La sfida iraniana: il dibattito sul nucleare

Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad
Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad

Diana De Vivo

Era il 19 Luglio, quando a Ginevra i 5+1 (5 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) concessero a Teheran due settimane di tempo per congelare il programma nucleare avviato dal paese sin dal 1978, ed in particolare l’arricchimento dell’uranio, in cambio di un pacchetto di incentivi per consentire l’avvio di colloqui preliminari con l’obiettivo di smorzare i toni delle tese relazioni diplomatiche con l’Occidente.

Di lì a poco, la risposta del Presidente iraniano Ahmadinejad, repentina ed immediata, ma non eccessivamente incline al compromesso, è stata puntualmente pubblicata sul sito internet presidenziale al termine di un colloquio a Teheran col presidente siriano Al-Assad .

“Qualsiasi negoziato cui prenderemo parte”, tuona in maniera risoluta Ahmadinejad, “sarà inequivocabilmente in linea con l’obiettivo della realizzazione del diritto dell’Iran al nucleare e la nazione iraniana non arretrerà un millimetro dai suoi diritti”.

Parole che tracciano un incolmabile solco all’interno della comunità internazionale e mirano ad inasprire gli ormai precari equilibri in Medio Oriente.

All’interno del più ampio spettro della National Security Strategy dettagliatamente stilata dall’Amministrazione Bush, lo scacchiere mediorientale si colloca, difatti, in maniera ambigua e disomogenea, data la diversa “affinità” dei paesi dell’area nei confronti degli Usa, e considerando, inoltre, che alcuni di essi, quali Iran ed a fasi alterne Siria e Libia, rientrano egregiamente nella malvista categoria dei “rogue States” (Stati canaglia).

E, così, mentre Israele è abitualmente visto come un avamposto occidentale all’interno del mondo arabo, dato il legame, piuttosto mal digerito dai vicini mediorientali, con gli Usa, il Vice Presidente Dick Cheney ha affermato, qualche tempo fa, inequivocabilmente, che “l’Iran costituisce la sfida strategica più importante per gli Stati Uniti nell’area inaugurando la politica di “contenimento” della minaccia iraniana.

Seguendo le orme tracciate dalla Dottrina Truman, in piena Guerra Fredda, nel quadro della politica di “containment” nei confronti dell’Unione Sovietica, l’Amministrazione Bush ha risentito nuovamente dunque, degli impulsi neoconservatori che orientano ed indirizzano la maggior parte delle policy americane e il dibattito sul nucleare iraniano ha assunto toni aspri persino nell’ambito della campagna elettorale americana.

Così, mentre il candidato democratico, Barack Obama, in una prospettiva dal sapore liberale, acclama la centralità del negoziato, delle trattative dirette e della diplomazia con Teheran, John McCain, il candidato repubblicano, seguendo in parte la linea tracciata dall’Amministrazione Bush, ed arricchendosi di una prospettiva indubbiamente realista, respinge il negoziato finché l’Iran non accoglierà le richieste americane di sospensione del processo di arricchimento dell’uranio, prerequisito, quest’ultimo, indispensabile per procedere in seguito con i negoziati. Ma Obama evidenzia la priorità delle trattative e della diplomazia su più canali, che dovranno precedere qualsiasi misura unilaterale e non concertata da parte degli Usa, dal momento che egli ritiene che “il pericolo rappresentato dall’Iran è serio e reale”, così come il suo impegno nel neutralizzare questa eventuale minaccia.

Un orientamento pragmatico prontamente sminuito dal senatore McCain, il quale ha affermato, durante un discorso tenutosi a Chicago (Illinois), che “l’intenzione di Obama di negoziare con il Presidente iraniano Ahmadinejad, mostra sintomi di imprudenza ed inesperienza ed, inoltre, implica un’incauta gestione delle relazioni internazionali”.

Chiaramente, secondo quanto sostiene Barack Obama, l’Iran pone oggi una minaccia indubbiamente incomparabile rispetto a quella rappresentata dall’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, ma, allo stesso tempo, la volontà di McCain nel procedere sui binari tracciati dalla politica perseguita dall’Amministrazione Bush comporta, senz’altro, irrimediabilmente continuità e non un reale cambiamento di rotta.

“Per quale ragione”, replica, dunque, Obama, “non dovremmo avere il coraggio e la fiducia per negoziare con i nostri nemici?”, “ci si dovrebbe aspettare questo da una grande potenza come gli Usa”. Oltretutto McCain non sembra apprezzare l’intenzione del candidato democratico di avviare un dialogo con Hamas, un gruppo fondamentalista islamico, etichettato dagli Usa quale organizzazione terroristica.

