La nuova pax americana riparte dalla scacchiera asiatica

Diana De Vivo

Inizia il 13 Novembre il tour diplomatico del Presidente americano Obama in Asia, una scacchiera internazionale delicata, crocevia di ancestrali culture, ineludibile punto di intersezione tra le politiche globali e gli equilibri regionali.
Spazio in ascesa, sul versante economico-politico e demografico, l’Asia tende ad occupare una posizione rilevante all’interno delle policy statunitensi, come confermato dai dossier che hanno contraddistinto gli incontri di vertice tra il Presidente statunitense ed i leader asiatici.

Clima, Corea del Nord, debito estero, squilibri commerciali: temi caldi sui quali Obama intende tessere le fila del suo approccio multilateralista, e, allo stesso tempo, restituire agli Usa un ruolo centrale nel processo di decision-making all’interno dell’area, istituendo una partnership stabile.

Malgrado la crescente popolarità delle tesi di diversi analisti che proclamano l’espulsione dagli Usa dai suoi avamposti asiatici, le tendenze attuali non sembrano confermare tale orientamento dato il supporto offerto costantemente dagli Stati Uniti ai governi della regione nella lotta al terrorismo internazionale (che possiede vaste ramificazioni all’interno del continente), e la garanzia di sicurezza fornita dall’ombrello atomico statunitense a Corea del Sud, Taiwan ed, in misura minore, Giappone.

Correggere alcune ambiguità, consolidare numerose certezze, sciogliere diversi nodi qualificano i tre imperativi categorici che hanno contraddistinto il viaggio del Presidente, incentrato interamente sul dialogo costruttivo e sulla cooperazione allargata con i leader di un continente che tende progressivamente a ritagliarsi spazi di autonomia, costruendo la propria rete di alleanze economico-finanziarie (in parte al di fuori della cornice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio) e le proprie istituzioni multilaterali, sullo slancio detonatore innescato dalla locomotiva cinese.

Ma la strada per Pechino passa da Tokyo per proseguire in seguito al vertice dell’APEC (Singapore): Obama approda in Giappone, guidato dal neo-eletto governo di Yukio Hatoyama, esponente del partito democratico, in un momento cruciale in cui le relazioni diplomatiche tra i due governi sono al punto più basso: sul banco degli imputati un accordo del 2006 che prevede lo spostamento della base militare statunitense di Okinawa dalla sua collocazione attuale, all’interno del tessuto urbano dell’isola, ad una zona meno popolata, a cui dovrebbe seguire la ricollocazione di svariate migliaia di marine americani dalla stessa Okinawa alla base di Guam, nel Pacifico.

Tale trasferimento, concepito, sin dal principio, a spese del governo giapponese, ha costituito una delle principali piattaforme elettorali di Hatoyama, favorevole alla revisione dell’accordo stesso.

Il Presidente americano ha dimostrato, in tale occasione, la volontà di consolidare la propria alleanza storica con un paese che funge da testa di ponte in un continente economicamente e politicamente in ascesa e di riconfigurare e rinnovare, nel caso specifico, la propria presenza militare in vista di un “light military footprint”.

L’idea della ripartizione di alcune cariche della governance globale sottende l’approccio multilateralista seguito da Obama in questa delicata area del continente asiatico, un orientamento politico improntato a ciò che è stato definito quale “realismo etico” (“la grande pace capitalista” di Anatol Lieven, John Hulsman). Leggi tutto l’articolo>

Obama ritorna dalla Cina a mani vuote

U.S. President Barack Obama smiles as he tours the Great Wall in Badaling, China, Wednesday, Nov. 18, 2009. (AP Photo/Charles Dharapak)

Anthony M. Quattrone

Il presidente Barack Obama ha battuto il record di George H. W. Bush per il numero di viaggi fatti all’estero durante il primo anno di un mandato presidenziale americano.  Bush padre aveva raggiunto 14 paesi, mentre Obama, con il viaggio in Asia, è arrivato già a 20.  E’ chiaro che Obama sta tentando di migliorare l’immagine degli Usa cercando di far prevalere una visione di un’America aperta al dialogo e pronta ad ingaggiare avversari o presunti tali, attraverso un confronto franco e leale.

