La nuova pax americana riparte dalla scacchiera asiatica

Diana De Vivo

Inizia il 13 Novembre il tour diplomatico del Presidente americano Obama in Asia, una scacchiera internazionale delicata, crocevia di ancestrali culture, ineludibile punto di intersezione tra le politiche globali e gli equilibri regionali.
Spazio in ascesa, sul versante economico-politico e demografico, l’Asia tende ad occupare una posizione rilevante all’interno delle policy statunitensi, come confermato dai dossier che hanno contraddistinto gli incontri di vertice tra il Presidente statunitense ed i leader asiatici.

Clima, Corea del Nord, debito estero, squilibri commerciali: temi caldi sui quali Obama intende tessere le fila del suo approccio multilateralista, e, allo stesso tempo, restituire agli Usa un ruolo centrale nel processo di decision-making all’interno dell’area, istituendo una partnership stabile.

Malgrado la crescente popolarità delle tesi di diversi analisti che proclamano l’espulsione dagli Usa dai suoi avamposti asiatici, le tendenze attuali non sembrano confermare tale orientamento dato il supporto offerto costantemente dagli Stati Uniti ai governi della regione nella lotta al terrorismo internazionale (che possiede vaste ramificazioni all’interno del continente), e la garanzia di sicurezza fornita dall’ombrello atomico statunitense a Corea del Sud, Taiwan ed, in misura minore, Giappone.

Correggere alcune ambiguità, consolidare numerose certezze, sciogliere diversi nodi qualificano i tre imperativi categorici che hanno contraddistinto il viaggio del Presidente, incentrato interamente sul dialogo costruttivo e sulla cooperazione allargata con i leader di un continente che tende progressivamente a ritagliarsi spazi di autonomia, costruendo la propria rete di alleanze economico-finanziarie (in parte al di fuori della cornice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio) e le proprie istituzioni multilaterali, sullo slancio detonatore innescato dalla locomotiva cinese.

Ma la strada per Pechino passa da Tokyo per proseguire in seguito al vertice dell’APEC (Singapore): Obama approda in Giappone, guidato dal neo-eletto governo di Yukio Hatoyama, esponente del partito democratico, in un momento cruciale in cui le relazioni diplomatiche tra i due governi sono al punto più basso: sul banco degli imputati un accordo del 2006 che prevede lo spostamento della base militare statunitense di Okinawa dalla sua collocazione attuale, all’interno del tessuto urbano dell’isola, ad una zona meno popolata, a cui dovrebbe seguire la ricollocazione di svariate migliaia di marine americani dalla stessa Okinawa alla base di Guam, nel Pacifico.

Tale trasferimento, concepito, sin dal principio, a spese del governo giapponese, ha costituito una delle principali piattaforme elettorali di Hatoyama, favorevole alla revisione dell’accordo stesso.

Il Presidente americano ha dimostrato, in tale occasione, la volontà di consolidare la propria alleanza storica con un paese che funge da testa di ponte in un continente economicamente e politicamente in ascesa e di riconfigurare e rinnovare, nel caso specifico, la propria presenza militare in vista di un “light military footprint”.

L’idea della ripartizione di alcune cariche della governance globale sottende l’approccio multilateralista seguito da Obama in questa delicata area del continente asiatico, un orientamento politico improntato a ciò che è stato definito quale “realismo etico” (“la grande pace capitalista” di Anatol Lieven, John Hulsman).
Tale approccio in politica estera risente di una nuova base filosofica, che smorza i toni del realismo ortodosso (di cui il più compiuto esponente è Hans Morgenthau) e di una politica orientata alle strategie win-lose, riconoscendo i reali punti di forza e debolezza degli Usa e propagandando una sapiente miscela di morality, tatto, e practical common sense quale guida alla politica globale, sulla base di un ampio supporto internazionale.
Quanto al nucleare, Stati Uniti e Giappone concordano sul fatto che resta di vitale importanza per la Corea del Nord sostenere e rispettare gli obblighi internazionali, ribadendo che la via maestra in vista del disarmo nucleare è il confronto del negoziato a sei.

