Trump, Castro e le promesse elettorali

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Celebrazioni a Miami per la notizia della morte di Fidel Castro

Anthony M. Quattrone, Ph.D.

La vittoria di Donald Trump è già materia di studio per analisti e commentatori in tutto il mondo. Le dinamiche che hanno permesso ad un imprenditore senza alcuna esperienza né politica né di governo di diventare il candidato repubblicano e poi di vincere le elezioni americane sconfiggendo l’establishment di entrambi partiti, possono essere comprese anche attraverso un’attenta analisi delle promesse messe in campo da Trump. Le stesse promesse che lo hanno portato alla vittoria sono quelle che potrebbero causargli i più grandi problemi nel corso dei prossimi quattro anni.

Con la notizia della recente scomparsa del dittatore cubano Fidel Castro, torna al centro dell’attenzione la promessa che Trump ha fatto alla comunità cubana-americana residente (e votante) in Florida a metà settembre di quest’anno, di disfare gli accordi fatti dal presidente Barack Obama con Raul Castro, ribaltando completamente quanto aveva dichiarato un anno prima. Mentre nel settembre 2015, Trump valutava positivamente l’apertura diplomatica e commerciale con Cuba, un anno dopo, corteggiando il voto della numerosa comunità cubana in Florida, ha promesso di cancellare gli “ordini esecutivi” che Obama promulgò nel 2014 – ordini che permisero agli USA e Cuba di riprende rapporti diplomatici dopo 50 anni di interruzione.

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Sostenitori cubani di Trump durante un comizio svolto a Miami il 2 novembre 2016

Mentre nel marzo 2016 Trump valutava addirittura la possibilità di aprire un albergo a Cuba, ragionando come un qualsiasi imprenditore americano, oggi le sue dichiarazioni da presidente in pectore hanno e avranno una valenza diversa. La comunità cubana della Florida ha probabilmente contribuito in modo significativo alla sua elezione, dandogli la possibilità di vincere in uno degli stati più determinanti nella corsa verso la Casa Bianca, con i suoi 29 voti elettorali. Cosa farà ora? Ragionerà con il cappello dell’imprenditore, spinto dalle tante imprese americane interessate a riaprire i rapporti commerciali con Cuba, o farà il politico alla vecchia maniera, come qualsiasi membro dell’establishment che lui stesso ha sconfitto, pagando il “debito” con la comunità cubana-americana?

La comunità cubana di Miami è influente e non permetterà a Trump di ribaltare in modo indolore la sua “nuova” posizione su Cuba, ovvero quella del settembre 2016, quella che gli è servita per essere eletto. Ogni parola che dirà, ogni azione che porterà avanti, specialmente durante i primi 100 giorni della sua amministrazione, sarà valutata con la lente di ingrandimento non solo da chi lo ha votato, ma anche da chi ha perso, pronto a rinfacciargli ogni promessa non mantenuta. Se Trump vorrà mantenere la promessa elettorale fatta alla comunità cubana della Florida, dovrà prendere una posizione estremamente dura con Raul Castro, legando la sopravvivenza degli accordi alla concessione di ampie libertà civili, politiche e religiose nel isola caraibica.

Ovviamente, se Trump decidesse di cancellare gli ordini esecutivi del presidente Obama, dovrà scontrarsi con le tante imprese che hanno già intrapreso rapporti commerciali con Cuba, a partire dai colossi del trasporto aereo e dell’industria alberghiera, la stessa industria di cui fa parte lo stesso presidente-eletto.

Obama e l’Egitto in fiamme

U.S. President Barack Obama makes a statement about the violence in Egypt while at his rental vacation home on the Massachusetts island of Martha's Vineyard in Chilmark, August 15, 2013. (Photo: Reuters)
U.S. President Barack Obama makes a statement about the violence in Egypt while at his rental vacation home on the Massachusetts island of Martha’s Vineyard in Chilmark, August 15, 2013. (Photo: Reuters)

Anthony M. Quattrone, Ph.D.

Il presidente americano Barack Obama è in grande difficoltà di fronte agli avvenimenti che stanno accadendo in Egitto in questi giorni di metà agosto.  Il massacro di centinaia di civili, sostenitori del primo presidente eletto democraticamente, Mohamed Morsi, leader del movimento integralista islamico, i Fratelli Mussulmani, è documentato da tutte le televisioni americane.  Il presidente condanna la violenza contro i civili ma non usa la terminologia “colpo di stato” per descrivere l’intervento dello scorso 3 luglio da parte delle forze armate egiziane, perché la legge americana vieterebbe al governo USA di fornire circa 1,3 miliardi di dollari ai militari egiziani in caso di “golpe”.  In caso di blocco dei finanziamenti USA all’Egitto, non solo le maggiori imprese americane nel campo della difesa, come la Lockheed Martin e la General Dynamics, perderebbero milioni di dollari in commesse militari, ma ci sarebbero anche riflessi negativi sull’industria italiana, perché l’Italia è tra i cinque maggiori fornitori europei delle forze armate egiziane e le esportazioni di armi dall’Italia all’Egitto sono in costante crescita, anche quest’anno.