Il viaggio in Asia, ed in particolare in Cina, tuttavia, secondo i giornalisti Helene Cooper e Edward Wong dell’International Herald Tribune, non permetterà ad Obama di portare a casa alcuna particolare concessione, né per quanto riguarda la politica economica, né sulla scottante questione dei diritti civili.  In pratica, secondo i due giornalisti, Obama non è riuscito a trovare un accordo con il presidente cinese Hu Jintao su nessuno dei temi importanti.  Non si parla di appoggio cinese per effettuare sanzioni nei confronti di Teheran per impedire agli iraniani di continuare ad ignorare la comunità internazionale sulla questione del nucleare.  I cinesi non vogliono prendere in considerazione di permettere la rivalutazione della loro moneta per paura di ridurre le esportazioni.  Sulla questione dei diritti civili, l’unico accordo raggiunto fra i due paesi è il riconoscimento che le parti hanno sostanziali divergenze.

Secondo Eswar Prasad, un sinologo della Cornwell University, i cinesi hanno magistralmente gestito la scena, amplificando le dichiarazioni di Obama a favore delle politiche cinesi, nascondendo le differenze, come nel caso della questione dei diritti civili e la politica monetaria cinese.  Anche quando ad Obama è stato permesso di condurre una discussione pubblica con gli studenti a Shangai, seguendo il formato della “town-hall meeting” ormai diventato comune negli appuntamenti politici negli Usa, i cinesi si sono affrettati a riempire la sala con fedeli studenti iscritti alla gioventù comunista, o figli di membri del partito.  In breve, non c’è niente di nuovo dietro la grande muraglia del comunismo cinese, a vent’anni dalla caduta del muro di Berlino.

Lo staff di Obama, tuttavia, è dell’opinione che l’obiettivo principale della visita presidenziale in Cina è stato raggiunto, perchè, senza offendere l’interlocutore, sono stati sollevati alcune questioni di principio, come quelle inerenti ai diritti umani e quelli civili, in un ambito privato, lontano dalle telecamere.  Secondo Michael A. Hammer, portavoce del Consiglio nazionale per la sicurezza americana, “Siamo venuti per parlare schiettamente a proposito di quei temi che sono importanti per noi, senza farlo in un modo inutilmente offensivo, seguendo lo stile rispettoso di Obama”. Leggi tutto l’articolo

Il difficile dialogo tra Iran e Occidente

Chief of the International Atomic Energy Agency (IAEA), Mohamed ElBaradei (L), and Iran's Nuclear Chief Ali Akbar Salehi (R) hold a press conference in Tehran on October 4, 2009. ElBaradei said that his inspectors will check Iran's new uranium facility being built near the holy city of Qom on October 25. (ATTA KENARE/AFP/Getty Images)

Marco Maniaci

Il vertice a Vienna tra i cinque membri permanenti dell’Onu (USA, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia, più la Germania, cioè il 5+1) e il governo iraniano sulla questione del nucleare, dopo gli iniziali segnali positivi dell’incontro di Ginevra di inizio mese, si trova ad una svolta. Infatti, il presidente Ahmadinejad ha dichiarato ”che le potenze occidentali sono passate da una politica di confronto alla cooperazione nella questione del nucleare, per questo ora possiamo collaborare, ma non cambieremo la nostra posizione sul diritto al nucleare”, parole che forse possono essere valutate come un ribaltamento decisivo.  L’Iran aveva rinviato la firma sull’accordo che prevedeva che l’80 per cento dell’uranio dichiarato fosse portato in Russia per essere arricchito. Il governo di Teheran aveva preso tempo, probabilmente anche per divergenze interne.  Non sono neanche mancati poi, momenti in cui il vertice stava per fallire totalmente a seguito degli attentati suicida verso i vertici della guardia nazionale iraniana, che ha portato alla morte di 40 persone nella regione sud-orientale del Baluchistan, con la conseguente denuncia di Teheran su responsabilità di agenti segreti appartenenti ad apparati di intelligence straniere.  Accusando in pratica i governi di Washington e Londra.

