I primi cento giorni di Obama

Popolarità ai massimi storici per il presidente americano

President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young
President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

I primi cento giorni della presidenza di Barack Obama sono stati caratterizzati dalla frenetica attività del giovane presidente e di tutto il suo governo, nel portare avanti un programma di cambiamento nella politica americana. La data dei primi cento giorni non ha nessun riferimento legale o istituzionale in America, ma è diventato un punto di riferimento per comprendere lo stile, e per tracciare alcune traiettorie che andranno a caratterizzare i rimanenti tre anni e nove mesi di un primo mandato presidenziale.

E’ con la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che gli americani sentirono parlare, per la prima volta, dei “primi cento giorni” di una presidenza, perché il nuovo presidente, proprio all’inizio della sua amministrazione, lanciò un rilevante numero di nuovi programmi, particolarmente audaci, per risollevare l’America della Grande Depressione. Roosevelt, come Obama oggi, si trovò ad affrontare una forte crisi bancaria ed un’enorme massa di americani senza lavoro. Nel caso di Roosevelt, però, il periodo dei cento giorni non partì con l’inaugurazione del 20 gennaio 1933, ma dall’inizio del mese di marzo e si concluse a metà giugno. Gli storici dibattono ancora sulla reale utilità delle misure economiche attuate da Roosevelt, ma nessuno nega l’importanza dello stimolo psicologico che l’attivismo presidenziale creò, e che, senza dubbio, aiutò il paese a risorgere.

Solo il presidente Ronald Reagan, nei primi cento giorni della sua presidenza, dal 20 gennaio al 29 aprile 1981, riuscì ad eguagliare Roosevelt nell’implementare un radicale cambio di rotta, tale da risollevare il paese dalla stagnazione, che si manifestava non solo in campo economico, ma forse anche in quello militare, con riflessi nella politica estera. Nell’arco dei primi 100 giorni, Reagan riuscì a far approvare dal Congresso il taglio delle tasse, nuove priorità di spesa, e una generale capitalizzazione del bilancio della difesa. Molti opinionisti americani attribuiscono a Reagan il merito di un lungo periodo di crescita dell’economia americana, e anche lo sgretolamento dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia.

Obama, come Roosevelt 76 anni fa, cerca di riformare il capitalismo americano per salvarlo, non per sovvertirlo. Secondo il professor Allan Lichtman dell’American University, “Obama ha attuato grandi cambiamenti, ma sempre all’interno del normale arco conservatore-progressista. Si, il pendolo è oscillato, ma dalla corrente principale conservatrice, a quella principale del liberalismo”. Obama non ha nazionalizzato le banche, ma ha negoziato l’acquisto dei loro titoli “tossici”. Obama non cerca di sostituire le assicurazioni mediche private con un’assicurazione governativa, ma cerca di mettere proprio le assicurazioni al centro del nuovo piano che dovrebbe garantire a tutti gli americani la copertura sanitaria. E anche sulla questione delle tasse, Obama non vuole alzare le tasse per il 95 percento degli americani, ma solo per il 5 percento, riportandoli alle quote pagate quando era presidente il repubblicano, idolo dei conservatori, proprio Ronald Reagan.

Secondo William Galston, un ricercatore della Brookings Institution, un ex collaboratore del presidente democratico Bill Clinton, “Obama è un Reagan con il segno negativo”. Per il ricercatore, oggi Obama “sta tentando di disfare e annullare il reaganismo e Reagan stesso”, così come Reagan tentò di smontare completamente il sogno del presidente democratico Lyndon B. Johnson, di creare una “Grande Società” americana, finanziata dal governo. In pratica, Obama sta cercando di invertire un detto di Reagan, che stabiliva che “il governo non è parte della soluzione, ma è il problema”. Oggi, anche per molti conservatori americani, con l’eccezione dei liberisti puri, il governo non è il problema, ma è necessariamente l’ancora di salvezza dell’economia. Le differenze fra conservatori e liberal riguardano, semmai, più il grado dell’intervento governativo, ma non dell’intervento stesso. Leggi tutto l’articolo

La sicurezza nazionale Usa e la tortura

Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press
Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press

Pubblicata la corrispondenza segreta che autorizzava la tortura

Anthony M. Quattrone

L’American Civil Liberties Union aveva chiesto ufficialmente al governo americano di rendere pubblica la corrispondenza segreta dell’amministrazione del presidente George W. Bush riguardante l’uso di metodi di interrogazione particolarmente duri, che erano stati autorizzati a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.  Il presidente Barack Obama, ha dato l’autorizzazione, il 16 aprile 2009, per la pubblicazione della corrispondenza relativa alle opinioni legali espresse dal ministero della giustizia nel 2005.

