagabile lucidità Nicolas Sarkozy, Presidente del paese che ha appena assunto la guida dell’Unione.

Dall’altra parte dell’Atlantico, nel pieno della campagna elettorale tra i due candidati in corsa per la Presidenza degli Usa, Barack Obama e John McCain, gli equilibri si plasmano nuovamente, come pedine di un gioco ancora irrisolto. E nuovi scenari, nuove dottrine, nuove strategie si elaborano, alcune preconizzando un taglio netto con il passato, altre ricalcando il cammino tracciato da quello, ma con nuovi e fecondi presupposti. “Oltre l’unipolarismo”, a dominio americano, che alcuni definiscono profondamente “egemonico”, è l’imperante monito di coloro che intendono, nel lungo periodo, costruire o ricostruire, un sistema internazionale basato sul multilateralismo e la cooperazione internazionale, un sistema che ricalchi il modello del Congresso di Vienna il quale condusse l’Europa in un’era di pace centennale, ma in procinto di adattarsi al pluralismo, alla complessità delle odierne relazioni internazionali. In tale scenario il tema della sicurezza e del terrorismo, delle armi di distruzione di massa (Weapons of Mass Destruction-WMD), continuano a identificare vecchie minacce che l’altra faccia della globalizzazione, detta altrimenti, “interdipendenza complessa”, insostenibilmente alimenta. Pertanto, le due sponde dell’Atlantico, seppur in alcuni momenti lontane anni luce, come nel caso del conflitto iracheno, devono stabilmente ricompattarsi, in questo momento di transizione, il cui sbocco è imprevedibile, poiché condividono sfide comuni che resteranno i punti centrali dell’agenda transatlantica.

E’ chiaramente necessario che l’Ue riprenda i negoziati per condurre il Trattato di Lisbona, tanto agognato, ad un esito positivo nell’immediato futuro. Il nuovo Trattato, difatti, offre all’Europa tutti gli strumenti per costruire una politica estera che sappia “parlare ad una voce”, al fine di acquisire un peso notevole all’interno del sistema internazionale. Soltanto utilizzando tali strumenti l’Europa può divenire un attore rilevante che agisca per riportare gli Usa all’interno di un sistema integrato e concertato di potenze. E’ ormai pienamente pacifico che l’antiterrorismo e i pre-emptive strike non costituiscono un obiettivo sufficientemente garantista per la nuova politica estera Usa, poiché limitati nelle proprie prospettive e tendenzialmente miopi se gestiti quasi esclusivamente disponendo dell’hard power.

La diffusione del terrorismo, delle WMD, della criminalità organizzata, il problema del surriscaldamento climatico richiedono soluzioni globali e concertate che devono ricostituire salde alleanze, come all’interno delle istituzioni internazionali, seppur talvolta con vacillanti derive individualiste, e non coalizioni ad hoc, come nel caso della ricostruzione post-bellica in Iraq nell’ambito della missione di peacekeeping (mantenimento della pace).

Dunque, al fine di affrontare le nuove minacce asimmetriche, l’estremismo settario e la criminalità organizzata, veicolo di malcontento all’interno dell’opinione pubblica, occorre, necessariamente, elaborare una dottrina di politica estera onnicomprensiva ed integrazionista, sicuramente concertata, che comporti una ristrutturazione del sistema “ONUsiano” secondo nuovi presupposti e che sia in grado di calibrare la prospettiva realista, quella liberale e costruttivista, che pone l’accento su norme, valori ed idee ( e gli eventuali e prevedibili contrasti tra queste) su cui giace l’identità di popoli e Stati. La sostenibilità, in un orizzonte di lungo periodo, della “primacy” degli Usa all’interno del sistema internazionale, in accordo con la disposizione dell’iniziativa strategica, che implica un controllo pieno del corso degli eventi, è necessariamente affiancata dalla flessibilità. Occorre creare un opportuno e valido mix tra diplomazia e strumento militare, utilizzando il coalition building, il soft power, e differenti mezzi di persuasione al fine di evitare politiche esclusiviste che indubbiamente comportano un inasprimento delle relazioni internazionali.

Un notevole banco di prova per i due candidati che attualmente sono in corsa per la Presidenza, che ha una rilevante incidenza nei confronti dell’opinione pubblica e all’interno del dibattito elettorale è, senza dubbio, il conflitto iracheno. Al di là della riconosciuta opinabilità dei casus belli, l’elaborazione di una exit strategy che consenta di “tirarsi fuori” dal pantano iracheno, richiede il superamento dell’impasse attuale. Le priorità del regime change, hanno condotto, nel caso dell’Iraq, allo svolgimento delle elezioni politiche, le quali hanno cristallizzato le ancestrali divisioni storiche all’interno del paese che non aveva, chiaramente, un’esperienza consolidata in merito ad istituzioni e valori democratici.

Temi su cui è necessario rispondere con delle consolidate, onnicomprensive, valide e condivise, dottrine di politica estera. I tragici eventi dell’11 settembre hanno condotto gli Usa all’interno di una biforcazione profonda. Sin dalla fine della Guerra Fredda, sia i funzionari eletti, sia l’opinione pubblica avevano mostrato un sostanziale ed inspiegabile disinteresse per la politica estera, cullati nel compiacimento della supremazia americana e dalla presunta inviolabilità del territorio nazionale. In seguito agli attentati, la difesa del territorio nazionale e la lotta al terrorismo divennero rapidamente le priorità della National Security Strategy. Democratici e Repubblicani serrarono le fila, abbracciando uno spirito bipartisan, rinvigorendo alleanze interne ormai logore, stringendo nuovi legami e abbandonando, segnatamente nei primi stadi dell’approccio seguito dall’Amministrazione Bush, le inclinazioni unilateraliste. I più confidavano nel fatto che la minaccia del terrorismo avrebbe risvegliato non solo l’internazionalismo americano, ma anche quello di spiccata impronta liberale, legato all’azione multilaterale ed alla fiducia nelle istituzioni internazionali, che gli Usa hanno contribuito a plasmare. E’ del tutto incerto se il terrorismo riuscirà a vaccinare gli Stati Uniti dal fascino dell’isolazionismo e dell’unilateralismo. L’attuale rapida espansione della globalizzazione e del capitalismo di mercato stanno conducendo progressivamente all’obsolescenza delle grandi guerre, ma, allo stesso tempo, al malcontento ed all’insoddisfazione di individui e gruppi ostili e delle frange attorno cui gravitano. E’ compito degli Usa progettare, sin da ora, una grande strategia per la transizione ad un mondo composto di molteplici centri di potere.

Pertanto il risultato delle prossime elezioni presidenziali Usa influenzerà gli attuali equilibri su cui si regge in maniera precaria il sistema internazionale. La consolidata esperienza politica di McCain e la propulsione verso il cambiamento di Obama rappresentano le due facce della medaglia della politica Usa, e dei suoi risvolti internazionali. I risultati di novembre, probabilmente, modificheranno profondamente la realtà geopolitica mondiale. Potrebbe mutare l’importanza relativa del soft power rispetto all’hard power, il ruolo delle Nazioni Unite e la probabilità di un ordine internazionale cosmopolita rispetto all’egemonismo unilaterale. Adattare la politica estera ad un sistema internazionale in cambiamento è la sfida centrale che i due candidati alla Presidenza devono prepararsi ad affrontare oggi, così come in passato. Gli osservatori mondiali scrutano ogni frase, ogni accenno, ogni indicazione che proviene dai due candidati con interesse e preoccupazione.

Il sistema internazionale, difatti, è mutevole e fragile, e può andare in pezzi con sorprendente velocità.