Il processo di distensione tra Iran di Ahmadinejad e gli USA di Barak Obama aveva avuto avvio il primo ottobre a Ginevra.  Durante questo vertice, Teheran aveva accettato di discutere con il 5+1 di questioni riguardanti il nucleare.  Inoltre aveva invitato il responsabile dell’AIEA, Mohammed el Baradei, a ispezionare gli impianti siti nei pressi della città sciita di Qom.

Intorno a questo impianto, solo poche settimane prima, la tensione tra l’Iran e la comunità internazionale, e specialmente gli Stati Uniti, era tornata a crescere.  Infatti, il governo di Teheran aveva rivelato, proprio durante il vertice del G20 di Pittsburgh, la presenza di un altro impianto segreto per l’arricchimento dell’uranio.
Per Obama, e per i suoi alleati europei, questo era stato un altro segno del doppio gioco iraniano. Washington aveva dichiarato di non credere  alla buona fede del governo degli ayatollah, in quanto le intelligence occidentali erano a conoscenza di questo secondo impianto da tempo, e raccoglievano prove e informazioni più forti per poter dimostrare l’inganno dell’Iran al mondo. Leggi tutto l’articolo

Il nuovo corso della politica estera Usa

US Vice President Joseph Biden (l) and Czech Prime Minister Jan Fischer (unseen) review a guard of honor at the start of their meeting. The Czech Republic said it was ready to take part in a new US missile defence plan, after visiting US Vice President Joe Biden also won backing from fellow NATO allies Poland and Romania. (AFP/Michal Cizek)
US Vice President Joseph Biden (l) and Czech Prime Minister Jan Fischer (unseen) review a guard of honor at the start of their meeting. The Czech Republic said it was ready to take part in a new US missile defence plan, after visiting US Vice President Joe Biden also won backing from fellow NATO allies Poland and Romania. (AFP/Michal Cizek)

Anthony M. Quattrone

La politica estera americana, diretta dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, sta uscendo dal binomio Iraq-Afghanistan in cui il presidente George W. Bush la relegò durante gli otto anni del suo mandato, e riprende quota con una presenza attiva sull’intero scacchiere internazionale.  La politica dell’apertura e del dialogo, promesso da Barack Obama durante la campagna elettorale per le presidenziali USA del 2008, ha definitivamente preso il sopravvento sulla politica dell’intervento unilaterale, che ha caratterizzato gli anni post-11 settembre, in cui si è arrivati a teorizzare, dandone una parvenza di legalità, anche la possibilità di effettuare interventi di guerra preventiva, com’è effettivamente accaduto nel caso dell’invasione dell’Iraq nel marzo 2003.

Con l’approvazione da parte del Senato Usa il 20 ottobre 2009 di un provvedimento che consentirà l’ingresso sul suolo statunitense dei prigionieri attualmente detenuti a Guantanamo, Obama potrà attuare anche la promessa fatta durante la campagna elettorale di chiudere il carcere, migliorando l’immagine degli Stati Uniti all’estero, ed in particolare nel mondo islamico.  Il provvedimento, approvato con una larga maggioranza di 79 a 19, permetterà ai prigionieri islamici internati a Guantanamo di essere detenuti sul suolo americano, dove potranno essere processati davanti ai tribunali civili o militari, dando la possibilità ad Obama di svuotare “Camp X-Ray” a breve.