Dopo la pubblicazione della corrispondenza, politici, giornalisti, funzionari governativi, militari, ex agenti della Cia, opinionisti, e semplici cittadini stanno partecipando in un ampio dibattito che si sta sviluppando attraverso tutti gli organi d’informazione, nelle università, e nelle istituzioni dello Stato, scatenando passioni estreme sia a destra, sia a sinistra.  A destra si accusa il presidente di aver danneggiato la sicurezza del paese attraverso quest’atto di trasparenza.  A sinistra, Obama è accusato di complicità con chi ha ordinato ed eseguito interrogatori che rasentano la tortura, perchè si rifiuta, per il momento, di prendere iniziative legali nei confronti di alcuni membri della precedente amministrazione di George W. Bush, e, in particolare, contro i più alti funzionari degli organismi della sicurezza.

La polemica sulla divulgazione della corrispondenza della Cia e sulla punibilità di chi ha ordinato ed eseguito gli interrogatori che oggi sono sotto accusa, non riesce però a mettere in secondo piano un dibattito ancora più importante sul rapporto fra valori e sicurezza.  Sono molti gli americani che si chiedono se la necessità di garantire la sicurezza nazionale può essere usata come motivo per violare alcuni valori basilari della cultura americana, come la ripugnanza per ogni forma di tortura e il rispetto per la dignità umana, anche per quella del peggiore nemico degli Usa.

L’apparente dicotomia fra sicurezza nazionale e il concetto di stato di diritto è evidenziato in tutti i dibattiti in corso.  Da un lato ci sono i rappresentanti dell’amministrazione Bush, come l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, e l’ex ministro della giustizia, Michael B. Mukasey, i quali hanno sottolineato in un articolo scritto per il Wall Street Journal del 17 aprile 2009, intitolato “Il presidente si lega le mani sul terrore”, che i metodi adottati per gli interrogatori erano legittimi e hanno funzionato.  Il capogruppo repubblicano della Camera, John Boehner, ha dichiarato che la pubblicazione della corrispondenza sui sistemi d’interrogatorio è stata fatta senza prendere in considerazione quanto ha compiuto il governo Bush per rendere sicuro il paese, e che Obama farebbe bene a concentrarsi su come continuare a tenere l’America sicura.  L’ex vice presidente Dick Cheney, uno dei fautori dell’uso di metodi d’interrogatorio duri, afferma che proprio attraverso l’uso di questi interrogatori, l’America è riuscita ad ostacolare i piani dei terroristi di Al Qaeda per effettuare altri attacchi sul territorio Usa.

Dall’altro lato, ci sono i deputati e i senatori democratici che vogliono aprire inchieste proprio su come il governo Bush sia arrivato alla decisione di autorizzare metodi d’interrogatorio che rasentano, a loro dire, la tortura.  La senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha dichiarato che la sua commissione, quella dell’Intelligence, ha già iniziato un’indagine a tale proposito.  Alcuni membri del Congresso vorrebbero la creazione di una “Truth Commission” (una commissione verità), per portare alla luce sia la procedura decisionale, sia le fondamenta legali su cui si sono basate le autorizzazioni date alla Cia e ad altri organismi che hanno partecipato negli interrogatori di prigionieri sospettati di essere terroristi. Leggi tutto l’articolo

Stati Uniti e Messico contro i narcos

Obama sostiene la lotta di Calderón

President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)
President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)

Anthony M. Quattrone

Con la canzone “South of the Border” (A sud della frontiera) del 1939, resa famosa nella versione di Frank Sinatra nel 1953, e con cartoni animati come Speedy Gonzales (il “topo più veloce del Messico”), due o tre generazioni di americani sono cresciute con un’immagine molto romanzata, e poco veritiera del Messico.  La città di Tijuana, oltre il confine fra la California e il Messico, era famosa già negli anni venti, in pieno proibizionismo, ed erano tantissimi gli americani che passavano weekend edonistici “south of the border”, dove si poteva bere alcol e giocare nei famosi casinò come l’Agua Caliente.  Nell’immaginario collettivo americano, il Messico ha rappresentato, o forse rappresenta ancora per alcuni, una dimensione più umana e “lenta” del vivere quotidiano, dove pane, amore, e fantasia regnano, e la frenesia della vita moderna passa in secondo ordine.

La notizia, riportata con grande risalto dalla stampa Usa, che circa 11 mila persone sono state uccise in Messico dal dicembre 2006 ad oggi a causa della guerra fra bande di trafficanti di droga per il controllo del mercato Usa, e fra queste bande e le forze di sicurezza messicane, sta portando alla luce la dura realtà a sud della frontiera.  Il presidente Barack Obama si è fermato ieri a Mexico City, in occasione del viaggio verso Trinidad e Tobago, dove si svolgerà oggi il quinto Summit delle Americhe, per incontrare il presidente messicano Calderón, e manifestargli il suo appoggio nella lotta contro i cartelli della droga.  Prima di partire, Obama ha preso diverse iniziative per mostrare il suo sostegno a Calderón.  Il presidente ha nominato Alan Bersin, un ex procuratore federale, al ruolo di “zar” della frontiera, dove avrà il compito di lavorare con le autorità messicane per controllare meglio la lunga e porosa frontiera fra i due paesi.  L’amministrazione Obama ha aggiunto i cartelli di Sinaloa, Los Zetas, e La Famiglia Michoacana, alla lista di pericolose organizzazioni criminali internazionali coinvolte nel traffico di narcotici.  Con quest’atto formale, il governo americano potrà sequestrare conti bancari e proprietà di questi cartelli negli Usa, o delle persone a loro legati.

