Obama e le canaglie

Il presidente Usa alle prese con Iran e Nord Corea

South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)
South Korean protesters carry a mock missile along with a defaced North Korean flag in Seoul on June 15. The communist North has described itself as a "proud nuclear power" and has threatened to hit back if attacked, as the United States tracked one of its ships on suspicion it is carrying a banned weapons cargo. (AFP/File/Kim Jae-Hwan)

Anthony M. Quattrone

l’Iran e la Corea del Nord, definiti da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, stati canaglia e parte della “Axis of Evil” (asse del male), assieme all’Iraq di Saddam Hussein, sono oggi di nuovo al centro dell’attenzione della politica estera americana, per gli stessi motivi di sette anni fa.  Entrambi i paesi progrediscono verso l’acquisizione di armi di distruzione di massa, lavorando tenacemente ai rispettivi programmi nucleari.

Il 24 maggio 2009, l’ammiraglio Mike Mullen, capo degli Stati maggiori riuniti Usa, ha dichiarato alla televisione americana ABC, che “la Repubblica islamica potrebbe sviluppare la bomba atomica entro tre anni.”  Il 25 maggio 2009, il giorno dopo le dichiarazioni di Mullen, la Corea del Nord ha fatto esplodere il suo secondo ordigno nucleare, in barba alle diffide fatte dalle Nazioni Uniti, dopo il primo test nucleare del 2006.  Nell’arco di due giorni, gli Stati Uniti, e il mondo intero si sono trovati di nuovo di fronte ad un’asse del male, ristrutturato, rielaborato, e più avanzato rispetto al 2002, ma orfano dell’Iraq di Saddam.

Se nel caso dell’Iraq è ormai assodato che non c’erano armi di distruzione di massa, nel caso dell’Iran e della  Corea del Nord, sono gli stessi governanti ad ammettere che si lavora verso l’acquisizione del nucleare, facendo pubblico sfoggio dei progressi fatti.  Il presidente americano Barack Obama forse sarà costretto ad ammettere che Bush non aveva visto male nel caso di Iran e della Corea del Nord, ma potrà continuare a sostenere che la guerra in Iraq è stato un errore che ha distolto l’America dai pericoli effettivi causati dalle politiche di Teheran and Pyongyang, in campo nucleare, e non ha permesso alle forze americane e della coalizione di completare il lavoro in Afghanistan per debellare permanentemente la presenza di al Qaeda.

Obama ora dovrà decidere quali politiche adottare nei confronti dei due paesi superstiti dell’asse del male.  Mentre l’Iran tiene aperto il discorso sul nucleare con la comunità internazionale, giocando al tira e molla sui controlli, dichiarando che mira ad usare l’atomo solo per scopi civili, la Corea del Nord non fa mistero della sua intenzione di diventare una potenza nucleare per scopi militari.  Un test missilistico in Iran non è mai connesso, pubblicamente, al programma nucleare, mentre a Pyongyang non si fanno misteri sugli obiettivi dei test, sulla gittata dei missili e sulla capacità di trasportare testate nucleari. Leggi tutto l’articolo

Obama affronta la platea islamica

Anthony M. Quattrone

Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)
Egyptian villagers watch a live broadcast of a speech by U.S. President Barack Obama is seen on screen at a coffee shop in Qena, south Cairo, Egypt, Thursday, June 4, 2009. Obama was calling for a new beginning between the United States and Muslims, during his speech delivered at Cairo University in Egypt. (AP Photo)

Barack Obama aveva promesso lo scorso gennaio, durante il discorso che ha tenuto in occasione del suo insediamento alla presidenza americana, dinnanzi a miliardi di persone che lo hanno ascoltato in diretta televisiva, che avrebbe fatto passi rilevanti nei confronti del mondo mussulmano per eliminare pregiudizi e malintesi causati da decenni di sfiducia reciproca fra l’America e gli islamici. Obama aveva auspicato nei confronti dell’Islam, “una nuova via in avanti, basato sul rispetto reciproco, e su interessi comuni”. Il presidente, cristiano dalla nascita, ma che proviene, da parte del padre, da antenati mussulmani, conserva il secondo nome, Hussein, di chiara matrice islamica.

Ieri, Obama ha mantenuto la sua promessa di affrontare direttamente la platea islamica, tenendo un discorso di 55 minuti all’Università del Cairo, dinnanzi a tre mila studenti e accademici egiziani, e milioni di islamici attraverso la televisione. Il presidente ha esordito il suo discorso rivolgendosi direttamente alla platea egiziana, affrontando subito il tema dei rapporti fra islamici e americani: “Sono qui per cercare un nuovo inizio. Dobbiamo fare uno sforzo per rispettarci a vicenda. Non siamo in contrapposizione, possiamo arricchirci a vicenda. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci.” Obama ha invitato americani e islamici a combattere contro i pregiudizi e gli stereotipi che creano sfiducia e risentimento.