L’amministrazione americana sembra intenta ad ottenere un largo numero di piccoli successi, quasi per dimostrare che la via del dialogo può essere praticata, nell’attesa di poter completare operazioni strategiche in Iraq ed in Afghanistan, semmai con il ritiro delle truppe americane.  Alcune operazioni del dipartimento di Stato sembrano mirate ad un consumo interno, proprio per convincere gli americani che la via del dialogo in politica estera è fattibile, e non riduce per niente la sicurezza o la forza americana.

Nelle ultime settimane è salito vertiginosamente l’attività del dipartimento di Stato.  La Clinton era presente a Zurigo il 10 ottobre 2009 per la firma fra Turchia e Armenia per la riapertura del confine fra i due paesi, che era stato chiuso dal 1993, e per la ripresa dei rapporti diplomatici fra i due paesi. Leggi tutto l’articolo

Obama, il Nobel, e la visita del Dalai Lama

HH the Dalai Lama with President Barack Obama.  Meeting at the Senate, 2005 (Photo by Sonam Zoksang. High-quality, archival inkjet 8.5" x 11" print signed by the photographer: $15.00 ALL PROFITS from the sale of this photo will go to www.studentsforafreetibet.org)
HH the Dalai Lama with President Barack Obama. Meeting at the Senate, 2005. (Photo by Sonam Zoksang. High-quality, archival inkjet 8.5" x 11" print signed by the photographer: $15.00 all profits from the sale of this photo will go to www.studentsforafreetibet.org)

Anthony M. Quattrone

L’annuncio fatto lo scorso venerdì che il premio Nobel per la pace per il 2009 sarà assegnato a Barack Obama è sorprendente, perché il giovane presidente americano non ha ancora avuto il tempo necessario per portare a termine qualche importante iniziativa in politica estera, nel bene o nel male. Lo stesso Obama è apparso alquanto sorpreso dall’attribuzione del premio, e ha immediatamente dichiarato che lo considera più una “chiamata all’azione” per una politica di pace da parte sua, dell’America, e delle persone di buona volontà, piuttosto che un riconoscimento per qualcosa che avrebbe fatto.

Molti osservatori riconoscono che Obama ha portato nella politica estera americana una ventata d’aria fresca, o, addirittura, un piacevole ritorno al passato, dove la diplomazia torna di nuovo in primo piano, e dove l’azione multilaterale va a sostituire quella unilaterale da parte della superpotenza d’oltreoceano. Obama non fa alcun mistero della sua preferenza per una politica realista, abbandonando l’idealismo di George W. Bush, mettendo chiaramente in secondo piano l’esportazione della democrazia e dei principi occidentali di libertà, privilegiando la necessità di dialogare con tutti, su tutto. Obama, tuttavia, non considera il realismo nella politica estera come l’abbandono della lotta per la libertà in ogni angolo del mondo a favore di una cinica azione basata sugli interessi economici, politici, e militari americani, ma ritiene che attraverso il dialogo, utilizzando metodi di convincimento alternativi allo scontro diretto basato sulla chiusura e l’uso della forza, si può anche avanzare i diritti civili e la libertà.

Le critiche per l’assegnazione del Nobel per la pace ad Obama sono piovute da destra e da sinistra, sia negli Usa, sia nel resto del mondo. E’ difficile comprendere, per alcuni, perché Obama è già meritevole di un riconoscimento così alto, specialmente quando c’erano altri candidati che avevano già dimostrato di meritare il premio per il loro impegno non violento nella lotta per avanzare i diritti civili, o per l’avanzamento della pace nel mondo. In America, alcuni commentatori di destra considerano l’assegnazione del premio il riconoscimento che il presidente americano piace a quella parte del mondo che non vuole un’America capace di difendersi con la forza. Questi stessi commentatori di destra vedono il premio come un peso al collo del presidente, e come un tentativo da parte dei “pacifisti” di legare le mani al presidente nelle scelte che dovrà fare rispetto all’uso della forza in Afghanistan.