E’ interessante notare che, mentre fino a qualche tempo fa, erano gli americani che chiedevano di rendere la frontiera meno permeabile, cercando di impedire l’arrivo di milioni di immigranti illegali dal Messico e fiumi di droga provenienti dall’America Latina, ora sono le autorità messicane che chiedono più controlli per impedire l’afflusso di armi americane, che finiscono per rinforzare gli apparati paramilitari dei cartelli della droga.

Secondo un articolo dell’International Herald Tribune del 15 aprile, che cita fonti del ministero della giustizia Usa, novanta percento delle 10 mila armi che sono state sequestrate in Messico l’anno scorso, proviene dagli Stati Uniti, particolarmente dall’Arizona, dal Texas, e dalla California.  In molti casi, le armi sequestrate sono di qualità superiore a quelle in dotazione alle stesse forze armate messicane, e sono, ovviamente, impiegate dai cartelli della droga. Leggi tutto l’articolo

Per Obama (e Gates) la sfida più insidiosa

Il presidente contro la lobby militare Usa

Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)
Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)

Anthony M. Quattrone

La razionalizzazione del bilancio di previsione per il Dipartimento della difesa americano per il prossimo anno fiscale, che negli Usa inizia il primo ottobre, sarà una nuova ardua sfida per il presidente Barack Obama.  E’ in corso un durissimo braccio di ferro fra il Segretario della difesa, Robert Gates, e le potenti lobby che rappresentano gli interessi dell’immenso apparato industriale – militare, le quali, in America, hanno la capacità di influenzare, attraverso vari meccanismi, trasparenti e non, l’intera procedura decisionale concernente la sicurezza nazionale.

Se da un lato, Gates cerca di creare una concordanza fra le reali necessità del Dipartimento della difesa e le voci di spesa, dall’altro, le lobby cercano di influenzare le decisioni attraverso una campagna d’informazione nei confronti dell’opinione pubblica utilizzando due temi particolarmente sensibili e correnti in questo momento: la sicurezza nazionale e la difesa dei posti di lavoro.  Il Segretario Gates parte in svantaggio nel portare avanti la razionalizzazione, perché, da un punto di vista istituzionale, non è l’esecutivo, di cui fa parte, bensì il legislativo che controlla le stringhe della borsa della spesa.  Pertanto, negli Usa, quando le lobby trovano ostacoli nel convincere i militari a fare alcune spese, come l’acquisizione di sistemi d’arma totalmente inutili, cercano di influenzare i membri del Congresso che alla fine dovranno approvare il bilancio.  E così, anche un progetto molto analitico e razionale, proposto dai vertici delle forze armate, potrebbe essere svilito attraverso delle “earmarks” (“segnalibri”), apposti da deputati e senatori, direttamente influenzati dalle lobby.

Gates vorrebbe ridurre la spesa per quegli armamenti che sono necessari per combattere guerre di tipo convenzionale, e aumentare, invece, la capacità dei militari americani nell’affrontare le forze e le tattiche di combattimento non convenzionali, come quelle utilizzate in Afghanistan ed in Iraq.  Nel tentativo di razionalizzare la spesa, Gates ha proposto, per esempio, di ridurre la commessa per il caccia F-22, dall’attuale previsione di 381 esemplari a 187, che costano circa 80 milioni di euro cadauno, non solo per rendere disponibili più risorse per acquistare armamenti necessari per la guerra non convenzionale, ma anche perché è già in corso la produzione del caccia F-35, più moderno ed economico dell’F-22.  La decisione di Gates è stata immediatamente contrastata dai membri del Congresso eletti in Georgia, dove la produzione dell’F-22 crea occupazione per due mila lavoratori.  Il deputato repubblicano della Georgia, Tom Price, ha dichiarato che “questa decisione causerà non solo la perdita di migliaia di posti di lavoro durante un periodo critico, ma danneggia anche le risorse a disposizione per la difesa nazionale”. Il senatore repubblicano della Georgia, Saxby Chambliss è dell’opinione che “l’amministrazione Obama è disposta a sacrificare le vite dei militari americani pur di finanziare programmi domestici sostenuti dal presidente”.  Il deputato democratico della Georgia, Ike Skelton, presidente della Commissione difesa della Camera, fa quadrato con i colleghi repubblicani del suo stato, indicando che in ultima analisi sarà il Congresso, e non il Dipartimento della difesa, che dovrà decidere sulla spesa.  In breve, la riforma del bilancio della Difesa è una strada tutta in salita per l’amministrazione Obama. Leggi tutto l’articolo

Af-Pak, nuova strategia americana

Obama non esclude l’uso della forza in Asia centrale

U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs
U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs

Anthony M. Quattrone

E’ noto che gli americani adorano creare acronimi ogni volta che possono abbreviare un titolo troppo lungo, o anche quando hanno difficoltà nel pronunciare qualche parola con troppe sillabe. Qualche volta un acronimo serve anche per creare nuovi slogan, parole d’ordine, o per ripresentare qualcosa di vecchio con un nome diverso.