Il presidente americano Barack Obama aveva rilasciato il 3 luglio 2013 una articolata dichiarazione attraverso un comunicato stampa con precise valutazioni rispetto alle azioni intraprese dalle forze armate egiziane, culminate prima nella rimozione e successivamente nell’arresto del primo presidente Morsi. Il presidente egiziano, che era stato eletto il 24 giugno 2012 con il 51% dei voti, era diventato il bersaglio degli attacchi dell’opposizione quando, il 22 novembre 2012, si era attribuito attraverso un decreto amplissimi poteri fra cui quello di rendere non impugnabili i suoi decreti presidenziali.  Le opposizioni avevano visto nel decreto del 22 novembre 2012 l’inizio di un’involuzione autoritaria, che avrebbe potuto portare alla limitazione dello stato di diritto, schiacciando qualsiasi possibilità di futuro confronto democratico, con l’islamizzazione dello Stato, che avrebbe potuto portare il paese verso una dittatura islamica.

Nella dichiarazione del 3 luglio 2013, Obama espresse la sua profonda preoccupazione “per la decisione delle Forze Armate egiziane di rimuovere il presidente Morsi e sospendere la Costituzione egiziana.”  Il presidente americano lanciò anche un “appello alle forze armate egiziane affinché agiscano rapidamente e responsabilmente per restituire piena autorità ad un governo civile democraticamente eletto, il più presto possibile, attraverso un processo inclusivo e trasparente”. Obama ammonì anche le forze armate affinché si evitasse “qualsiasi arresto arbitrario ai danni del presidente Morsi e dei suoi sostenitori”.  Obama faceva anche appello a tutte le parti per risolvere in modo nonviolento le differenze, garantendo la sicurezza e i diritti di tutti, ribadendo che gli USA non sostenevano nessuna delle parti in lotta, ma che era opinione degli americani che solo il rispetto dello stato di diritto e della procedura democratica avrebbe potuto garantire al popolo egiziano il raggiungimento delle sue giuste aspirazioni.

Dal 3 luglio ad oggi, la situazione in Egitto è precipitata e le peggiori preoccupazioni del presidente Obama si sono avverate.  Oggi, con le immagini in diretta TV del massacro in corso, con la determinazione dei leader dei Fratelli Mussulmani di esigere attraverso la mobilitazione della piazza il rispetto delle regole democratiche che avevano portato all’elezioni di Morsi nel giugno 2012, Obama si trova in una situazione dove qualsiasi iniziativa americana può innescare una serie di eventi imprevedibili.  Nel frattempo il presidente americano ha cancellato il 15 agosto 2013 le esercitazioni che i militari americani e egiziani avrebbero dovuto svolgere il prossimo settembre, ma continua ad evitare di parlare di colpo di stato.

Obama è consapevole che se i militari egiziani non ridessero ai civili il potere nel breve termine e se l’Egitto non riuscisse a continuare nel suo percorso verso uno stato di diritto, con garanzie per i diritti civili, e con un governo eletto democraticamente, il futuro di tutte le rivoluzioni democratiche arabe sarebbe in pericolo.  Il fallimento della democrazia in Egitto e in tutto il mondo arabo fornirebbe argomenti a coloro che in America, sia di centrodestra sia di centrosinistra, credono che l’Islam sia incompatibile con la democrazia, con la libertà e con lo stato diritto e che l’unica forma di dialogo con i paesi islamici è quello che si basa sull’uso della forza.  Il fallimento della democrazia in Egitto potrebbe innescare una reazione a catena in tutto il mondo arabo, allontanando la possibilità di un raggiungimento di una pace duratura fra arabi e israeliani e una soluzione equa per il popolo palestinese.  Le decisioni che prenderà Obama nelle prossime ore potranno influenzare il corso degli eventi per i prossimi anni in tutto lo scacchiere mediorientale.

Iraq: finalmente si torna a casa

From the New York Times on 22 October 2011: "After a decade of war, we're turning the page and moving forward," the president told supporters in an e-mail on Saturday. (Photo: Doug Mills/The New York Times)

Anthony M. Quattrone

L’annuncio fatto dal presidente americano, Barack Obama, venerdì 21 ottobre 2011, che gli Stati Uniti ritireranno tutte le truppe dall’Iraq entro il 31 dicembre 2011 ha colto di sorpresa analisti e osservatori. E’ vero che la data del ritiro era già stata concordata nell’agosto del 2008 fra il predecessore di Obama, il presidente George W. Bush, e il primo ministro Nuri al-Maliki, ma è anche vero che iracheni e americani stavano trattando da diversi mesi sulla possibilità di lasciare in Iraq un contingente di circa cinque mila soldati americani come consiglieri o con compiti di addestramento delle forze di sicurezza irachene.  Lo scoglio maggiore, almeno ufficialmente, rimaneva il trattato sullo stato legale delle forze americane in Iraq, con la richiesta del Pentagono di garantire la loro immunità dinanzi alla legge irachena.  Dovunque, attraverso trattati internazionali o accordi bilaterali, sono presenti le forze americane, il Pentagono è stato sempre molto fermo per quanto riguarda la giurisdizione sui propri militari da parte delle corti marziali Usa e non dei tribunali locali o internazionali, anche nel caso di accuse di violazione della legge locale o internazionale.