Le critiche ad Obama sono arrivate anche dai Taleban, da Hamas e da Gino Strada, il fondatore di Emergency, così come da personaggi della destra americana capeggiati da Rush Limbaugh, che conduce da diversi mesi, attraverso il suo programma radiofonico, un attacco costante contro il presidente. Anche il presidente del Comitato nazionale repubblicano, Micheal Steele, ha attaccato Obama pubblicamente, scrivendo, in un comunicato diffuso dal partito, che “La vera domanda che si pongono gli americani è: che cosa ha realizzato veramente il presidente Obama? E’ spiacevole che il potere di star del presidente abbia messo in ombra instancabili attivisti, che hanno raggiunto traguardi lavorando per la pace e i diritti umani. Una cosa è certa, il presidente Obama non riceverà nessun premio dagli americani per i posti di lavoro creati, responsabilità fiscale o per aver messo da parte la retorica per le azioni concrete”. Leggi tutto l’articolo

Da Kyoto a Copenhagen: nasce l’asse della “Green economy”.

Stretta di mano tra Obama e Hu Jintao al vertice promosso dalle Nazioni Unite il 22 Settembre 2009
Stretta di mano tra Obama e Hu Jintao al vertice promosso dalle Nazioni Unite il 22 Settembre 2009

Diana De Vivo

Il riscaldamento globale rappresenta una delle maggiori minacce per il nostro pianeta: mancano soltanto due mesi ad uno dei più grandi vertici promossi sinora su un tema profondamente sentito dai leader mondiali, il climate change, una questione al centro, ormai, dei numerosi dibattiti a livello europeo ed internazionale:

“La minaccia è urgente”, afferma il Presidente americano Barack Obama, nel corso del summit promosso dalle Nazioni Unite lo scorso 22 Settembre sul cambiamento climatico, “il tempo stringe se non vogliamo lasciare alle generazioni future una catastrofe irreversibile”.

I due paesi, Cina e Stati Uniti, che da soli producono circa il 40% delle emissioni carboniche sul pianeta, sembrano convergere nella direzione di elaborare un nuovo accordo sul clima che superi l’impasse del Protocollo di Kyoto.

L’incontro promosso dai leader mondiali al fine di discutere su questioni globali che interessano i paesi industrializzati ed in via di industrializzazione ha manifestato l’urgenza di affrontare temi quali la riduzione delle emissioni di gas nocivi, i trasferimenti di tecnologie pulite ai paesi emergenti, gli aiuti verdi e la revisione della piattaforma di Kyoto.

Un margine di manovra negoziale verso un ambizioso accordo multilaterale globale sul climate change è emerso dai toni profondamente diversi con cui Obama ha espresso il forte sostegno degli Usa sul tema in vista della Conferenza di Copenhagen prevista per Dicembre 2009, un vertice ambizioso al fine di elaborare un nuovo accordo globale sul clima.

L’eco dei tempi in cui l’Amministrazione Bush negava persino la realtà del surriscaldamento globale, e la Cina addossava responsabilità ai paesi più ricchi è rimpiazzata dalla stretta di mano tra il Presidente Usa, Obama, ed il rispettivo collega cinese Hu Jintao al summit di New York, la quale dimostra inequivocabilmente il rinnovato impegno assunto dai leader dei due giganti che generano il 40% di tutte le emissioni di CO2 sul pianeta.