Il presidente americano Barack Obama usa l’acronimo Af-Pak per designare la zona geografica che comprende l’Afghanistan ed il Pakistan, e ha designato il diplomatico di carriera, l’ambasciatore Richard Holbrooke, come suo speciale rappresentante per quella zona. Nel creare l’acronimo Af-Pak, la nuova amministrazione Usa focalizza la sua politica contro il terrorismo internazionale proprio sul rapporto stretto che c’è fra i due paesi che condividono una frontiera tanto lunga, quanto permeabile, creando una visione d’indivisibilità dei loro destini.

E così, i cittadini americani sentiranno sempre di più i commentatori televisivi e radiofonici parlare di Af-Pak, e leggeranno sui giornali quest’acronimo, perché è l’intenzione di Obama portare la guerra contro il terrorismo proprio nell’Af-Pak, con molta più forza di quanto abbia fatto il suo predecessore. La novità della strategia di Obama è che il presidente sembrerebbe non escludere la possibilità che le forze Usa dislocate in Afghanistan potrebbero, se necessario, sconfinare all’interno del Pakistan per dare la caccia ad al Qaeda, e che, nel frattempo vanno moltiplicati tutti gli interventi per catturare la simpatia degli afgani e dei pakistani attraverso iniziative che mirano direttamente a migliorare le condizioni di vita di entrambi i popoli. Secondo il piano del presidente, un primo intervento prevede che centinaia di consiglieri civili (esperti in agricoltura, didattica, legge, ecc.) partiranno per l’Afghanistan proprio per lavorare sul miglioramento delle condizioni di vita del popolo.

L’amministrazione Obama accusa il precedente governo del presidente George W. Bush, di essersi fatto distrarre dalla questione irachena, completamente sottovalutando la situazione nell’Af-Pak. Per molti osservatori Usa, la decisione di trasferire il grosso delle truppe e delle risorse americane dall’Afghanistan all’Iraq, dal 2003 in poi, ha permesso ai Taleban di riconquistare territori lungo il confine Af-Pak, causando il graduale, ma costante deterioramento della situazione nell’Afghanistan, ricreando una condizione favorevole alla guerriglia contro il governo del paese, e permettendo anche il rafforzamento della presenza di al Qaeda oltre il confine.

L’amministrazione Obama vorrebbe affrontare in modo decisivo la questione Af-Pak, con un approccio che abbini l’uso della forza militare in combinazione con massicci interventi nel campo civile. Il 27 marzo 2009, Obama ha annunciato l’invio d’altri 4.000 militari in Afghanistan, in aggiunta ai 17 mila già pianificati a febbraio, per “sconvolgere, smantellare, e sconfiggere” la rete di al Qaeda in Afghanistan ed in Pakistan e per “prevenire il ritorno dei terroristi in entrambi i paesi nel futuro”. Le nuove truppe dovrebbero addestrare la polizia e le forze armate afgane, con l’intento di creare le condizioni per aumentare il numero dei militari afgani dalle 83.000 unità di oggi, a 134.000 entro la fine del 2011. Leggi tutto l’articolo

L’America dichiara guerra agli eccessi

Il nuovo corso di Obama alla Casa Bianca

 

President Barack Obama speaks during a news conference, Tuesday, March 24, 2009, in the East Room of the White House in Washington. (AP Photo/Ron Edmonds)
President Barack Obama speaks during a news conference, Tuesday, March 24, 2009, in the East Room of the White House in Washington. (AP Photo/Ron Edmonds)

 

Anthony M. Quattrone

L’attuale crisi economica sta portando alla superficie alcune contraddizioni interne alla società americana, legate direttamente alla cultura dell’eccesso, che potrebbero portare ad una crisi culturale e strutturale di portata storica, se non sono risolte in modo soddisfacente. Lo scandalo degli eccessi legati agli stipendi milionari di quei manager, che, apparentemente, hanno portato allo sfascio le maggiori imprese finanziarie americane, è costantemente all’attenzione dell’opinione pubblica americana.

Sarà interessante vedere come la leadership americana, intesa in senso lato, riuscirà a trovare un nuovo equilibrio fra diritti civili e solidarietà, da un lato, e iniziativa privata e merito dall’altro.

La cultura dominante in America, quella del cosiddetto “mainstream”, è anche il risultato della mediazione costante fra questi quattro concetti. La mediazione culturale realizza sia nella politica, sia nella vita di tutti i giorni, un equilibrio fra la necessità di garantire i diritti civili e la solidarietà, alla base della stessa cultura democratica americana, d’ispirazione giudaico-cristiana, e la promozione dell’iniziativa privata e del merito, caratteristiche specifiche del pensiero cristiano-protestante, e considerate centrali per l’avanzamento della società americana. E’ durante un periodo di crisi economica particolarmente grave, come quella in atto, che l’equilibrio fra diritti civili e solidarietà da un lato, e iniziativa privata e merito dall’altro, è messo duramente alla prova, mettendo in crisi lo stesso modello di vita americano.