Obama non è stato, tuttavia, timido nell’invitare gli arabi ad isolare quelle frange estremiste all’interno del mondo islamico e nel nazionalismo arabo che vogliono condurre una guerra costante contro l’America in particolare, e contro l’intero occidente, in generale. Obama ha detto che “Qualsiasi cosa pensiamo del passato, non dobbiamo rimanerne prigionieri. I nostri problemi vanno affrontati in partnership, e il progresso va condiviso. Ma la prima questione da affrontare è l’estremismo violento in tutte le sue forme. L’America non è e non sarà mai in guerra con l’Islam. Tuttavia, affronteremo senza tregua gli estremisti violenti che pongono un serio rischio alla nostra sicurezza. Il mio primo compito come presidente è quello di proteggere il popolo americano”. Leggi tutto l’articolo

Le nuove sfide della NATO

Marco Maniaci

NATO Secretary Jaap de Hoop Scheffer, Barack H. Obama, President of the United States of America, Nicolas Sarkozy, President of France, and Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany (hidden by Sarkozy) crossing the "Passerelle de deux rives" from Germany into France (NATO photo, 4 April 2009)
NATO Secretary Jaap de Hoop Scheffer, Barack H. Obama, President of the United States of America, Nicolas Sarkozy, President of France, and Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany (hidden by Sarkozy) crossing the "Passerelle de deux rives" from Germany into France (NATO photo, 4 April 2009)

C’era una volta la guerra fredda, con i suoi “blocchi” e con i suoi muri.  Da una parte i comunisti, dall’altra il mondo libero.  In quella visione del mondo la NATO sapeva quale era la sua funzione:  quella di contenimento del blocco orientale.  Negli anni novanta, con la scomparsa dell’URSS, quell’obiettivo si è esaurito.  L’ 11 settembre avrebbe potuto dare quella nuova funzione che la NATO stava cercando nel XXI secolo, ma la visione unilaterale dell’amministrazione Bush ha in pratica fatto fallire questa ipotesi.

L’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama ha, però, dato una svolta forse epocale anche in questo campo.

La sua visione della politica estera americana ha avuto un piccolo coronamento nell’ultimo vertice NATO a Strasburgo e Baden-Baden dove è riuscito a strappare l’adesione dei partner europei alla sua linea d’azione in Afghanistan.  Gli alleati della NATO parteciperanno  con uno sforzo maggiore alle operazioni militari contro i talebani e soprattutto nella stabilizzazione del paese, senza dimenticare l’incremento delle truppe in vista dell’appuntamento elettorale afgano di agosto.  Si tratta però soprattutto di addestratori che dovrebbero dar vita nel paese alla creazione di una NATO Training Mission, simile a quello creato con successo in Iraq.

Questo non fa gridare al successo pieno di Obama  da parte di alcuni commentatori, perché gli Stati Uniti sono riusciti ad ottenere solo 5.000 soldati da parte degli alleati per addestrare l’esercito locale.  Certamente non ci saranno le cifre richieste dagli statunitensi.  Ma l’ex senatore dell’Illinois si mostra però assai soddisfatto “dell’impegno concreto”offerto dagli alleati della NATO.

“Gli Stati Uniti vogliono che l’Europa rafforzi le proprie capacità militari, nell’ambito della NATO”,  in questi termini si è espresso il leader americano nella conferenza congiunta con Sarkozy prima del vertice dell’alleanza per il sessantesimo anniversario della NATO, lo scorso aprile.  Vertice della NATO, che ha segnato il ritorno, appunto, della Francia nella partecipazione della struttura militare, ha anche  ricucito, probabilmente,  lo strappo che si era avuto tra gli USA e i suoi partner europei duranti gli anni dell’amministrazione Bush, con le sue scelte in materia di politica estera.

Gli Stati Uniti auspicano, perciò, una maggiore collaborazione con gli alleati dell’altra sponda dell’Atlantico, sperando di rinnovare il ruolo dell’alleanza in vista delle nuove sfide che il colosso a stelle e strisce dovrà affrontare in questo secolo.  Un ruolo che si esprime nella lotta al terrorismo, Obama ha infatti dichiarato che “anche se George Bush non è più il presidente degli Stati Uniti, al Qaeda è ancora una minaccia”,  aggiungendo che “è più probabile che al Qaeda colpisca l’Europa che gli USA, a causa della prossimità del suo territorio.”  Ma le nuove sfide dell’alleanza non saranno solo la lotta al terrorismo o la guerra in Afghanistan, ma anche la guerra alla pirateria nelle acque internazionali, l’allargamento verso est con l’ingresso di Ucraina e Georgia, e la visione di un mondo non più bipolare o unipolare bensì multipolare con il peso sempre più enorme di paesi come la Cina e l’India .

