Elezioni Usa: la base democratica ritorna in vita

Vice President Joe Biden at a rally in Tacoma, Wash., on the campus of the University of Washington - Tacoma on Friday, Oct. 8, 2010. (AP Photo/Ted S. Warren)

Anthony M. Quattrone

A tre settimane dalle elezioni di mid-term del 2 novembre 2010, repubblicani e democratici americani si danno battaglia per conquistare il voto degli indecisi.  Secondo il più recente sondaggio nazionale eseguito per ABC/Washington Post, i repubblicani hanno un vantaggio di circa sei punti percentuali sui democratici.  Questo vantaggio si è dimezzato rispetto a un mese fa, quando i repubblicani erano avanti di circa tredici punti percentuali.  Nelle elezioni di mid-term sono in palio tutti i 435 seggi per la Camera, trentasette dei 100 seggi del Senato, e trentanove delle cinquantaquattro cariche di governatore.  I repubblicani sono in testa alla Camera e per le cariche di governatore, mentre al Senato sembra che i democratici riusciranno a contenere i danni senza perdere la maggioranza.

Secondo i sondaggi locali, condotti in tutti i distretti elettorali, e in base alle tradizioni di voto, alla Camera i repubblicani possono contare di ottenere, con “certezza” 204 seggi, mentre 184 sono quelli “certi” per i democratici.  Trentanove seggi sono “in bilico”, dove i sondaggi rilevano che non è ancora possibile indicare una previsione di voto.  Su questi seggi si convoglierà l’interesse degli apparati dirigenti dei due partiti, incanalando enormi risorse finanziarie per conquistare sia gli elettori indecisi, sia per convincere la tradizionale base elettorale a rivotare per i candidati del proprio partito.

I democratici sono preoccupati di perdere il controllo della Camera, dove servono 218 deputati per raggiungere la maggioranza.  Per raggiungere quota 218, i democratici devono assolutamente conquistare ventiquattro dei trentanove seggi ancora “in bilico”. La direzione del partito sembrerebbe proiettata verso una strategia che tende a sostenere in modo massiccio tutti quei candidati adesso in carica e alcuni di quei esordienti che hanno ragionevoli possibilità di vincere contro candidati repubblicani in carica o esordienti.  Il deputato del Maryland, Chris Van Hollen, capo del Comitato elettorale democratico, è fiducioso che il sostegno che il partito nazionale darà ai candidati democratici sarà sufficiente per impedire che i repubblicani si addentrino troppo all’interno dei “territori” democratici.  Il comitato elettorale ha impegnato almeno 52 milioni di dollari (pari a circa 40 milioni di Euro) per pubblicità televisiva per sostenere direttamente i candidati democratici durante gli ultimi giorni di campagna elettorale.  La direzione democratica è al lavoro per sostenere in particolare alcuni dei veterani del partito che in questo momento sono in difficoltà, come il deputato del Colorado, John Salazar, quello della Georgia, Sanford Bishop, Phil Hare dell’Illinois, Joe Donnelly dell’Indiana, e in particolare il presidente della commissione forze armate della Camera, il deputato del Missouri, Ike Skelton.  Leggi tutto l’articolo

Un mondo senza armi nucleari: la strada per Washington passa da Praga

Diana De Vivo

“La protesta pacifica getta le basi per un impero. Ed è più potente di qualsiasi altra arma”, tuona Barack Obama, circa un anno fa, dinnanzi a 30 mila persone radunate in piazza Hradcani, Praga, a margine del vertice Usa-UE del 5 Aprile 2009.

Dinnanzi all’asimmetria delle minacce attuali, attori non-statali che si muovono ai confini degli Stati, il Presidente statunitense materializza la speranza di un mondo senza armi nucleari e inaugura l’impegno di mettere in sicurezza tutto il materiale nucleare in un tempo massimo di quattro anni.
L’esistenza di arsenali nucleari è, oggigiorno, l’eredità più pericolosa della Guerra Fredda quando intere generazioni hanno vissuto con la perpetua consapevolezza che il mondo potesse essere distrutto in pochi istanti, quando la deterrenza era declinata quale “Mutual Assured Destruction”.