La scorsa settimana è stata indetta a Bankok, Tailandia, (28 Settembre 2009 – 9 Ottobre 2009) una nuova udienza preliminare in vista del vertice nella capitale danese, in cui saranno esaminate le proposte relative all’elaborazione di una convenzione vincolante sul clima, che imponga obblighi erga omnes; si procederà ugualmente in questa direzione i primi giorni di Novembre con le udienze di Barcellona al fine di giungere a Copenhagen con un preciso ventaglio di proposte. Leggi tutto l’articolo

Afghanistan: Le crudeli scelte di fronte ad Obama

Anthony M. Quattrone

U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)
U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)

Il presidente Barack Obama dovrà scegliere fra due “crudeli opzioni” nella conduzione della guerra in Afghanistan, come scrive l’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, sull’International Herald Tribune del 5 ottobre 2009. Per il vecchio professore di diplomazia, la richiesta di ulteriori truppe, fatte in pubblico da parte del Comandante americano in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, mette Obama di fronte ad un terribile dilemma: “Se rifiuta le raccomandazioni e l’opinione del generale McChrystal, il quale asserisce che le sue forze sono inadeguate per svolgere la missione, il presidente Obama sarà ritenuto responsabile per le drammatiche conseguenze. Se accetta la raccomandazione, i suoi oppositori potrebbero iniziare a descrivere il conflitto afgano come la guerra di Obama, almeno in parte.” Secondo Kissinger, il presidente sarà obbligato a prendere una decisione senza avere alcuna certezza sulla validità delle valutazioni che gli saranno o sono state già sottoposte.

Obama ha subito pesanti critiche dalla destra repubblicana che lo accusa di tergiversare nel prendere una decisione in merito alla strategia da adottare nella guerra in Afghanistan. Mentre alcuni repubblicani hanno apertamente attaccato il presidente, Kissinger, che ha fatto parte del governo del presidente repubblicano Richard Nixon, ha invitato tutti alla moderazione. L’ex Segretario di stato è apertamente a favore di incrementare le truppe Usa in Afghanistan, ma, seguendo la scuola del realismo nella politica estera Usa, crede che sia necessario identificare, con precisione, gli interessi strategici americani. Kissinger fa notare che altri paesi, specialmente quelli che confinano con l’Afghanistan, avrebbero maggiore interesse a stabilizzare il paese, e a rendere inefficace qualsiasi tentativo di ritorno dei Taleban dei loro alleati di al Qaida. I paesi confinanti o vicini all’Afghanistan, come la Cina, la Russia, l’India, il Pakistan, e l’Iran, secondo Kissinger, hanno sostanziali capacità belliche a disposizione per difendere i propri interessi; ma, fino ad ora, si sono tenuti relativamente in disparte, lasciando all’America il compito di intervenire, assieme agli alleati, sobbarcandosi il costo della guerra, sia in termini di vite umane, sia in termini di risorse finanziarie. Il vecchio diplomatico americano, nella sua analisi della situazione che confronta Obama, fa notare che, a differenza della guerriglia in Vietnam o della resistenza in Iraq, i Taleban non godono di un importante sostegno popolare o internazionale.  Leggi tutto l’articolo

America-Russia, disgelo a metà

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)
US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)

La visita di Barack Obama a Mosca il 6 e 7 luglio 2009 aveva lo scopo di far ripartire i rapporti fra Stati Uniti e Russia con il piede giusto, dopo un lungo periodo d’incomprensioni. Alcune decisioni delle precedenti amministrazioni americane avevano fatto scattare reazioni basate sull’orgoglio ed il nazionalismo russo. La politica americana a favore dell’ampliamento dell’Alleanza Atlantica verso est, e l’invasione russa in Georgia, lo scorso agosto, hanno portato allo stallo la cooperazione fra i due paesi. In campagna elettorale, Obama aveva promesso di fare un “reset” del rapporto con la Russia, per rimettere in piedi una più fattiva collaborazione, mirando anche ad una drastica riduzione degli arsenali nucleari.

Obama e il presidente russo Dmitry Medvedev hanno raggiunto un accordo preliminare che dovrebbe prendere il posto del trattato sulla riduzione delle armi strategiche (START), che scade il prossimo 5 dicembre. Americani e russi possiedono oltre il 90 percento di tutte le armi nucleari, e ora mirano a diminuire i loro arsenali di almeno un terzo, riducendo il tetto attuale delle 2.200 testate strategiche a circa 1.500, entro sette anni. Il nuovo accordo prevede anche una drastica riduzione dei vettori strategici, comprendenti missili balistici, e quelli montati su sottomarini e caccia bombardieri, lasciando in piedi l’attuale sistema di verifica.