Il rimpatrio di circa 40 mila soldati americani avviene dopo quasi nove anni dall’invasione dell’Iraq avvenuta nel marzo 2003.  Da allora, sono morti 4.481 soldati americani, 316 soldati di paesi alleati, oltre 55 mila insorti iracheni, e oltre centomila civili iracheni.  L’America conta anche 32 mila feriti fra i suoi militari, di cui il 20 percento soffre di gravi danni celebrali o spinali.

La tempistica dell’annuncio di Obama sembrerebbe conciliare due esigenze del Presidente, una politica e l’altra tecnica.  La prima, quella politica, era di sfruttare la notizia della morte di Gheddafi in Libia, dove gli americani hanno speso pochissimo, senza inviare nessun soldato e senza vittime fra i militari Usa, legandola alla promessa elettorale di ritirare tutte le truppe americane dall’Iraq.  Il presidente ha potuto, così, inviare ai suoi oppositori, sia nel partito democratico sia in quello repubblicano, un doppio messaggio: è un presidente affidabile in politica estera e mantiene le promesse fatte.  Aveva promesso di ridurre le truppe in Iraq per mandarle in Afghanistan per condurre la caccia ai terroristi di al-Qaeda, e l’ha fatto nel 2010. Aveva promesso di catturare o eliminare Osama bin Laden anche fosse stato necessario sconfinare in Pakistan, è l’ha fatto.  Aveva promesso di usare alleanze internazionali per nuove missioni, e l’ha fatto nel caso della Libia, partecipando alle operazioni affidate a un comandante canadese, con grande partecipazione europea, con inglesi e francesi in primo piano.  Aveva promesso di ritirare completamente le truppe Usa dall’Iraq, e lo sta facendo.  Da quel che si vede e si ascolta durante i dibattiti che si stanno svolgendo in questi giorni fra i candidati repubblicani per le primarie presidenziali, le critiche a Obama per la politica estera sono tiepide o inesistenti.

La seconda esigenza del Presidente è di carattere tecnico.  E’ necessario dare il tempo utile ai 40 mila militari americani per lasciare l’Iraq nel modo più efficiente possibile e in piena sicurezza. Il nuovo ministro della Difesa, Leon Panetta, dopo aver diretto come capo della CIA la brillante operazione che ha portato all’eliminazione di Osama bin Laden, ora dovrà dirigere l’uscita dall’Iraq in modo organizzato, risparmiando critiche al Presidente che sicuramente arriverebbero se dovessero esserci attacchi mortali contro i soldati Usa mentre vanno via o se si lasciassero agli iracheni troppi materiali, armi e attrezzature pagate con le tasse dei contribuenti americani.

In un articolo pubblicato sul New York Times del 22 ottobre 2011, Mark Landler fa notare, tuttavia, che la forza che Obama sta dimostrando come “presidente di guerra” e il grosso successo che ha ottenuto con le operazioni anti-terrorismo potrebbero non servire per la sua rielezione il prossimo novembre.  Le uccisioni di Osama bin Laden il 2 maggio 2011, del suo probabile successore Anwar al-Awlaki il 30 settembre 2011, la morte di Gheddafi il 20 ottobre 2011, e il ritiro delle truppe americane dall’Iraq entro la fine dell’anno, sono importanti, ma in America è sempre stata la condizione dell’economia a determinare l’elezione o la rielezione di un presidente.  Se la debole ripresa economica non si trasformasse in un aumento dell’occupazione prima del prossimo autunno, Obama potrebbe contare soltanto sul poco entusiasmo che gli americani stanno dimostrando nei confronti dei repubblicani sia al Congresso sia nelle primarie per la scelta dello sfidante per le presidenziali del 2012.  Nessun candidato repubblicano, per il momento e per la gioia di Obama, riesce a creare emozioni forti fra gli americani.

Pubblicato da “Il Denaro” il 26 ottobre 2011

Sindaci USA: Obama, basta guerre all’estero – i soldi servono a casa

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama speaks about the war in Afghanistan during a televised address from the East Room of the White House, June 22, 2011. Credit: Reuters/Pablo Martinez Monsivais/Pool

L’annuncio che Barack Obama ha fatto il 22 giugno 2011 di voler ritirare 33 mila truppe dall’Afghanistan entro 18 mesi, cui 10 mila entro il 31 dicembre 2011, in netto anticipo rispetto alla programmazione fornita dal Pentagono, è il frutto della realizzazione che non è più possibile per Washington sostenere i costi della guerra e della ricostruzione afgana, mentre negli USA le infrastrutture sono fatiscenti, i servizi sociali sono ridotti all’osso, la disoccupazione è oltre 9 percento e il debito pubblico è in costante rialzo, superando la cifra di 14 mila miliardi di dollari quest’anno.  Con le presidenziali del prossimo anno, non è nemmeno possibile per Obama presentarsi dinanzi all’elettorato con l’accusa di spendere più per ricostruire, o, meglio costruire, l’Afghanistan con i soldi dei contribuenti americani, quando a casa, negli USA, c’è tanto da fare.