A pochi giorni dal Nuclear Security Summit di Washington, che ha riunito 47 Capi di Stato, appuntamento di incomparabile rilevanza politico-strategica, in cima all’agenda internazionale di Obama, l’Iran inaugura oggi il cantiere di un nuovo sito per l’arricchimento dell’uranio, con la promessa, palesata dinnanzi agli occhi inermi della comunità internazionale, di completare, a fine novembre, la costruzione di dieci nuovi siti. leggi tutto l’articolo

L’ora della verità — un autunno pieno di sfide per Obama

Anthony M. Quattrone

U.S. President Barack Obama shakes hands after a town hall meeting on healthcare inside a hangar at Gallatin Field in Belgrade, Montana, August 14, 2009. REUTERS/Larry Downing
U.S. President Barack Obama shakes hands after a town hall meeting on healthcare inside a hangar at Gallatin Field in Belgrade, Montana, August 14, 2009. REUTERS/Larry Downing

Il presidente americano è in ferie in questo momento, godendosi un meritato ma breve periodo di riposo con la sua famiglia.  E’ riuscito ad incassare, prima della pausa estiva del Congresso la conferma della giudice Sonia Sotomayor alla Corte suprema.  La Sotomayor è il primo giudice di origine ispanica ed è la terza donna ad approdare alla massima corte americana.  La nomina della Sotomayor, ottenuta il 6 agosto 2009, con una larga maggioranza di 68 senatori contro 31, ha visto ben 9 repubblicani votare assieme ai 59 democratici presenti in aula (il sessantesimo democratico, Ted Kennedy, era assente a causa delle sue gravi condizioni di salute), facendo sperare che Obama potesse ancora ottenere anche l’appoggio dei repubblicani più moderati nelle iniziative politiche che andranno dibattute al ritorno dalle ferie.

Non è certo che Obama riesca ad ottenere un appoggio bipartisan nella formulazione di un piano per la riforma del sistema sanitario.  E’ stato già particolarmente difficile per i democratici ricucire le divisioni interne al partito su come finanziare la riforma sanitaria.  La componente fiscalmente conservatrice del partito non ha esitato a bloccare qualsiasi proposta di riforma che prevedeva un aumento del deficit statale, e il possibile aumento delle tasse per i contribuenti.  Obama avrebbe voluto licenziare la riforma prima della pausa estiva del Congresso, ma dovrà considerarsi fortunato se riuscisse a portare a termine il progetto entro la fine dell’anno.  Ai primi di agosto, la maggioranza democratica della Camera ha votato a favore di un pacchetto di proposte per riformare il sistema sanitario, riuscendo ad alienare sia i repubblicani sia la componente liberal della sinistra del partito democratico.  Il Senato, invece, ha affidato il compito di sviluppare una proposta condivisa di riforma ad un gruppo di sei senatori, tre democratici e tre repubblicani, già soprannominati la “banda dei sei”.

Gli strateghi democratici hanno fatto notare ad Obama che, ad ogni incontro aperto al pubblico sul tema della riforma sanitaria, partecipano attivamente gruppi molto ben organizzati contrari a qualsiasi progetto che potesse togliere potere alle varie parti dell’industria medica.  Questi attivisti, probabilmente finanziati dalle diverse lobby dell’industria medica, stanno vincendo nella battaglia per convincere l’opinione pubblica ad opporsi al piano di riforma voluta dal presidente.  Il presidente ha incoraggiato, pertanto, gli attivisti democratici e coloro che sono a favore della riforma, di rimboccarsi le maniche, e di reagire con forza per smascherare eventuali provocazioni da parte delle lobby della sanità.  Obama ha incoraggiato i membri del Congresso a non rimanere passivi dinnanzi alle iniziative provocatorie da parte di coloro che vogliono bloccare qualsiasi tentativo di riforma. Leggi tutto l’articolo

I primi cento giorni di Obama

Popolarità ai massimi storici per il presidente americano

President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young
President Barack Obama greets guests at the "White House to Light House" Wounded Warrior Soldier Ride ceremony on the South lawn at the White House in Washington April 30, 2009. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

I primi cento giorni della presidenza di Barack Obama sono stati caratterizzati dalla frenetica attività del giovane presidente e di tutto il suo governo, nel portare avanti un programma di cambiamento nella politica americana. La data dei primi cento giorni non ha nessun riferimento legale o istituzionale in America, ma è diventato un punto di riferimento per comprendere lo stile, e per tracciare alcune traiettorie che andranno a caratterizzare i rimanenti tre anni e nove mesi di un primo mandato presidenziale.