Obama è riuscito ad ottenere il transito in Russia di truppe americane dirette in Afghanistan, e la Russia ha anche ripreso il dialogo e la collaborazione militare con l’Alleanza Atlantica, sospesa dopo l’invasione della Georgia. La questione dei sistemi radar e di difesa missilistica che gli americani vorrebbero installare nella Repubblica Ceca e in Polonia, rimane ancora aperta, ma Medvedev ha indicato che il dialogo prosegue.

Obama può sicuramente registrare un passo in avanti nei rapporti con Mosca, ma rimane una generale diffidenza da parte dei russi nei confronti degli americani. A differenza di quanto è successo nelle altre capitali, visitate negli scorsi mesi dal presidente americano, non si è registrato alcuna manifestazione di “obamamania”. Secondo alcuni sondaggi, la maggioranza dei russi è sospettosa degli americani, e considerano gli Stati Uniti colpevoli di flagranti atti di abuso di potere nelle questioni di politica internazionale. Leggi tutto l’articolo

Petraeus, l’Iraq, e la democrazia

Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command
Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command

Anthony M. Quattrone

La nuova strategia militare sviluppata alla fine del 2006 e attuata nel 2007 dal generale americano David Petraeus, chiamata “surge” (ondata o impennata), che prevedeva un grosso aumento della presenza delle truppe a stelle e strisce in Iraq per un limitato periodo di tempo, ha avuto successo.  Il 30 giugno 2009, i militari americani si sono ritirati da tutte le grandi città irachene, consegnando il controllo del territorio alle forze armate irachene.  Dopo due anni e mezzo dall’inizio del “surge”, la strategia del generale Petraeus ha raggiunto gli obiettivi preposti, ed è diventato il modello per la nuova strategia del presidente Barack Obama in Afghanistan.

La storia del “surge” è forse un esempio della dinamicità della democrazia americana, dove, fra tesi e antitesi, si arriva finalmente alla sintesi, bipartisan, nell’interesse del Paese.  Nel novembre 2006, quando il Congresso americano, appena passato dalla maggioranza repubblicana a quella democratica, era diviso sulla strategia che l’America doveva adottare per uscire dal pantano della guerra in Iraq, nessuno avrebbe scommesso che una strategia di incremento piuttosto che di riduzione delle forze armate Usa in Iraq, avrebbe avuto successo.

La vittoria democratica nelle elezioni del “mid-term” era considerata un mandato per bocciare, nel suo insieme, la politica del presidente repubblicano George W. Bush in Iraq.  Poco dopo le elezioni, il 6 dicembre 2006, un gruppo di studio bipartisan, l’Iraq Study Group, diretto dal repubblicano James Baker e dal democratico Lee Hamilton, aveva chiaramente indicato che c’era bisogno di idee fresche e coraggiose per permettere alle forze armate americane di lasciare l’Iraq, garantendo, allo stesso tempo, la stabilità e la pace nel paese.  Nel frattempo, anche fra i militari, le migliori menti erano al lavoro per cercare come rendere l’Iraq più sicuro, creare un quadro di riferimento in cui potesse svilupparsi la democrazia e le sue istituzioni, e stabilire un piano per il ripiegamento delle truppe Usa nel paese. Leggi tutto l’articolo