La differenziazione politica fra democratici e repubblicani, fra liberal e conservatori, non sempre segue traiettorie facilmente rintracciabili nei quattro concetti, e, spesso, le differenze sono sfumature piuttosto che vere contrapposizioni. E’ difficile trovare in America un movimento di dimensione nazionale che non ha al suo interno chi abbraccia posizioni che sembrerebbero contraddittorie dal punto di vista della contrapposizione, per esempio, fra gli interessi legati alla solidarietà e quelli legati al merito. E’ facile trovare nella destra americana chi spinge per un liberismo puro, mentre propone misure private per aiutare chi è in difficoltà. E a sinistra c’è chi legifera la solidarietà con fondi pubblici, con decreti a protezione delle entrate economiche per i più deboli, mentre favorisce politiche economiche legate al liberismo più sfrenato. La mancanza di partiti ideologici in America porta all’affievolirsi delle differenze fondamentali fra i partiti per quanto riguarda i concetti generali su cui si fonda il paese, mentre, di volta in volta, è probabile che, durante particolari momenti storici, gli accenti su un tema concernente i diritti civili, la solidarietà, l’impresa privata, o il merito possono prendere il sopravvento nel paese, creando nuovi equilibri.

L’iniziativa privata e il concetto del merito hanno ripreso vigore in America negli anni ottanta con la presidenza repubblicana di Ronald Reagan, alle volte mettendo in dubbio anche alcuni diritti sociali e di solidarietà acquisiti nei cinquanta anni precedenti. Neanche Bill Clinton, l’unico democratico eletto dopo la presidenza Reagan, è riuscito a riportare l’accento del paese sui diritti e la solidarietà, anche perchè il generale benessere creato dalla favorevole congiuntura economica durante la sua presidenza, creava meno richieste di solidarietà. Con l’avvento del repubblicano George W. Bush alla presidenza nel 2001, l’impresa privata ha potuto godere di una presenza benevola alla Casa Bianca, sia per le politiche fiscali favorevoli all’impresa e ai grandi investitori, sia per le aperture nei confronti dell’impresa privata, anche in quei settori che prima erano di specifica competenza dello Stato, come nel caso della privatizzazione di alcune attività delle forze armate. Leggi tutto l’articolo

Hillary Clinton a Bruxelles: L’Europa è un partner essenziale

Diana De Vivo (da Bruxelles)

Tempi duri per l’Amministrazione statunitense, tempi in cui al centro dell’Europa si percepisce l’esigenza di una partnership globale. Tempi di programmazione, di priorità politiche, di rinsaldare nuovi legami, di rispondere prontamente alle nuove sfide.

“Stringenti i tempi, altrettanto imponenti le sfide” ha ribadito il Segretario di Stato americano Hillary Clinton nel corso dell’incontro informale tenutosi il 5 ed il 6 Marzo a Brussels con Javier Solana, Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, Benita Ferrero-Waldner, Commissario europeo per le Relazioni Esterne, Karel Schwarzenberg, Ministro degli esteri della Repubblica Ceca, a cui è attualmente assegnata la Presidenza dell’Unione e Carl Bildt, Ministro degli esteri svedese, paese che presiederà l’Ue a partire da Luglio.

La Clinton ha confermato che il Presidente Obama parteciperà al Summit informale tra Stati Uniti e Ue previsto per il 5 Aprile a Praga: “President Obama and I intend to energise the transatlantic relationship and to promote a strong European Union”, afferma il Segretario di Stato, “the EU is a union of friends and allies, we derive strength from each other.”

Il Summit US-UE seguirà il meeting del G20 che si terrà a Londra il 2 Aprile 2009 e la celebrazione del 60° anniversario della NATO prevista per il 3 ed il 4 Aprile a Strasburgo, in Francia, ed a Kehl/Baden-Baden, Germania.

Schwarzenberg ha ribadito che durante il Summit di Praga ci si confronterà sulle seguenti priorità: Afghanistan, sicurezza energetica, cambiamenti climatici, Balcani e l’area che si estende dal mediterraneo al Mar Caspio.

A distanza di un mese dall’European Sustainable Energy Week (9-13 Febbraio 2009), in cui l’Unione ha evidenziato le linee guida in materia di cambiamenti climatici ed energia sostenibile per il 2020 (Pacchetto Clima/Energia), che prevedono una riduzione delle emissioni di CO2 del 20%, il 20% di risparmio energetico ed il 20% di energie rinnovabili, l’Amministrazione statunitense, promotrice di un nuovo “green deal”, non sembra bypassare tali obiettivi, in netta controtendenza con le politiche implementate dai predecessori.