La questione dell’allargamento della NATO ad est porta inevitabilmente poi ai rapporti con la Russia, altro tema spinoso dopo la crisi georgiana dell’estate scorsa.  Proprio questo tema potrebbe portare ad eventuali divergenze tra gli USA e i suoi alleati europei.  L’America di Bush avrebbe voluto già integrare l’Ucraina e la Georgia nella NATO, ma proprio gli europei si opposero per non urtare la Russia.   Un nuovo modo di intendere la NATO che dovrebbe portare quest’ultima ad assumere un ruolo guida nella sfida della sicurezza per questo secolo, dove il tema afghano potrà essere solo il primo banco di prova.

I primi cento giorni di Obama

Popolarità ai massimi storici per il presidente americano

President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young
President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

I primi cento giorni della presidenza di Barack Obama sono stati caratterizzati dalla frenetica attività del giovane presidente e di tutto il suo governo, nel portare avanti un programma di cambiamento nella politica americana. La data dei primi cento giorni non ha nessun riferimento legale o istituzionale in America, ma è diventato un punto di riferimento per comprendere lo stile, e per tracciare alcune traiettorie che andranno a caratterizzare i rimanenti tre anni e nove mesi di un primo mandato presidenziale.

E’ con la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che gli americani sentirono parlare, per la prima volta, dei “primi cento giorni” di una presidenza, perché il nuovo presidente, proprio all’inizio della sua amministrazione, lanciò un rilevante numero di nuovi programmi, particolarmente audaci, per risollevare l’America della Grande Depressione. Roosevelt, come Obama oggi, si trovò ad affrontare una forte crisi bancaria ed un’enorme massa di americani senza lavoro. Nel caso di Roosevelt, però, il periodo dei cento giorni non partì con l’inaugurazione del 20 gennaio 1933, ma dall’inizio del mese di marzo e si concluse a metà giugno. Gli storici dibattono ancora sulla reale utilità delle misure economiche attuate da Roosevelt, ma nessuno nega l’importanza dello stimolo psicologico che l’attivismo presidenziale creò, e che, senza dubbio, aiutò il paese a risorgere.

Solo il presidente Ronald Reagan, nei primi cento giorni della sua presidenza, dal 20 gennaio al 29 aprile 1981, riuscì ad eguagliare Roosevelt nell’implementare un radicale cambio di rotta, tale da risollevare il paese dalla stagnazione, che si manifestava non solo in campo economico, ma forse anche in quello militare, con riflessi nella politica estera. Nell’arco dei primi 100 giorni, Reagan riuscì a far approvare dal Congresso il taglio delle tasse, nuove priorità di spesa, e una generale capitalizzazione del bilancio della difesa. Molti opinionisti americani attribuiscono a Reagan il merito di un lungo periodo di crescita dell’economia americana, e anche lo sgretolamento dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia.

Obama, come Roosevelt 76 anni fa, cerca di riformare il capitalismo americano per salvarlo, non per sovvertirlo. Secondo il professor Allan Lichtman dell’American University, “Obama ha attuato grandi cambiamenti, ma sempre all’interno del normale arco conservatore-progressista. Si, il pendolo è oscillato, ma dalla corrente principale conservatrice, a quella principale del liberalismo”. Obama non ha nazionalizzato le banche, ma ha negoziato l’acquisto dei loro titoli “tossici”. Obama non cerca di sostituire le assicurazioni mediche private con un’assicurazione governativa, ma cerca di mettere proprio le assicurazioni al centro del nuovo piano che dovrebbe garantire a tutti gli americani la copertura sanitaria. E anche sulla questione delle tasse, Obama non vuole alzare le tasse per il 95 percento degli americani, ma solo per il 5 percento, riportandoli alle quote pagate quando era presidente il repubblicano, idolo dei conservatori, proprio Ronald Reagan.