Il tema del nucleare è stato glissato nel corso del forum APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) a Singapore, al quale Obama ha partecipato, per essere nuovamente ripreso, in seguito, a Pechino.

Si interrompe, al contrario, il lungo gelo diplomatico tra Stati Uniti e Myanmar: dal momento che la politica dell’embargo e delle sanzioni non ha offerto i risultati sperati, Obama tenta la strada del dialogo sul delicato tema dei diritti umani e dei prigionieri politici.

Al vertice APEC, come ampiamente prevedibile, i leader asiatici hanno sferrato una serie di critiche al nuovo protezionismo Usa, citando le clausole del “buy american” inserite in numerosi atti legislativi del Congresso. Quantunque Cina e Giappone siano i più grandi finanziatori del debito americano, Obama ha dichiarato che le economie asiatiche non possono puntare unicamente sul consumatore statunitense al fine di alimentare la propria famelica crescita. Occorre, dunque, elaborare un nuovo modello di sviluppo in vista di una crescita equilibrata e sostenibile, che si svincoli dalle strategie export-oriented, le quali, in occasione di cicli congiunturali recessivi, potrebbero veicolare un pericoloso effetto domino sul sistema economico e finanziario internazionale.

Gli Stati Uniti non possono sostenere, tuttavia, il ruolo di motore della crescita economica mondiale, a spese di un pesante indebitamento: è necessario che i giganti asiatici, trainati dalla locomotiva cinese, consumino ed importino di più.

Ed è proprio a Pechino che si gioca la vera partita sullo scacchiere asiatico: l’ascesa della potenza cinese non spaventa gli Stati Uniti, i quali non intendono adottare strategie di contenimento.

I punti all’ordine del giorno sono numerosi: la questione dei diritti umani, il Tibet, la politica monetaria, il clima, l’Afganistan.

In tale occasione, durante il suo incontro di vertice con il leader cinese, Hu Jintao, Obama chiede una ripresa del dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama, sulla scia di un approccio soft, orientato alla cooperazione ed al dialogo, non ottendendo, tuttavia, dalla controparte evidenti rassicurazioni.

Il medesimo approccio è perseguito sul tema del clima: a meno di un mese dal vertice di Copenhagen, ove si tenterà di superare le defaillance di Kyoto, la Cina sembra non voler piegare il proprio crescente sviluppo alle urgenze ambientaliste dell’Occidente.

L’arma ben detenuta da Pechino, che vede la Cina nelle vesti di maggior creditore statunitense, pesa sul piatto della bilancia rispetto alle leve diplomatiche statunitensi: la partnership strategica, costantemente cercata da Hu Jintao, è stata rimpiazzata, dunque, dalla costruzione di un asse bilaterale in cui gli Usa si impegnano a non ostacolare, né contenere, la crescita economico-politica cinese.

Il “rinnovato” accordo di cooperazione tra i due paesi investirà, dunque, i settori dell’aviazione, dell’industria aerospaziale e della tecnologia ambientale.

Una nuova intesa cordiale è stata, inoltre, raggiunta sulla delicata questione del terrorismo e dell’Afganistan, paese in cui, come in Pakistan del resto, la Cina è impegnata in operazioni di intelligence.

Ma non è possibile raccogliere gli stessi frutti sul piano del G3 (Cina, Usa, Google), in un paese in cui internet è esposto ad uno dei più indiscriminati meccanismi di censura ed oscuramento.

Svariati motivi di dissidio, ma crescenti spiragli di cooperazione tra i due paesi. La grande intuizione di Obama è di ripartire dall’Impero di Mezzo: “Yes he can”, potremmo dire.

Nel regno dell’auspicabile, qual’è la politica, tutto si dimostra possibile.