E’ con la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che gli americani sentirono parlare, per la prima volta, dei “primi cento giorni” di una presidenza, perché il nuovo presidente, proprio all’inizio della sua amministrazione, lanciò un rilevante numero di nuovi programmi, particolarmente audaci, per risollevare l’America della Grande Depressione. Roosevelt, come Obama oggi, si trovò ad affrontare una forte crisi bancaria ed un’enorme massa di americani senza lavoro. Nel caso di Roosevelt, però, il periodo dei cento giorni non partì con l’inaugurazione del 20 gennaio 1933, ma dall’inizio del mese di marzo e si concluse a metà giugno. Gli storici dibattono ancora sulla reale utilità delle misure economiche attuate da Roosevelt, ma nessuno nega l’importanza dello stimolo psicologico che l’attivismo presidenziale creò, e che, senza dubbio, aiutò il paese a risorgere.

Solo il presidente Ronald Reagan, nei primi cento giorni della sua presidenza, dal 20 gennaio al 29 aprile 1981, riuscì ad eguagliare Roosevelt nell’implementare un radicale cambio di rotta, tale da risollevare il paese dalla stagnazione, che si manifestava non solo in campo economico, ma forse anche in quello militare, con riflessi nella politica estera. Nell’arco dei primi 100 giorni, Reagan riuscì a far approvare dal Congresso il taglio delle tasse, nuove priorità di spesa, e una generale capitalizzazione del bilancio della difesa. Molti opinionisti americani attribuiscono a Reagan il merito di un lungo periodo di crescita dell’economia americana, e anche lo sgretolamento dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia.

Obama, come Roosevelt 76 anni fa, cerca di riformare il capitalismo americano per salvarlo, non per sovvertirlo. Secondo il professor Allan Lichtman dell’American University, “Obama ha attuato grandi cambiamenti, ma sempre all’interno del normale arco conservatore-progressista. Si, il pendolo è oscillato, ma dalla corrente principale conservatrice, a quella principale del liberalismo”. Obama non ha nazionalizzato le banche, ma ha negoziato l’acquisto dei loro titoli “tossici”. Obama non cerca di sostituire le assicurazioni mediche private con un’assicurazione governativa, ma cerca di mettere proprio le assicurazioni al centro del nuovo piano che dovrebbe garantire a tutti gli americani la copertura sanitaria. E anche sulla questione delle tasse, Obama non vuole alzare le tasse per il 95 percento degli americani, ma solo per il 5 percento, riportandoli alle quote pagate quando era presidente il repubblicano, idolo dei conservatori, proprio Ronald Reagan.

Secondo William Galston, un ricercatore della Brookings Institution, un ex collaboratore del presidente democratico Bill Clinton, “Obama è un Reagan con il segno negativo”. Per il ricercatore, oggi Obama “sta tentando di disfare e annullare il reaganismo e Reagan stesso”, così come Reagan tentò di smontare completamente il sogno del presidente democratico Lyndon B. Johnson, di creare una “Grande Società” americana, finanziata dal governo. In pratica, Obama sta cercando di invertire un detto di Reagan, che stabiliva che “il governo non è parte della soluzione, ma è il problema”. Oggi, anche per molti conservatori americani, con l’eccezione dei liberisti puri, il governo non è il problema, ma è necessariamente l’ancora di salvezza dell’economia. Le differenze fra conservatori e liberal riguardano, semmai, più il grado dell’intervento governativo, ma non dell’intervento stesso. Leggi tutto l’articolo

Accountability: Obama all’attacco del malcostume

Lo scandalo dei bonus pagati ai manager della AIG

A protestor takes part in a rally in front of an American International Group (AIG) office calling on Congress to take action on employee free choice, health care, and banking reform in Washington, March 19, 2009. REUTERS/Jim Young
A protestor takes part in a rally in front of an American International Group (AIG) office calling on Congress to take action on employee free choice, health care, and banking reform in Washington, March 19, 2009. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è in prima linea nella battaglia per assicurare che la società americana torni a mettere di nuovo in primo piano il principio della “accountability”, un termine inglese che si può tradurre con la parola “responsabilità,” ma il cui significato più preciso è caratterizzato dal connotato della trasparenza, e dal mantenimento degli impegni, specialmente da parte di chi ricopre una posizione di rilievo o di potere in una organizzazione.  In breve, accountability significa rendere conto del proprio operato.