Secondo William Galston, un ricercatore della Brookings Institution, un ex collaboratore del presidente democratico Bill Clinton, “Obama è un Reagan con il segno negativo”. Per il ricercatore, oggi Obama “sta tentando di disfare e annullare il reaganismo e Reagan stesso”, così come Reagan tentò di smontare completamente il sogno del presidente democratico Lyndon B. Johnson, di creare una “Grande Società” americana, finanziata dal governo. In pratica, Obama sta cercando di invertire un detto di Reagan, che stabiliva che “il governo non è parte della soluzione, ma è il problema”. Oggi, anche per molti conservatori americani, con l’eccezione dei liberisti puri, il governo non è il problema, ma è necessariamente l’ancora di salvezza dell’economia. Le differenze fra conservatori e liberal riguardano, semmai, più il grado dell’intervento governativo, ma non dell’intervento stesso. Leggi tutto l’articolo

La sicurezza nazionale Usa e la tortura

Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press
Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press

Pubblicata la corrispondenza segreta che autorizzava la tortura

Anthony M. Quattrone

L’American Civil Liberties Union aveva chiesto ufficialmente al governo americano di rendere pubblica la corrispondenza segreta dell’amministrazione del presidente George W. Bush riguardante l’uso di metodi di interrogazione particolarmente duri, che erano stati autorizzati a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.  Il presidente Barack Obama, ha dato l’autorizzazione, il 16 aprile 2009, per la pubblicazione della corrispondenza relativa alle opinioni legali espresse dal ministero della giustizia nel 2005.

Dopo la pubblicazione della corrispondenza, politici, giornalisti, funzionari governativi, militari, ex agenti della Cia, opinionisti, e semplici cittadini stanno partecipando in un ampio dibattito che si sta sviluppando attraverso tutti gli organi d’informazione, nelle università, e nelle istituzioni dello Stato, scatenando passioni estreme sia a destra, sia a sinistra.  A destra si accusa il presidente di aver danneggiato la sicurezza del paese attraverso quest’atto di trasparenza.  A sinistra, Obama è accusato di complicità con chi ha ordinato ed eseguito interrogatori che rasentano la tortura, perchè si rifiuta, per il momento, di prendere iniziative legali nei confronti di alcuni membri della precedente amministrazione di George W. Bush, e, in particolare, contro i più alti funzionari degli organismi della sicurezza.

La polemica sulla divulgazione della corrispondenza della Cia e sulla punibilità di chi ha ordinato ed eseguito gli interrogatori che oggi sono sotto accusa, non riesce però a mettere in secondo piano un dibattito ancora più importante sul rapporto fra valori e sicurezza.  Sono molti gli americani che si chiedono se la necessità di garantire la sicurezza nazionale può essere usata come motivo per violare alcuni valori basilari della cultura americana, come la ripugnanza per ogni forma di tortura e il rispetto per la dignità umana, anche per quella del peggiore nemico degli Usa.

L’apparente dicotomia fra sicurezza nazionale e il concetto di stato di diritto è evidenziato in tutti i dibattiti in corso.  Da un lato ci sono i rappresentanti dell’amministrazione Bush, come l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, e l’ex ministro della giustizia, Michael B. Mukasey, i quali hanno sottolineato in un articolo scritto per il Wall Street Journal del 17 aprile 2009, intitolato “Il presidente si lega le mani sul terrore”, che i metodi adottati per gli interrogatori erano legittimi e hanno funzionato.  Il capogruppo repubblicano della Camera, John Boehner, ha dichiarato che la pubblicazione della corrispondenza sui sistemi d’interrogatorio è stata fatta senza prendere in considerazione quanto ha compiuto il governo Bush per rendere sicuro il paese, e che Obama farebbe bene a concentrarsi su come continuare a tenere l’America sicura.  L’ex vice presidente Dick Cheney, uno dei fautori dell’uso di metodi d’interrogatorio duri, afferma che proprio attraverso l’uso di questi interrogatori, l’America è riuscita ad ostacolare i piani dei terroristi di Al Qaeda per effettuare altri attacchi sul territorio Usa.

Dall’altro lato, ci sono i deputati e i senatori democratici che vogliono aprire inchieste proprio su come il governo Bush sia arrivato alla decisione di autorizzare metodi d’interrogatorio che rasentano, a loro dire, la tortura.  La senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha dichiarato che la sua commissione, quella dell’Intelligence, ha già iniziato un’indagine a tale proposito.  Alcuni membri del Congresso vorrebbero la creazione di una “Truth Commission” (una commissione verità), per portare alla luce sia la procedura decisionale, sia le fondamenta legali su cui si sono basate le autorizzazioni date alla Cia e ad altri organismi che hanno partecipato negli interrogatori di prigionieri sospettati di essere terroristi. Leggi tutto l’articolo

Stati Uniti e Messico contro i narcos

Obama sostiene la lotta di Calderón

President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)
President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)