Iran: la via stretta di Obama

Inaudita violenza contro la libertà

Iranian supporters of defeated presidential candidate Mir Hossein Mousavi hold signs during a demonstration outside the Iranian consulate in Dubai on June 15. Mahmoud Ahmadinejad has again slammed US President Barack Obama for "interfering" in Iran, as debate over the Iranian president's disputed re-election continued. (AFP/File/Marwan Naamani)
Iranian supporters of defeated presidential candidate Mir Hossein Mousavi hold signs during a demonstration outside the Iranian consulate in Dubai on June 15. Mahmoud Ahmadinejad has again slammed US President Barack Obama for "interfering" in Iran, as debate over the Iranian president's disputed re-election continued. (AFP/File/Marwan Naamani)

Anthony M. Quattrone

E’ difficile non reagire emotivamente dinnanzi alle scene della violenta repressione da parte delle forze dell’ordine della Repubblica Islamica dell’Iran nei confronti di migliaia di cittadini che manifestano contro i presunti brogli elettorali.  Le immagini dei primi giorni, con i manifestanti che innalzavano cartelli con la scritta in inglese“Where is my vote?” (dov’è il mio voto?), hanno fatto spazio a scene di inaudita violenza, culminate con la morte, ripresa in diretta, della ventiseienne Neda Agha Soltan, nelle strade di Teheran, in un lago di sangue, soccorsa inutilmente dal padre e da altri manifestanti.

Chi ama la libertà e crede nello stato di diritto, nella democrazia, e nel rispetto della dignità umana dell’avversario politico non può rimanere indifferente di fronte a quanto sta succedendo in Iran.  Non importa se Mir Hossein Mousavi, il maggiore oppositore del presidente Mahmoud Ahmadinejad nelle elezioni del 12 giugno 2009, sia considerato meglio o peggio di quest’ultimo.  Non importa se in passato sia stato fra i fautori del percorso iraniano verso il nucleare.  Quello che importa è che migliaia, se non milioni, di iraniani hanno alzato la voce, chiedendo giustizia, chiedendo l’annullamento delle elezioni per le troppe irregolarità denunciate in ogni zona del paese, mentre le votazioni erano ancora in corso.

Cosa fare? Appoggiare l’opposizione o evitare qualsiasi interferenza, reale o apparente, negli affari interni dell’Iran?  Nel corso degli ultimi dieci giorni, l’amministrazione del presidente Barack Obama ha dovuto mettere a punto un’elaborata strategia della comunicazione, mentre gli eventi in Iran andavano prendendo una piega drammatica.  Ai primi cenni di contestazione delle elezioni, l’amministrazione americana ha preferito astenersi da qualsiasi commento che poteva andare ad inficiare il tentativo di instaurare un dialogo con il regime di Teheran.  La politica estera proposta da Obama, già durante la campagna elettorale, è basata sul realismo piuttosto che sull’idealismo.  Obama aveva promesso che avrebbe tentato di ingaggiare l’Iran in un dibattito proficuo per entrambi i paesi, nella speranza di indurre il paese persiano ad abbandonare qualsiasi velleità di potenza nucleare, e qualsiasi favoreggiamento di gruppi intenti a praticare il terrorismo contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.

Man mano che le manifestazioni della piazza andavano intensificandosi, e le notizie degli scontri riuscivano a superare la censura imposta ai giornalisti, arrivando in tutto il mondo attraverso Internet, l’amministrazione Obama ha dovuto rielaborare la sua strategia della comunicazione nei confronti della situazione iraniana.  Il 19 giugno 2009, sette giorni dopo le elezioni iraniane, la Camera dei deputati Usa ha votato una mozione approvata da 405 deputati contro due astenuti e uno contrario, che “sostiene la lotta dei cittadini iraniani che abbracciano i valori della libertà, dei diritti umani, delle libertà civili, e dello stato di diritto”.  La mozione condanna l’uso della violenza da parte del governo iraniano nei confronti dei manifestanti, la censura degli organi di informazione, e la soppressione dei mezzi di comunicazione elettronica, come Internet e i cellulari, riaffermando l’universalità dei diritti individuali e l’importanza di elezioni giuste e democratiche. Leggi tutto l’articolo