“My Presidency will mark a new chapter in America’s leadership on climate change”, annunciò Obama durante un Summit sui cambiamenti climatici tenutosi in California, prediligendo quale Segretario per la politica energetica Steven Chu, premio Nobel per la Fisica nel 1997, e direttore del Lawrence Berkeley National Laboratory, leader nel campo della ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili, tra cui la biomassa e l’energia solare.

“Tra gli Usa è l’Europa è necessaria una cooperazione ad alto livello. Io ed il Presidente Obama intendiamo ravvivare le relazioni transatlantiche e promuovere un’Europa forte, poichè un’Europa forte è un partner forte per gli Usa”, ha sostenuto la Clinton.

Sul fronte NATO il Segretario di Stato Usa ha ben più di una volta ribadito l’esigenza di un coordinamento nei differenti scenari sensibili, quali Afganistan, in cui è presente la missione europea EUPOL e Kosovo, in cui l’EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) è succeduta, dopo 9 anni, alla missione promossa dalle Nazioni Unite (UNMIK).

Non sottovalutato, nel quadro delle relazioni internazionali, il ruolo della Russia: “Lavoreremo insieme per incoraggiare la Russia a svolgere un ruolo costruttivo sul piano internazionale” hanno affermato di concerto la Clinton e Schwarzenberg, delineando un approccio non dissimile nei confronti dell’Iran, “un approccio determinato, coordinato, multilaterale”.

“Europe and the United States are united in a shared vision of the kind of future that we hope to realise.” A dispetto della crisi economica che ha spinto il mondo in una spirale recessiva, “Europe has never been more prosperous and secure”, ribadisce la Clinton. Ed ha aggiunto: “I’m confident that we are up to the task” “we don’t have a choice: we have to come together”.

Lontani anni luce dal dilemma del prigioniero, la cooperazione e la fiducia reciproca sono l’innegabile presupposto di un approccio multilaterale durevole.

Accountability: Obama all’attacco del malcostume

Lo scandalo dei bonus pagati ai manager della AIG

A protestor takes part in a rally in front of an American International Group (AIG) office calling on Congress to take action on employee free choice, health care, and banking reform in Washington, March 19, 2009. REUTERS/Jim Young
A protestor takes part in a rally in front of an American International Group (AIG) office calling on Congress to take action on employee free choice, health care, and banking reform in Washington, March 19, 2009. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è in prima linea nella battaglia per assicurare che la società americana torni a mettere di nuovo in primo piano il principio della “accountability”, un termine inglese che si può tradurre con la parola “responsabilità,” ma il cui significato più preciso è caratterizzato dal connotato della trasparenza, e dal mantenimento degli impegni, specialmente da parte di chi ricopre una posizione di rilievo o di potere in una organizzazione.  In breve, accountability significa rendere conto del proprio operato.

Obama ha invitato, fin dal giorno del suo insediamento, i responsabili della pubblica amministrazione a tenere un comportamento in linea con il principio della accountability.  Il presidente ha ugualmente chiesto agli imprenditori e ai manager delle grandi imprese, specialmente quelle che avevano richiesto e ricevuto danaro pubblico per affrontare la crisi economica, di tenere comportamenti caratterizzati dall’accountability.  Nel caso dei bonus che l’American International Group (AIG) ha pagato pochi giorni fa ai suoi manager, pari a circa 165 milioni di dollari, utilizzando i fondi che il governo federale aveva messo a disposizione per evitare il suo fallimento, è venuto meno il principio della accountability.  Il cittadino medio americano si chiede com’è possibile che si possa premiare con un bonus di circa un milione di dollari ciascuno dei manager responsabili per la politica disastrosa della AIG, la quale oggi sopravvive solo grazie ai 170 miliardi di dollari che il governo federale ha iniettato nel colosso assicurativo per evitarne il fallimento.

La rabbia degli americani contro il comportamento del management della AIG si è manifestata a tutti i livelli, a partire dal cittadino comune, ed ha coinvolto anche i membri del Congresso, i quali hanno minacciato di tassare fino al 90 percento i bonus pagati ai manager responsabili della politica fallimentare dell’azienda.  Il presidente Obama ha dichiarato il suo totale disappunto, ed ha chiesto ai suoi collaboratori di verificare l’esistenza di eventuali meccanismi legali per recuperare i soldi che la AIG ha dato ai manager.  Dopo un’audizione dinnanzi al Congresso il 18 marzo 2009, il direttore esecutivo della AIG, Ed Liddy, ha dichiarato di aver chiesto ai manager che hanno ricevuto il bonus qualche giorno fa di restituirne la metà al governo federale.

In America, il principio dell’accountability, e il rispetto delle regole, ha unito coloro che vorrebbero più intervento dello Stato nell’economia, e quelli che vorrebbero applicare in modo intransigente la politica del laissez faire.   Lo sviluppo di un capitalismo responsabile ha permesso l’affermazione e l’egemonia dell’ideologia del libero mercato anche fra i lavoratori e i meno abbienti negli Stati Uniti.  Il primato della libera impresa e dell’iniziativa privata sono una componente fondamentale del modo di vita americano — in America nessuno mette in dubbio il ruolo dell’imprenditore ed il diritto di chiunque di cimentarsi nell’imprenditoria.  In America, arricchirsi è parte del sogno ed è motivo di vanto, quando si raggiunge il successo specialmente partendo da condizioni di povertà.   Il comportamento di finanzieri senza scrupoli, imprenditori fraudolenti, e manager corrotti ed incapaci sta mettendo in seria difficoltà la base stessa del capitalismo responsabile americano, una delle colonne portanti del sogno americano.