Il messaggio che è arrivato a Obama, chiaro e forte, dalla conferenza dei sindaci americani che si è tenuta dal 17 al 21 giugno 2011 a Baltimora, nel Maryland è che i soldi per fare le guerre e ricostruire paesi stranieri devono essere spesi a casa, in America, per gli americani.  Il 20 giugno 2011, nel suo discorso di inaugurazione come nuovo presidente dell’associazione che raggruppa i sindaci delle città americane che superano 30 mila abitanti, Antonio Villaraigosa, sindaco democratico di Los Angeles, ha chiesto al Presidente Obama di portare a casa i “nostri valorosi soldati” e “di onorarli indirizzando ora il nostro impegno verso i bisogni domestici, investendo fondi nella nostra economia per creare posti di lavoro”.  I sindaci lamentano che mentre miliardi di dollari sono spesi nelle missioni militari all’estero, loro hanno dovuto licenziare circa 446 mila dipendenti municipali dal 2008 ad oggi, e fra questi molti sono insegnanti, poliziotti e vigili del fuoco. Non è più possibile, secondo i sindaci, sostenere la costruzione di ponti e autostrade a Bagdad e Kandahar mentre quelle di Baltimora o di Kansas City sono a pezzi e in altre città americane sono del tutto inesistenti.

Il giorno seguente, il 21 giugno 2011, il Senatore democratico conservatore del West Virginia, Joe Manchin III, ha scritto al Presidente una lettera chiedendo di anticipare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan molto prima della data prefissata del 2014.  Per Manchin, “non possiamo più permetterci di tagliare servizi, innalzare le tasse e far decollare il debito per finanziare la ricostruzione in Afghanistan. La domanda a cui il Presidente deve rispondere è molto semplice: cosa vogliamo ricostruire l’America o l’Afghanistan? Allo stato attuale fare entrambe le cose è impossibile”.  La lettera di Manchin segue quella inviata il 15 giugno 2011 da 27 senatori di entrambi schieramenti, in cui i senatori chiedono un ritiro più rapido dall’Afghanistan dopo l’uccisione di Osama bin Landen.

Il presidente Obama, durante la campagna elettorale del 2008 aveva manifestato l’intenzione di spostare le risorse americane dalla guerra in Iraq a quella in Afganistan, ritenendo quest’ultimo paese il nodo centrale nella guerra globale contro il terrorismo di al Qaeda. La spesa della guerra in Afghanistan è salita da 14,7 miliardi di dollari spesi da George W. Bush nel 2003, ai 118,6 miliardi dollari spesi da Obama nel 2011. Con la morte di Osama bin Laden il primo maggio di quest’anno, è diventato difficile convincere gli americani sulla necessità di continuare a spendere miliardi di dollari in Afghanistan, e Obama sa che questo potrebbe essere usato contro di lui dai repubblicani durante la prossima campagna presidenziale del 2012.

E così, pochi giorni dall’appello dei sindaci e dalla lettera del senatore Manchin, il presidente ha deciso di annunciare il 22 giugno 2011 in un messaggio alla nazione in diretta TV un drastico taglio alla spesa della guerra, portando subito a casa una parte dei 100 mila soldati oggi dispiegati in Afghanistan. Leggi tutto

Andare via dall’Iraq

Members of the Iraqi Sadr Movement's Mahdi Army march in Baghdad's predominantly Shiite suburb of Sadr City during a parade demanding the withdrawal of US forces from Iraq. (AFP/Ahmad al-Rubaye)

Anthony M. Quattrone

Circa 4.500 soldati americani e 120 mila iracheni hanno perso la vita in Iraq da quando nel marzo 2003 il presidente George W. Bush decise di iniziare una guerra cui mancavano credibili giustificazioni. L’Iraq non poneva un imminente pericolo per gli Stati Uniti d’America, né era sospettata di essere il mandante dell’attacco terroristico del settembre 2001.  In America, oggi ci sono circa 32 mila veterani della guerra in Iraq che soffrono di gravi mutilazioni dovute alle ferite riportate in combattimento.  In Iraq i soldati americani continuano a morire.  Eppure, il presidente americano Barack Obama aveva promesso nella sua campagna elettorale che avrebbe rimosso le truppe da combattimento dall’Iraq entro il giugno 2010 per concentrarsi sull’Afghanistan, il luogo dove, secondo molti analisti, è più probabile un rigurgito del terrorismo internazionale antiamericano.