La questione centrale all’interno del dibattito volge, in particolare, sulla crescente influenza politica acquisita dall’Iran negli affari mediorientali e sulla ormai percepita intenzione del paese di divenire uno Stato “pivotal” all’interno dell’area.

In tale scenario, numerosi analisti sostengono che l’Amministrazione Bush abbia fallito nell’analizzare le diverse posizioni degli Stati della regione e le loro rispettive “apprensioni” nei confronti dell’“espansionismo” iraniano.

In particolare, Arabia Saudita e Bahrain non accettano di buon grado le continue interferenze di Teheran nei loro affari interni, mentre Egitto e Giordania temono l’influenza nell’ambito del conflitto arabo-israeliano.

Per di più, i paesi del Golfo hanno intrecciato con Teheran delle estese relazioni economiche a partire dagli anni novanta, e, attualmente, risentono le conseguenze delle tensioni tra Teheran e gli Usa.

Pertanto la strategia perseguita dagli Usa che fa perno sul contenimento della minaccia iraniana e che trovi il consenso, seppur velato, dei paesi arabi è, tenendo conto di questi presupposti, ovviamente impraticabile, almeno in teoria.

All’interno di questo intreccio diplomatico ha avuto un ruolo di relativa importanza l’Alto Rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza, Javier Solana, il quale aveva proposto di congelare per sei settimane l’arricchimento dell’uranio e l’applicazione delle sanzioni economiche dell’Onu.

Si tratta di un escamotage ideato all’interno dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, e chiamato in gergo “freeze for freeze”, ovvero “congelamento per il congelamento”, una strategia che consente di superare i veti reciproci, abbandonando la sospensione unilaterale.

Sarà solo l’ennesimo tentativo, o l’inizio di seri colloqui diplomatici?

L’uranio naturale, difatti, che tra tutti i materiali fissili, ossia frantumabili, è più abbondante in natura e facilmente reperibile, ha il 99,3% di uranio238 e lo 0,7 di uranio235. Nella maggior parte delle centrali nucleari, l’U-235 deve essere almeno vicino al 2-3%: per tale ragione è sottoposto ad un processo di arricchimento che si ottiene attraverso reazioni chimiche con varie sostanze. Per costruire una bomba atomica è necessario l’U-235 arricchito oltre l’80 il 90 per cento.

L’Iran ha raggiunto, attualmente, l’obiettivo delle 3.000 centrifughe, una tappa simbolica che consente teoricamente di ottenere in meno di un anno uranio altamente arricchito sufficiente per costruire una bomba atomica. Lo ha annunciato il presidente della repubblica islamica, Mahmoud Ahmadinejad, in un discorso trasmesso dalla televisione.

Un’ultima nota di colore che traccia l’epilogo, forse inaspettato, delle trattative diplomatiche riguarda l’ultimo vertice che ha coinvolto il gruppo dei 5+1 in sede ONU il giorno 26 settembre 2008.

Esso non prevede nuove sanzioni contro l’Iran, ribadendo, ulteriormente, l’intenzione dei membri permanenti di discutere circa i “passi successivi” del programma nucleare iraniano.
Certamente, contrariamente a quanto sostengono i più, l’Iran non sembra vicino al “nuclear tipping point”, ma, allo stesso tempo, parafrasando uno dei più noti analisti di Relazioni Internazionali, Kenneth Waltz, teorico della scuola neo-realista, “disporre del nucleare comporta soprattutto delle responsabilità”.

Anche se si tratta dell’incontestabile diritto al “nucleare per scopi civili”.

2 pensieri riguardo “La sfida iraniana: il dibattito sul nucleare”

  1. Egregia
    Diana De Vivo (che presumo essere la stessa Diana con cui l’altra sera ho scambiato qualche battuta sulla politica americana), come d’accordo Ti invio i nomi dei filosofi che ispirarono i teorici neocons americani, ossia Carl Schmitt e Leo Strauss. Molti “discepoli” di Strauss hanno ricoperto ruoli di primo piano nelle amministrazioni repubblicane di Reagan e Bush Jr, come Paul Wolfowitz (tra l’altro “sfortunato” presidente della Banca Mondiale), William Bennet (già segretario all’Istruzione) e Lewis Libby (capo dello staff di Dick Cheney).
    A presto.
    Gigi

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