Obama, accusato durante la campagna elettorale di voler ridistribuire la ricchezza attraverso politiche socialiste di stampo europeo, si trova ora a dover difendere il libero mercato, mettendo in risalto la capacità degli americani di fare libera impresa.  Dopo aver proposto misure per salvare grandi imprese come la AIG, alcune banche, la Chrysler, la Ford e la General Motors, ora propone misure a tutela delle piccole imprese, per stimolare la base stessa del capitalismo americano.

La debacle dei pagamenti dei bonus ai manager fallimentari della AIG rischia di ridurre l’appoggio che Obama sta ricevendo dall’opinione pubblica americana nel portare avanti tutte quelle misure che servono per stimolare l’economia.  Obama ha recepito immediatamente il malcontento della popolazione a proposito dei bonus pagati ai manager della AIG.  Senza nascondersi dietro paraventi o provare a fare lo scaricabarile, semmai accusando altre istituzioni statali o cariche dello Stato, Obama si è assunto la responsabilità, in quanto presidente, anche se è in carica da soli due mesi, per non aver fatto di più nel controllare come la AIG intendesse spendere i fondi messi a disposizione dalla Federal Reserve e dal Tesoro.  Obama, con il suo comportamento, ha dato una dimostrazione pratica del comportamento etico, di un comportamento ispirato dal principio della accountability, dimostrando che qualcosa sta cambiando a Washington nel modo di fare la politica.

Pechino-Washington: incrocio pericoloso

Le gaffe di Hillary Clinton e l’aggressività cinese

Free Tibet activists march during a peace march rally in Tokyo, Japan, Saturday, March 14, 2009. The rally marks the 50th anniversary of the failed uprising against the Chinese rule in their homeland. (AP Photo/Itsuo Inouye)
Free Tibet activists march during a peace march rally in Tokyo, Japan, Saturday, March 14, 2009. The rally marks the 50th anniversary of the failed uprising against the Chinese rule in their homeland. (AP Photo/Itsuo Inouye)

Anthony M. Quattrone

Quando lo scorso 20 febbraio, il Segretario di stato americano, Hillary Clinton, dichiarò che le violazioni dei diritti civili da parte dei cinesi non dovevano impedire una fattiva collaborazione fra gli Stati Uniti e la Cina sugli altri temi, come la crisi economica globale, il cambiamento climatico, e sulle minacce alla sicurezza da parte di paesi come la Corea del Nord, molti attivisti nel campo dei diritti civili rimasero alquanto perplessi, se non totalmente sorpresi.  Amnesty International si è affrettata a ricordare alla signora Clinton che, “gli Stati Uniti sono fra i pochi paesi al mondo che possono affrontare la Cina sulla questione dei diritti umani”.  Secondo Amensty International, “il popolo cinese è in una situazione gravissima, con mezzo milione di persone che sono attualmente imprigionate in campi di lavoro, con molte donne obbligate ad abortire, e altre che sono sterilizzate per garantire la politica demografica cinese, che prevede solo un figlio a coppia”.

Il tempismo delle dichiarazioni della Clinton è stato particolarmente sfortunato, se si considera che nel 2009 ricorrono due anniversari molto significativi nel campo dei diritti civili e della libertà.  Il 10 marzo è stato il cinquantesimo anniversario della fallita rivolta del popolo tibetano, che nel 1959, fu schiacciato nel sangue da parte del cosiddetto “esercito di liberazione” cinese, portando poi all’esilio di Sua Santità il 14mo Dalai Lama.  Il prossimo 4 giugno sarà il ventesimo anniversario dell’eccidio di Piazza Tienanmen di Pechino, quando, nel 1989, centinaia, se non migliaia, di pacifici manifestanti cinesi furono massacrati dalle forze armate.  Due massacri a distanza di 30 anni l’una dall’altra, sono ancora oggi vivi nella memoria di tutti coloro che amano la libertà, la democrazia, e credono nell’autodeterminazione dei popoli.