Con la brillante operazione che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, il presidente americano ha dimostrato che l’uso dell’intelligence e delle forze speciali, accoppiato con la pazienza, può portare a risultati molto più efficienti con costi relativamente bassi in termini di vite umane e di dispendio di risorse finanziarie.  L’invasione dell’Afghanistan, seguita da quella dell’Iraq, con l’enorme costo in vite umane d’inermi civili, di militari americani, afgani, iracheni, delle formazioni irregolari delle diverse parti in lotta, oltre ai costi materiali che hanno in sostanza sbancato il tesoro americano, lasciato in attivo dal presidente Bill Clinton, e portato distruzioni non ancora risolte in tante zone dei paesi che hanno subito la guerra, dovrebbero fungere da monito a chiunque pensi di utilizzare la guerra come metodo per risolvere questioni di polizia internazionale o come lotta al terrorismo.

La guerra in Iraq è costata al contribuente americano circa 750 miliardi di Euro fino ad oggi.  Il presidente ha proposto di includere nel bilancio federale del 2012 circa 14 miliardi di Euro per sostenere le spese per circa 46 mila soldati americani che sono ancora in Iraq.  Anche se questi soldati non partecipano in azioni di guerra, sono, di fatto, oggetto di attacchi militari, e l’elettore americano non riesce a comprendere perché ci siano ancora militari americani in Iraq.  Gli americani non comprendono bene i segnali che stanno ricevendo dal governo di Barack Obama, perché, se da un lato si conferma il ritiro di tutte le truppe entro il 31 dicembre 2011, dall’altro il segretario alla difesa, Robert Gates e il capo di stato maggiore delle forze armate, l’ammiraglio Mike Mullen, indicano l’assenso americano a rimanere in Iraq oltre tale data se il governo di Nouri al-Maliki lo richiedesse.  Entrambi, tuttavia, manifestano preoccupazione perché il tempo stringe e se non arrivasse entro poche settimane un cenno da parte irachena, mancherebbe il tempo per attuare le necessarie iniziative logistiche per assicurare la presenza americana nel paese oltre il 31 dicembre 2011.

Per molti osservatori americani, il tempo in Iraq è scaduto, anche perché gli iracheni sarebbero capaci di gestire al meglio le questioni di sicurezza interna usando le loro forze armate che sono ben addestrate ed equipaggiate, e superano numericamente gli insorti.  La tabella di marcia del ritiro americano è anche alla base dell’appoggio che il religioso sciita Moktada al-Sadr ha dato al governo in carica.  Sadr ha chiaramente minacciato la ricostituzione dell’esercito irregolare del Mahdi se gli americani non lasciassero il territorio iracheno come annunciato e, farebbe anche cadere l’attuale governo del primo ministro Maliki, gettando il paese in una crisi politica e militare.

Il 30 giugno 2010 era il termine che il presidente Obama aveva posto per il ritiro di tutte le truppe di combattimento americane in Iraq.  Ora Obama deve mantenere la promessa di portare a casa gli altri soldati, quei 46 mila che sono ancora in Iraq senza ruolo di combattimento ma che muoiono, che sono feriti e che costano a testa circa 300 mila euro all’anno per rimanere in Iraq.  Dopo la morte di Osama bin Laden è sempre più difficile convincere il contribuente americano a lasciare anche un solo soldato in Iraq. E forse, fra poco, sarà difficile convincerlo a lasciare anche un solo soldato in Afghanistan.

Libia: La pazienza di Obama

Anthony M. Quattrone

A map illustrating the situation in Libya on the seventh day of coalition airstrikes against Moamer Kadhafi. (AFP/Graphic)

Il presidente americano, Barack Obama, è sotto un tiro incrociato di critiche che provengono sia dalla destra repubblicana, sia dall’interno partito democratico per come sta reagendo alla crisi libica.  In politica estera, l’America non si divide fra destra e sinistra, bensì fra idealisti e realisti, cioè, fra chi vorrebbe avanzare nel mondo i principi fondamentali su cui la democrazia americana si basa, e quelli che vorrebbero invece armonizzare la politica estera con specifici interessi americani, sia in campo economico, sia in quello legato strettamente alla sicurezza nazionale.  La politica adottata da Obama nei confronti della crisi libica non soddisfa né gli idealisti, né i realisti, almeno per il momento.

C’è da registrare, tuttavia, che i critici di Obama si trovano dinanzi ad una situazione totalmente nuova per quanto riguarda il coinvolgimento americano in un’azione di guerra nella storia recente.  Durante l’ultimo mese, la diplomazia di Washington è riuscita a far approvare dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite diverse risoluzioni sulla questione libica, convincendo cinesi e russi a non opporre il veto, creando, nel frattempo, i presupposti per un intervento militare multilaterale, che, dopo un inizio caratterizzato da un atteggiamento francese alquanto sciovinistico, è ormai destinato a essere gestito direttamente dalla struttura  militare integrata dell’Alleanza Atlantica.