Anthony M. Quattrone

Con la canzone “South of the Border” (A sud della frontiera) del 1939, resa famosa nella versione di Frank Sinatra nel 1953, e con cartoni animati come Speedy Gonzales (il “topo più veloce del Messico”), due o tre generazioni di americani sono cresciute con un’immagine molto romanzata, e poco veritiera del Messico.  La città di Tijuana, oltre il confine fra la California e il Messico, era famosa già negli anni venti, in pieno proibizionismo, ed erano tantissimi gli americani che passavano weekend edonistici “south of the border”, dove si poteva bere alcol e giocare nei famosi casinò come l’Agua Caliente.  Nell’immaginario collettivo americano, il Messico ha rappresentato, o forse rappresenta ancora per alcuni, una dimensione più umana e “lenta” del vivere quotidiano, dove pane, amore, e fantasia regnano, e la frenesia della vita moderna passa in secondo ordine.

La notizia, riportata con grande risalto dalla stampa Usa, che circa 11 mila persone sono state uccise in Messico dal dicembre 2006 ad oggi a causa della guerra fra bande di trafficanti di droga per il controllo del mercato Usa, e fra queste bande e le forze di sicurezza messicane, sta portando alla luce la dura realtà a sud della frontiera.  Il presidente Barack Obama si è fermato ieri a Mexico City, in occasione del viaggio verso Trinidad e Tobago, dove si svolgerà oggi il quinto Summit delle Americhe, per incontrare il presidente messicano Calderón, e manifestargli il suo appoggio nella lotta contro i cartelli della droga.  Prima di partire, Obama ha preso diverse iniziative per mostrare il suo sostegno a Calderón.  Il presidente ha nominato Alan Bersin, un ex procuratore federale, al ruolo di “zar” della frontiera, dove avrà il compito di lavorare con le autorità messicane per controllare meglio la lunga e porosa frontiera fra i due paesi.  L’amministrazione Obama ha aggiunto i cartelli di Sinaloa, Los Zetas, e La Famiglia Michoacana, alla lista di pericolose organizzazioni criminali internazionali coinvolte nel traffico di narcotici.  Con quest’atto formale, il governo americano potrà sequestrare conti bancari e proprietà di questi cartelli negli Usa, o delle persone a loro legati.

E’ interessante notare che, mentre fino a qualche tempo fa, erano gli americani che chiedevano di rendere la frontiera meno permeabile, cercando di impedire l’arrivo di milioni di immigranti illegali dal Messico e fiumi di droga provenienti dall’America Latina, ora sono le autorità messicane che chiedono più controlli per impedire l’afflusso di armi americane, che finiscono per rinforzare gli apparati paramilitari dei cartelli della droga.

Secondo un articolo dell’International Herald Tribune del 15 aprile, che cita fonti del ministero della giustizia Usa, novanta percento delle 10 mila armi che sono state sequestrate in Messico l’anno scorso, proviene dagli Stati Uniti, particolarmente dall’Arizona, dal Texas, e dalla California.  In molti casi, le armi sequestrate sono di qualità superiore a quelle in dotazione alle stesse forze armate messicane, e sono, ovviamente, impiegate dai cartelli della droga. Leggi tutto l’articolo

Per Obama (e Gates) la sfida più insidiosa

Il presidente contro la lobby militare Usa

Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)
Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)

Anthony M. Quattrone

La razionalizzazione del bilancio di previsione per il Dipartimento della difesa americano per il prossimo anno fiscale, che negli Usa inizia il primo ottobre, sarà una nuova ardua sfida per il presidente Barack Obama.  E’ in corso un durissimo braccio di ferro fra il Segretario della difesa, Robert Gates, e le potenti lobby che rappresentano gli interessi dell’immenso apparato industriale – militare, le quali, in America, hanno la capacità di influenzare, attraverso vari meccanismi, trasparenti e non, l’intera procedura decisionale concernente la sicurezza nazionale.

Se da un lato, Gates cerca di creare una concordanza fra le reali necessità del Dipartimento della difesa e le voci di spesa, dall’altro, le lobby cercano di influenzare le decisioni attraverso una campagna d’informazione nei confronti dell’opinione pubblica utilizzando due temi particolarmente sensibili e correnti in questo momento: la sicurezza nazionale e la difesa dei posti di lavoro.  Il Segretario Gates parte in svantaggio nel portare avanti la razionalizzazione, perché, da un punto di vista istituzionale, non è l’esecutivo, di cui fa parte, bensì il legislativo che controlla le stringhe della borsa della spesa.  Pertanto, negli Usa, quando le lobby trovano ostacoli nel convincere i militari a fare alcune spese, come l’acquisizione di sistemi d’arma totalmente inutili, cercano di influenzare i membri del Congresso che alla fine dovranno approvare il bilancio.  E così, anche un progetto molto analitico e razionale, proposto dai vertici delle forze armate, potrebbe essere svilito attraverso delle “earmarks” (“segnalibri”), apposti da deputati e senatori, direttamente influenzati dalle lobby.