Il governo americano ha voluto rimediare subito al malumore creato dalle dichiarazioni della Clinton, con due interventi che hanno scatenato una furibonda reazione da parte dei cinesi.  Il primo si riferisce al rapporto annuale pubblicato dal Dipartimento di Stato, sullo status dei diritti umani nel mondo.  Il documento, pubblicato il 25 febbraio 2009, firmato proprio da Hillary Clinton, come capo del Dipartimento di Stato, accusa la Cina di aver incrementato la repressione culturale e religiosa in Tibet ed in altre zone del paese, aumentando anche il numero degli arresti e degli abusi nei confronti di cittadini appartenenti alle diverse minoranze.  Per il Dipartimento di Stato, la situazione dei diritti umani in Cina è rimasta a livelli bassi, ed in alcune zone del paese è addirittura peggiorata.  Le autorità cinesi, secondo il rapporto, permettono uccisioni extragiudiziarie, l’uso della tortura, l’estorsione di confessioni dai prigionieri, e fanno anche largo uso di campi di lavoro, limitando il diritto alla privacy, il diritto di parola, di assemblea, di movimento, e di associazione.  Purtroppo, secondo quanto dichiara il Dipartimento di Stato Usa, la repressione cinese e la violazione dei diritti umani è aumentata proprio durante le Olimpiadi di Pechino, nell’agosto del 2008, ed anche alla fine dell’anno, in occasione di una petizione firmata sull’internet da ottomila cinesi, in cui si chiede l’ampliamento dei diritti di espressione. Leggi tutto l’articolo

Obama contro le lobby

Anthony M. Quattrone

U.S. President Barack Obama steps off Marine One as he lands on the South Lawn at the White House in Washington March 6, 2009. Reuters/Jim Young (United States)
U.S. President Barack Obama steps off Marine One as he lands on the South Lawn at the White House in Washington March 6, 2009. Reuters/Jim Young (United States)

Negl’ultimi venti anni, il concetto di outsourcing è diventato il paradigma vincente nei modelli organizzativi di moltissime ditte, le quali preferiscono affidare ad imprese in appalto tutte quelle funzioni che non fanno parte del cuore dell’organizzazione.

L’outsourcing è iniziato con semplici appalti di alcune funzioni sussidiarie all’impresa, come le pulizie, il facchinaggio, e gli altri servizi a basso livello di specializzazione, per poi occupare spazi sempre più vicini alle attività fondamentali dell’organizzazione, come la stessa contabilità, i servizi della segreteria, ed interi settori della produzione.  Con la globalizzazione, alcune funzioni in appalto ora sono addirittura dislocate in diverse parti del mondo, e non è affatto improbabile che il servizio informazioni di una ditta inglese si trovi in un paese asiatico, con operatori indiani che rispondono a richieste riguardanti un evento che si svolge a Londra.  E’ ancora presto per esprimere un giudizio finale sull’outsourcing come metodo di organizzazione dell’attività di un’azienda, ma, tuttavia, è innegabile che offre, almeno per un periodo iniziale, vantaggi economici immediati per l’impresa che lo utilizza.  Non è ancora certo che, nel lungo termine, la disintegrazione dell’identità di una ditta, e lo spezzettamento delle sue funzioni in tante parti, dove una componente tratta un’altra come un cliente, riesca a funzionare meglio di un sistema integrato, dove ogni componente fa parte della stessa organizzazione.  La dedizione e il senso di appartenenza dei dipendenti dell’impresa “principale” sono sicuramente messi sotto stress.

Gli impiegati statali americani, come quelli di tanti altri paesi, ed anche di alcune organizzazioni internazionali, vivono nel costante terrore che il loro lavoro, le attività che svolgono per i loro datori di lavoro, possano essere dati in appalto ad un’impresa privata, da un momento all’altro, nell’ottica dell’ottimizzazione dei processi produttivi e per garantire più efficienza nella spesa del denaro pubblico.  E’ diventato ormai molto comune per un impiegato americano lavorare al fianco di un lavoratore di una ditta in appalto nel svolgere mansioni che fino a venti anni fa erano di competenza esclusiva del dipendente federale.  Un po’ alla volta, o, in qualche caso anche dall’oggi al domani, “vacche sacre” del servizio pubblico, come le attività relative alla sicurezza nazionale, sono state date a ditte private.  In Iraq, le ditte appaltatrici di contratti governativi Usa sono riuscite anche ad ottenere contratti per svolgere lavori che rientrano, direttamente o indirettamente, nelle attività relative al combattimento.  La ditta Blackwater, responsabile per la difesa personale di alti dirigenti e funzionari del governo Usa a Baghdad, è forse il più eclatante esempio di un’organizzazione privata che entra nel territorio normalmente riservato alle attività di uno stato sovrano.

Durante gli anni della presidenza di George W. Bush, la frenesia di appaltare tutto quello che si poteva aveva preso il sopravvento nella programmazione della spesa del bilancio pubblico americano, specialmente nel Dipartimento della Difesa, riducendo sempre di più le attività svolte dai dipendenti federali.  In otto anni, la presidenza Bush aveva raddoppiato l’ammontare speso per gli appalti, raggiungendo quota 500 miliardi di dollari.  Il 4 marzo 2009, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha deciso di ribaltare la politica di Bush, ponendo severi limiti alla politica di outsourcing.  Obama ha dichiarato che è necessario “smettere di dare in appalto quei servizi che dovrebbero essere fatti dal governo, rendendo, nel frattempo, più accessibile il sistema degli appalti alle piccole imprese”. Leggi tutto l’articolo