Alcuni critici di Obama hanno dipinto il presidente americano come esitante e molto incerto sul da farsi, specialmente quando sono arrivate le prime notizie riguardanti le rivolte popolari in Libia.  Rileggendo oggi le dichiarazioni che Obama ha fatto il 3 marzo 2011, sembrerebbe invece che il presidente americano aveva correttamente deciso di tenere aperte tutte le opzioni, da quelle puramente diplomatiche a quelle militari, mentre non esitava nel decretare la fine del regime del dittatore libico: “Permettetemi di non essere per niente ambiguo — Il Colonnello Gheddafi deve dimettersi e andare via.  Questo è bene per il suo paese. E’ bene per il suo popolo. E’ la cosa giusta che deve fare”.  Nel frattempo, Obama ordinava al Pentagono di procedere con la pianificazione militare e al Dipartimento di Stato di lavorare per tessere le necessarie alleanze per costringere il dittatore libico a cedere.

La pazienza del presidente americano, combinata con una rinata capacità della diplomazia americana di costruire una vasta intesa fra paesi non necessariamente alleati, ha portato a una serie d’inaspettate prese di posizione.  Il 26 febbraio il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottava una risoluzione, la 1970, per stabilire un embargo nei confronti della Libia per quanto riguarda armi e altri materiali militari, autorizzando gli Stati membri dell’ONU ad adottare tutte le misure necessarie per garantire una pronta ed efficace assistenza umanitaria.  Il 12 marzo 2011, il Consiglio della Lega degli Stati Arabi sollecitava l’imposizione di una zona di “non volo” all’aviazione militare libica e di istituire zone di sicurezza in luoghi esposti al fuoco quale misura precauzionale per consentire la protezione del popolo libico e dei cittadini stranieri residenti in Libia.  Il 17 marzo 2011, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottava una risoluzione, la 1973, imponendo una “no-fly zone” nei cieli della Libia e permettendo una più vigorosa operazione di polizia internazionale per impedire l’afflusso di armi e mercenari a sostegno di Gheddafi.

Ventidue giorni dopo il discorso del 3 marzo 2011, e dopo otto giorni dall’approvazione della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Obama è riuscito a convincere gli alleati europei a incanalare e coordinare sotto la guida della NATO tutti gli sforzi per fermare Gheddafi.  Il presidente americano è anche riuscito a convincere gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar a inviare aerei militari che parteciperanno all’implementazione della “no-fly zone”.  La guerra contro Gheddafi, fatta o per motivi idealisti, nell’appoggiare la rivolta popolare, o per interessi strategici legati alle fonti di energia e ai pericoli connessi al terrorismo internazionale, non potrà essere considerata una guerra “made in the USA”, né da parte delle masse popolari arabe e islamiche, né da parte degli anti-americani tradizionali.

Alcuni repubblicani, che sono critici della decisione del presidente d’intervenire militarmente in Libia, hanno accusato Obama di coinvolgere l’America in una terza guerra che il paese non può permettersi di fare a causa del deficit pubblico.  Gli stessi repubblicani, tuttavia, non hanno mosso alcuna critica per la cifra di mille miliardi di dollari spesi sino ad ora nelle due guerre iniziate da Bush in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003.

Ora Obama dovrà chiarire al popolo americano quale dovrà essere la “end state”, il risultato finale, dell’intervento internazionale in Libia.  Che cosa l’America è disposta ad accettare? E’ ipotizzabile una Libia divisa in due, con una parte in mano a Gheddafi, e l’altra controllata dai ribelli di Bengasi?  Oppure Obama vuole mettere la parola fine al capitolo Gheddafi?  E se la guerra dal cielo e l’embargo navale non fossero sufficienti per fare capitolare Gheddafi, che cosa si fa?  Nei prossimi giorni, la Casa Bianca sarà chiamata a definire in modo inequivocabile la “end state”.

Masse arabe in rivolta: Obama deve scegliere fra idealismo e realismo.

U.S. President Barack Obama speaks about Libya while U.S. Secretary of State Hillary Clinton listens in the White House in Washington February 23, 2011 Reuters/Kevin Lamarque

Anthony M. Quattrone

La Casa Bianca si trova, ancora una volta, a dover scegliere fra idealismo e realismo nel rispondere a una crisi internazionale.  E ancora una volta dovrà scegliere fra la relativa tranquillità che un regime repressivo e dittatoriale può garantire e l’inquietante incertezza del cambiamento, che nasce dalla richiesta di libertà e democrazia.  L’America che ha eletto Barack Obama sull’onda del “yes we can”, del “change”, non è tradizionalmente propensa ad appoggiare movimenti di massa e rivoluzioni all’insegna dei medesimi slogan che hanno accompagnato il primo afro-americano alla Casa Bianca.  Di solito, l’America “realista” sta dalla parte di chi garantisce lo status quo, il libero scambio, l’accesso alle risorse prime, mentre quella “idealista” sta dalla parte delle masse popolari in rivolta, che s’ispirano il più delle volte ai principi della Dichiarazione di Indipendenza Americana e ai dieci emendamenti alla Costituzione, la dichiarazione dei diritti.  Quale scuola di pensiero influenza oggi la Casa Bianca?  Obama è un realista o un’idealista?  Con chi si sta schierando l’America oggi, con i regimi arabi repressivi, che fino ad oggi hanno garantito ordine e stabilità, o con le masse popolari in rivolta, che aspirano all’emancipazione, ma che producono nel frattempo instabilità e incertezza?