Obama ha invitato, fin dal giorno del suo insediamento, i responsabili della pubblica amministrazione a tenere un comportamento in linea con il principio della accountability.  Il presidente ha ugualmente chiesto agli imprenditori e ai manager delle grandi imprese, specialmente quelle che avevano richiesto e ricevuto danaro pubblico per affrontare la crisi economica, di tenere comportamenti caratterizzati dall’accountability.  Nel caso dei bonus che l’American International Group (AIG) ha pagato pochi giorni fa ai suoi manager, pari a circa 165 milioni di dollari, utilizzando i fondi che il governo federale aveva messo a disposizione per evitare il suo fallimento, è venuto meno il principio della accountability.  Il cittadino medio americano si chiede com’è possibile che si possa premiare con un bonus di circa un milione di dollari ciascuno dei manager responsabili per la politica disastrosa della AIG, la quale oggi sopravvive solo grazie ai 170 miliardi di dollari che il governo federale ha iniettato nel colosso assicurativo per evitarne il fallimento.

La rabbia degli americani contro il comportamento del management della AIG si è manifestata a tutti i livelli, a partire dal cittadino comune, ed ha coinvolto anche i membri del Congresso, i quali hanno minacciato di tassare fino al 90 percento i bonus pagati ai manager responsabili della politica fallimentare dell’azienda.  Il presidente Obama ha dichiarato il suo totale disappunto, ed ha chiesto ai suoi collaboratori di verificare l’esistenza di eventuali meccanismi legali per recuperare i soldi che la AIG ha dato ai manager.  Dopo un’audizione dinnanzi al Congresso il 18 marzo 2009, il direttore esecutivo della AIG, Ed Liddy, ha dichiarato di aver chiesto ai manager che hanno ricevuto il bonus qualche giorno fa di restituirne la metà al governo federale.

In America, il principio dell’accountability, e il rispetto delle regole, ha unito coloro che vorrebbero più intervento dello Stato nell’economia, e quelli che vorrebbero applicare in modo intransigente la politica del laissez faire.   Lo sviluppo di un capitalismo responsabile ha permesso l’affermazione e l’egemonia dell’ideologia del libero mercato anche fra i lavoratori e i meno abbienti negli Stati Uniti.  Il primato della libera impresa e dell’iniziativa privata sono una componente fondamentale del modo di vita americano — in America nessuno mette in dubbio il ruolo dell’imprenditore ed il diritto di chiunque di cimentarsi nell’imprenditoria.  In America, arricchirsi è parte del sogno ed è motivo di vanto, quando si raggiunge il successo specialmente partendo da condizioni di povertà.   Il comportamento di finanzieri senza scrupoli, imprenditori fraudolenti, e manager corrotti ed incapaci sta mettendo in seria difficoltà la base stessa del capitalismo responsabile americano, una delle colonne portanti del sogno americano.

Obama, accusato durante la campagna elettorale di voler ridistribuire la ricchezza attraverso politiche socialiste di stampo europeo, si trova ora a dover difendere il libero mercato, mettendo in risalto la capacità degli americani di fare libera impresa.  Dopo aver proposto misure per salvare grandi imprese come la AIG, alcune banche, la Chrysler, la Ford e la General Motors, ora propone misure a tutela delle piccole imprese, per stimolare la base stessa del capitalismo americano.

La debacle dei pagamenti dei bonus ai manager fallimentari della AIG rischia di ridurre l’appoggio che Obama sta ricevendo dall’opinione pubblica americana nel portare avanti tutte quelle misure che servono per stimolare l’economia.  Obama ha recepito immediatamente il malcontento della popolazione a proposito dei bonus pagati ai manager della AIG.  Senza nascondersi dietro paraventi o provare a fare lo scaricabarile, semmai accusando altre istituzioni statali o cariche dello Stato, Obama si è assunto la responsabilità, in quanto presidente, anche se è in carica da soli due mesi, per non aver fatto di più nel controllare come la AIG intendesse spendere i fondi messi a disposizione dalla Federal Reserve e dal Tesoro.  Obama, con il suo comportamento, ha dato una dimostrazione pratica del comportamento etico, di un comportamento ispirato dal principio della accountability, dimostrando che qualcosa sta cambiando a Washington nel modo di fare la politica.