Gates vorrebbe ridurre la spesa per quegli armamenti che sono necessari per combattere guerre di tipo convenzionale, e aumentare, invece, la capacità dei militari americani nell’affrontare le forze e le tattiche di combattimento non convenzionali, come quelle utilizzate in Afghanistan ed in Iraq.  Nel tentativo di razionalizzare la spesa, Gates ha proposto, per esempio, di ridurre la commessa per il caccia F-22, dall’attuale previsione di 381 esemplari a 187, che costano circa 80 milioni di euro cadauno, non solo per rendere disponibili più risorse per acquistare armamenti necessari per la guerra non convenzionale, ma anche perché è già in corso la produzione del caccia F-35, più moderno ed economico dell’F-22.  La decisione di Gates è stata immediatamente contrastata dai membri del Congresso eletti in Georgia, dove la produzione dell’F-22 crea occupazione per due mila lavoratori.  Il deputato repubblicano della Georgia, Tom Price, ha dichiarato che “questa decisione causerà non solo la perdita di migliaia di posti di lavoro durante un periodo critico, ma danneggia anche le risorse a disposizione per la difesa nazionale”. Il senatore repubblicano della Georgia, Saxby Chambliss è dell’opinione che “l’amministrazione Obama è disposta a sacrificare le vite dei militari americani pur di finanziare programmi domestici sostenuti dal presidente”.  Il deputato democratico della Georgia, Ike Skelton, presidente della Commissione difesa della Camera, fa quadrato con i colleghi repubblicani del suo stato, indicando che in ultima analisi sarà il Congresso, e non il Dipartimento della difesa, che dovrà decidere sulla spesa.  In breve, la riforma del bilancio della Difesa è una strada tutta in salita per l’amministrazione Obama. Leggi tutto l’articolo

Af-Pak, nuova strategia americana

Obama non esclude l’uso della forza in Asia centrale

U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs
U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs

Anthony M. Quattrone

E’ noto che gli americani adorano creare acronimi ogni volta che possono abbreviare un titolo troppo lungo, o anche quando hanno difficoltà nel pronunciare qualche parola con troppe sillabe. Qualche volta un acronimo serve anche per creare nuovi slogan, parole d’ordine, o per ripresentare qualcosa di vecchio con un nome diverso.

Il presidente americano Barack Obama usa l’acronimo Af-Pak per designare la zona geografica che comprende l’Afghanistan ed il Pakistan, e ha designato il diplomatico di carriera, l’ambasciatore Richard Holbrooke, come suo speciale rappresentante per quella zona. Nel creare l’acronimo Af-Pak, la nuova amministrazione Usa focalizza la sua politica contro il terrorismo internazionale proprio sul rapporto stretto che c’è fra i due paesi che condividono una frontiera tanto lunga, quanto permeabile, creando una visione d’indivisibilità dei loro destini.

E così, i cittadini americani sentiranno sempre di più i commentatori televisivi e radiofonici parlare di Af-Pak, e leggeranno sui giornali quest’acronimo, perché è l’intenzione di Obama portare la guerra contro il terrorismo proprio nell’Af-Pak, con molta più forza di quanto abbia fatto il suo predecessore. La novità della strategia di Obama è che il presidente sembrerebbe non escludere la possibilità che le forze Usa dislocate in Afghanistan potrebbero, se necessario, sconfinare all’interno del Pakistan per dare la caccia ad al Qaeda, e che, nel frattempo vanno moltiplicati tutti gli interventi per catturare la simpatia degli afgani e dei pakistani attraverso iniziative che mirano direttamente a migliorare le condizioni di vita di entrambi i popoli. Secondo il piano del presidente, un primo intervento prevede che centinaia di consiglieri civili (esperti in agricoltura, didattica, legge, ecc.) partiranno per l’Afghanistan proprio per lavorare sul miglioramento delle condizioni di vita del popolo.

L’amministrazione Obama accusa il precedente governo del presidente George W. Bush, di essersi fatto distrarre dalla questione irachena, completamente sottovalutando la situazione nell’Af-Pak. Per molti osservatori Usa, la decisione di trasferire il grosso delle truppe e delle risorse americane dall’Afghanistan all’Iraq, dal 2003 in poi, ha permesso ai Taleban di riconquistare territori lungo il confine Af-Pak, causando il graduale, ma costante deterioramento della situazione nell’Afghanistan, ricreando una condizione favorevole alla guerriglia contro il governo del paese, e permettendo anche il rafforzamento della presenza di al Qaeda oltre il confine.