Il Dipartimento di Stato gestito da Hillary Clinton è stato attento, fin dall’inizio della crisi che ha colpito i diversi regimi arabi nel nord dell’Africa e in Medio Oriente, nell’incalzare le autorità costituite ad accettare le richieste di riforma che arrivavano dalle piazze in rivolta, senza mai sconfessare direttamente i governanti in carica.  La prudenza adottata dalla Clinton ha permesso agli Stati Uniti di cavalcare da un lato l’idealismo della rivolta, rimanendo saldamente ancorati a una politica improntata al realismo, necessaria per proteggere gli interessi americani nella regione.

La rivoluzione in corso nei paesi arabi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente è partita il 17 dicembre 2010, quando Mohamed Bouazizi un ambulante tunisino si è dato alle fiamme per protestare contro un’ingiustizia subita.  Gli eventi scaturiti dal sacrificio di Bouazizi hanno portato prima alle dimissioni a metà gennaio 2011 di Zine el-Abidine Ben Ali, al potere da ventiquattro anni, e, infine, a fine febbraio, alle manifestazioni giornaliere da parte di migliaia di tunisini che chiedono le dimissioni del governo provvisorio, guidato da Mohamed Ghannouchi.  Le possenti proteste popolari in Egitto dal 25 gennaio 2011 hanno portato alle dimissioni di Hosni Mubarak due settimane più tardi, l’11 febbraio 2011.  Cinque giorni dopo, il 16 febbraio 2011, le masse popolari in Libya chiedono la fine della dittatura di Muammar Gheddafi, che dura da oltre quaranta anni.  Gheddafi in questi giorni è in seria difficoltà, e non è ancora certa quale piega prenderà la protesta della piazza.  Le proteste in Giordania e in Bahrein hanno avuto, almeno per il momento, conseguenze meno drammatiche per il potere costituito, perché le autorità hanno immediatamente aperto canali per dialogare con la piazza, in parte seguendo i consigli della Casa Bianca.

La politica estera americana dovrà sviluppare una strategia capace di prendere in considerazione il rapido cambiamento degli scenari nella regione anche per quanto riguarda gli interessi strategici dei partner europei.  Molti paesi del vecchio continente sono legati a doppio filo con i regimi arabi, sia per gli enormi investimenti finanziari arabi in Europa, sia per le commesse delle imprese europee nei paesi arabi.  E’ di vitale importanza per l’Europa assicurarsi anche uno stabile approvvigionamento di petrolio e gas dai paesi oggi al centro delle rivolte popolari.  Gli europei sono anche particolarmente preoccupati per gli eventuali arrivi in massa di tantissimi immigrati in fuga dai paesi in rivolta.  Qualsiasi intervento americano a sostegno delle masse arabe in rivolta potrebbe suscitare un’irritazione molto forte da parte degli alleati europei.
Il direttore di Time e commentatore della Cnn, Fareed Zakaria avverte che Obama non potrà rimanere a lungo affacciato alla finestra, in attesa degli eventi.  Per Zakaria, “l’amministrazione deve formulare una strategia che si adegui a questo storico change”, lo dovrà fare al più presto.

Obama licenzia McChrystal e chiama Petraeus

Anthony M. Quattrone

President Obama, with Vice President Joseph R. Biden Jr., Gen. David H. Petraeus and Secretary of Defense Robert M. Gates, announced his removal of Gen. Stanley A. McChrystal as the top commander in Afghanistan on Wednesday and his appointment of Gen. Petraeus to lead the war effort there. Doug Mills/The New York Times

Il presidente Barack Obama ha licenziato il 23 giugno 2010 il generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe Usa e alleate in Afghanistan, e l’ha rimpiazzato con il suo diretto superiore, il generale David H. Petraeus, per condurre una guerra che ormai va avanti da ben nove anni.  Obama ha punito McChrystal per le spregiudicate dichiarazioni che il generale e il suo staff hanno rilasciato alla rivista americana Rolling Stone, normalmente specializzata in fatti musicali, in cui hanno criticato, senza mezzi termini, membri dell’amministrazione Obama, alcuni senatori, e anche qualche governante di paesi alleati, suscitando irritazione ai massimi livelli sia negli Usa, sia fra gli alleati.

Il generale Petraeus, per contro, è considerato l’artefice della strategia militare americana, denominata “surge” (ondata o rinforzi) che ha stabilizzato l’Iraq nel 2008, permettendo il successivo ritiro del grosso delle forze americane dal Paese.  Petreaus è stimato per il suo approccio razionale e metodico nella conduzione di operazioni militari, e per la capacità di rimanere calmo e rispettoso delle autorità civili, anche dinanzi ad attacchi pubblici, che rasentano la diffamazione, come quando nel settembre del 2007 testimoniò dinanzi al Congresso per spiegare la sua strategia militare in Iraq, e alcuni gruppi della sinistra democratica giocarono sul suo nome, trasformando la fonetica in “Betray us”, overro, “tradiscici”. Leggi tutto

E’ sempre più gelo fra Netanyahu e Obama

Dopo l’incidente navale davanti a Gaza, il rapporto tra i due leader si è compromesso. Il nodo Turchia.

US President Barack Obama (R) speaks with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu (L) in New York in 2009. (AFP/File/Jim Watson)

Anthony M. Quattrone

L’incontro che si doveva tenere il primo giugno alla Casa Bianca fra il presidente americano, Barack Obama, e il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, era stato organizzato da Rahm Emanuel, il capo di stato maggiore del presidente americano, durante una recente visita privata in Israele, per ricucire le differenze fra americani e israeliani, e per migliorare i rapporti personali fra i due leader.  Emanuel, che è ebreo e aveva prestato servizio volontario civile per l’esercito israeliano lavorando come meccanico durante la prima guerra del golfo, era riuscito a convincere Netanyahu a fermarsi a Washington, per un breve incontro con Obama, alla fine del viaggio programmato in Canada.

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, right, shakes hands with White House Chief of Staff Rahm Emanuel, during their meeting in Jerusalem, Wednesday, May 26, 2010. President Barack Obama's chief of staff invited the Israeli prime minister to the White House , after Prime Minister Benjamin Netanyahu's previously scheduled visit to Canada. Emanuel was in the country on a private visit. (AP Photo/Sebastian Scheiner, Pool)

L’incontro fra i due leader è saltato a causa dell’incidente navale del 31 maggio 2010, quando, in acque internazionali, la marina militare israeliana ha abbordato sei imbarcazioni che trasportavano aiuti umanitari a Gaza, per conto di un’organizzazione non governativa turca, uccidendo diversi passeggeri e ferendone molti altri sulla nave turca Mavi Marmara, nel corso di un’impacciata operazione militare, non esattamente in linea con la nota efficienza e precisione dei reparti speciali israeliani.

Secondo una versione ufficiale, Netanyahu è ritornato immediatamente in patria per gestire la crisi e secondo altre versioni non ufficiali ma altrettanto verosimili, Obama sarebbe estremamente irato nei confronti del premier israeliano.

La dimensione psicologica dei due leader, i problemi che affrontano nella politica nazionale dei rispettivi paesi, e la crisi dei rapporti con la Turchia crea un intreccio di variabili da cui possono nascere delle traiettorie alquanto inquietanti per quanto riguarda la risoluzione del problema palestinese, considerata da autorevoli strateghi, come il generale americano David Petraeus, una delle questioni fondamentali nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica. Leggi tutto l’articolo

Terrorismo: Obama fra sicurezza e libertà

Anthony M. Quattrone

An image of terror suspect Faisal Shahzad is seen on a screen during a press conference at the US Justice Department in Washington, DC, on May 4. The United States charged for the first time that the Pakistani Taliban was behind a Pakistani-American's failed attempt to detonate a car bomb in the heart of New York City. (AFP/File/Jewel Samad)

Sembrerebbe che uno degli obiettivi principali del terrorismo internazionale sia quello di mettere in crisi l’equilibrio che, nel corso della loro storia, gli americani sono riusciti a creare fra sicurezza e libertà. Dagli eventi del settembre 2001 ad oggi, ogni attacco all’America crea nell’americano medio la disponibilità nel sacrificare alcune libertà in cambio di più sicurezza. L’evento del primo maggio a New York, dove un cittadino naturalizzato americano, nato in Pakistan, Faisal Shahzad, ha cercato di far saltare in aria una Nissan Pathfinder del 1993, imbottita di esplosivi in modo amatoriale, nel cuore della Grande Mela, a pochi passi da una Times Square strapiena di turisti, ha fatto tornare alla ribalta l’apparente dicotomia fra libertà e sicurezza.

E’ strano che proprio in questa circostanza, dove in appena 53 ore le autorità hanno arrestato il presunto attentatore, gli americani possano lasciarsi condizionare da chi propone nuove misure di sicurezza che limiterebbero ulteriormente le libertà individuali dei cittadini. I terroristi otterrebbero, di fatto, una “vittoria collaterale” se riescono a spaventare il cittadino medio, mettendolo alla mercé di chi vuole limitare ulteriormente le libertà individuali. Anche in questo caso, i terroristi, attraverso un attentato fallito, come quello dello scorso dicembre, quando un altro dilettante, Umar Faouq Abdulmuttalab, ha cercato di farsi esplodere sul volo natalizio da Amsterdam a Detroit, potrebbero ottenere una vittoria collaterale. Leggi tutto l’articolo