L’amministrazione Obama vorrebbe affrontare in modo decisivo la questione Af-Pak, con un approccio che abbini l’uso della forza militare in combinazione con massicci interventi nel campo civile. Il 27 marzo 2009, Obama ha annunciato l’invio d’altri 4.000 militari in Afghanistan, in aggiunta ai 17 mila già pianificati a febbraio, per “sconvolgere, smantellare, e sconfiggere” la rete di al Qaeda in Afghanistan ed in Pakistan e per “prevenire il ritorno dei terroristi in entrambi i paesi nel futuro”. Le nuove truppe dovrebbero addestrare la polizia e le forze armate afgane, con l’intento di creare le condizioni per aumentare il numero dei militari afgani dalle 83.000 unità di oggi, a 134.000 entro la fine del 2011. Leggi tutto l’articolo

Hillary Clinton a Bruxelles: L’Europa è un partner essenziale

Diana De Vivo (da Bruxelles)

Tempi duri per l’Amministrazione statunitense, tempi in cui al centro dell’Europa si percepisce l’esigenza di una partnership globale. Tempi di programmazione, di priorità politiche, di rinsaldare nuovi legami, di rispondere prontamente alle nuove sfide.

“Stringenti i tempi, altrettanto imponenti le sfide” ha ribadito il Segretario di Stato americano Hillary Clinton nel corso dell’incontro informale tenutosi il 5 ed il 6 Marzo a Brussels con Javier Solana, Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, Benita Ferrero-Waldner, Commissario europeo per le Relazioni Esterne, Karel Schwarzenberg, Ministro degli esteri della Repubblica Ceca, a cui è attualmente assegnata la Presidenza dell’Unione e Carl Bildt, Ministro degli esteri svedese, paese che presiederà l’Ue a partire da Luglio.

La Clinton ha confermato che il Presidente Obama parteciperà al Summit informale tra Stati Uniti e Ue previsto per il 5 Aprile a Praga: “President Obama and I intend to energise the transatlantic relationship and to promote a strong European Union”, afferma il Segretario di Stato, “the EU is a union of friends and allies, we derive strength from each other.”

Il Summit US-UE seguirà il meeting del G20 che si terrà a Londra il 2 Aprile 2009 e la celebrazione del 60° anniversario della NATO prevista per il 3 ed il 4 Aprile a Strasburgo, in Francia, ed a Kehl/Baden-Baden, Germania.

Schwarzenberg ha ribadito che durante il Summit di Praga ci si confronterà sulle seguenti priorità: Afghanistan, sicurezza energetica, cambiamenti climatici, Balcani e l’area che si estende dal mediterraneo al Mar Caspio.

A distanza di un mese dall’European Sustainable Energy Week (9-13 Febbraio 2009), in cui l’Unione ha evidenziato le linee guida in materia di cambiamenti climatici ed energia sostenibile per il 2020 (Pacchetto Clima/Energia), che prevedono una riduzione delle emissioni di CO2 del 20%, il 20% di risparmio energetico ed il 20% di energie rinnovabili, l’Amministrazione statunitense, promotrice di un nuovo “green deal”, non sembra bypassare tali obiettivi, in netta controtendenza con le politiche implementate dai predecessori.

“My Presidency will mark a new chapter in America’s leadership on climate change”, annunciò Obama durante un Summit sui cambiamenti climatici tenutosi in California, prediligendo quale Segretario per la politica energetica Steven Chu, premio Nobel per la Fisica nel 1997, e direttore del Lawrence Berkeley National Laboratory, leader nel campo della ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili, tra cui la biomassa e l’energia solare.

“Tra gli Usa è l’Europa è necessaria una cooperazione ad alto livello. Io ed il Presidente Obama intendiamo ravvivare le relazioni transatlantiche e promuovere un’Europa forte, poichè un’Europa forte è un partner forte per gli Usa”, ha sostenuto la Clinton.

Sul fronte NATO il Segretario di Stato Usa ha ben più di una volta ribadito l’esigenza di un coordinamento nei differenti scenari sensibili, quali Afganistan, in cui è presente la missione europea EUPOL e Kosovo, in cui l’EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) è succeduta, dopo 9 anni, alla missione promossa dalle Nazioni Unite (UNMIK).

Non sottovalutato, nel quadro delle relazioni internazionali, il ruolo della Russia: “Lavoreremo insieme per incoraggiare la Russia a svolgere un ruolo costruttivo sul piano internazionale” hanno affermato di concerto la Clinton e Schwarzenberg, delineando un approccio non dissimile nei confronti dell’Iran, “un approccio determinato, coordinato, multilaterale”.

“Europe and the United States are united in a shared vision of the kind of future that we hope to realise.” A dispetto della crisi economica che ha spinto il mondo in una spirale recessiva, “Europe has never been more prosperous and secure”, ribadisce la Clinton. Ed ha aggiunto: “I’m confident that we are up to the task” “we don’t have a choice: we have to come together”.

Lontani anni luce dal dilemma del prigioniero, la cooperazione e la fiducia reciproca sono l’innegabile presupposto di un approccio multilaterale durevole.

Pechino-Washington: incrocio pericoloso

Le gaffe di Hillary Clinton e l’aggressività cinese

Free Tibet activists march during a peace march rally in Tokyo, Japan, Saturday, March 14, 2009. The rally marks the 50th anniversary of the failed uprising against the Chinese rule in their homeland. (AP Photo/Itsuo Inouye)
Free Tibet activists march during a peace march rally in Tokyo, Japan, Saturday, March 14, 2009. The rally marks the 50th anniversary of the failed uprising against the Chinese rule in their homeland. (AP Photo/Itsuo Inouye)

Anthony M. Quattrone

Quando lo scorso 20 febbraio, il Segretario di stato americano, Hillary Clinton, dichiarò che le violazioni dei diritti civili da parte dei cinesi non dovevano impedire una fattiva collaborazione fra gli Stati Uniti e la Cina sugli altri temi, come la crisi economica globale, il cambiamento climatico, e sulle minacce alla sicurezza da parte di paesi come la Corea del Nord, molti attivisti nel campo dei diritti civili rimasero alquanto perplessi, se non totalmente sorpresi.  Amnesty International si è affrettata a ricordare alla signora Clinton che, “gli Stati Uniti sono fra i pochi paesi al mondo che possono affrontare la Cina sulla questione dei diritti umani”.  Secondo Amensty International, “il popolo cinese è in una situazione gravissima, con mezzo milione di persone che sono attualmente imprigionate in campi di lavoro, con molte donne obbligate ad abortire, e altre che sono sterilizzate per garantire la politica demografica cinese, che prevede solo un figlio a coppia”.

Il tempismo delle dichiarazioni della Clinton è stato particolarmente sfortunato, se si considera che nel 2009 ricorrono due anniversari molto significativi nel campo dei diritti civili e della libertà.  Il 10 marzo è stato il cinquantesimo anniversario della fallita rivolta del popolo tibetano, che nel 1959, fu schiacciato nel sangue da parte del cosiddetto “esercito di liberazione” cinese, portando poi all’esilio di Sua Santità il 14mo Dalai Lama.  Il prossimo 4 giugno sarà il ventesimo anniversario dell’eccidio di Piazza Tienanmen di Pechino, quando, nel 1989, centinaia, se non migliaia, di pacifici manifestanti cinesi furono massacrati dalle forze armate.  Due massacri a distanza di 30 anni l’una dall’altra, sono ancora oggi vivi nella memoria di tutti coloro che amano la libertà, la democrazia, e credono nell’autodeterminazione dei popoli.

Il governo americano ha voluto rimediare subito al malumore creato dalle dichiarazioni della Clinton, con due interventi che hanno scatenato una furibonda reazione da parte dei cinesi.  Il primo si riferisce al rapporto annuale pubblicato dal Dipartimento di Stato, sullo status dei diritti umani nel mondo.  Il documento, pubblicato il 25 febbraio 2009, firmato proprio da Hillary Clinton, come capo del Dipartimento di Stato, accusa la Cina di aver incrementato la repressione culturale e religiosa in Tibet ed in altre zone del paese, aumentando anche il numero degli arresti e degli abusi nei confronti di cittadini appartenenti alle diverse minoranze.  Per il Dipartimento di Stato, la situazione dei diritti umani in Cina è rimasta a livelli bassi, ed in alcune zone del paese è addirittura peggiorata.  Le autorità cinesi, secondo il rapporto, permettono uccisioni extragiudiziarie, l’uso della tortura, l’estorsione di confessioni dai prigionieri, e fanno anche largo uso di campi di lavoro, limitando il diritto alla privacy, il diritto di parola, di assemblea, di movimento, e di associazione.  Purtroppo, secondo quanto dichiara il Dipartimento di Stato Usa, la repressione cinese e la violazione dei diritti umani è aumentata proprio durante le Olimpiadi di Pechino, nell’agosto del 2008, ed anche alla fine dell’anno, in occasione di una petizione firmata sull’internet da ottomila cinesi, in cui si chiede l’ampliamento dei diritti di espressione. Leggi tutto l’articolo