L’agenda economica ed estera di Obama

US 100 dollar notes are checked at a bank. US authorities launched a new phase of their bank rescue plan including a requirement for so-called stress tests on the "capital adequacy" of troubled major commercial banks. (AFP/File/Jung Yeon-Je)
US 100 dollar notes are checked at a bank. US authorities launched a new phase of their bank rescue plan including a requirement for so-called stress tests on the "capital adequacy" of troubled major commercial banks. (AFP/File/Jung Yeon-Je)

Marco Maniaci

L’era Obama è appena cominciata e si inizia a respirare già l’aria del cambiamento.  La sfida che sta affrontando è difficile, ma il nuovo presidente lo sta facendo a muso duro e nel migliore dei modi, almeno in questa prima fase.

Le priorità in questo momento sono tante e l’agenda presidenziale è ricca di appuntamenti, a partire dalla soluzione della crisi che sta investendo il mondo economico che senza una giusta cura potrebbe mettere totalmente in ginocchio gli Stati Uniti d’America.  Il PIL americano ha subito nell’ultimo trimestre la più forte contrazione dall’inizio degli anni ’80, circa 3,8%.  Secondo molti analisti questo dato dimostra la possibilità che il peggio deve ancora venire.   Anche Obama non si è nascosto:  per lui il PIL non è solo un concetto numerico-economico , ma significa anche il disastro che si sta abbattendo sulle famiglie americane. Il primo round di questa battaglia Obama  l’ha vinto: è riuscito, infatti, a far approvare dal senato il maxi-piano di salvataggio dell’economia americana, una manovra da 787 miliardi di dollari. Il piano prevede  una forte riduzione della pressione fiscale sulle famiglie americane e una serie di sgravi fiscali per le aziende. Una voce importante è quella riguardante i fondi per l’ammodernamento di ponti e strade. Per evitare il collasso appunto, il nuovo inquilino della Casa Bianca utilizzerà  questi soldi approntando delle misure sulla scia del New Deal di Roosevelt:  il rifacimento di intere strade, ponti, palazzi e altre opere edilizie che non sono state ristrutturate negli Stati Uniti da quasi cento anni, potrebbe almeno salvare tantissimi posti di lavoro creando nuova occupazione.

Ma la sfida di Obama è ancora più grande e per ampliare l’occupazione, messa a rischio dalla crisi, si sta anche progettando  la modernizzazione del sistema informatico americano. Il presidente Obama,  inoltre, ha indirizzando la sua azione anche verso una nuova politica ecologica, che poi è strettamente legata alla questione energetica.  Infatti il nuovo corso di Obama in politica economica si può definire un New Deal verde.  Il neopresidente si sta apprestando a portare una rivoluzione nel mondo del mercato automobilistico con la revisione delle leggi Bush in materia di gas di scarico.  Il presidente ha autorizzato la California e altri 13 stati dell’unione a fissare standard più severi sui gas di scarico delle automobili e in generale anche un netto miglioramento dell’efficienza energetica. Questa nuova politica è anche il coronamento dell’azione guidata dal governatore Schwarzenneger e da altri governatori dell’Unione, i quali erano fortemente critici verso la politica ambientale dell’ex presidente Bush.

Il presidente americano ha anche portato una nuova ventata di ottimismo nei rapporti con i partner internazionali. Il G7 che si è tenuto in questi giorni a Roma tra i ministri dell’economia dei sette paesi più industrializzati oltre a fissare dei nuovi punti per riscrivere le regole del nuovo ordine mondiale del sistema finanziario cercando di creare una nuova Bretton Woods, ha portato anche un nuovo corso nei rapporti economici tra gli USA e gli altri stati:”Gli Stati Uniti collaboreranno con i partner del G7 e del G20 per costruire il consenso sulla riforma del sistema finanziario”, sono queste le parole del nuovo segretario al tesoro americano Timothy Geithner, aggiungendo che “gli Stati Uniti resisteranno ad ogni forma di protezionismo”. Leggi tutto l’articolo

Obama va avanti: la Camera Usa approva le misure economiche

President Barack Obama speaks to reporters during his visit to the Capitol in Washington January 27, 2009.
President Barack Obama speaks to reporters during his visit to the Capitol in Washington January 27, 2009. (Kevin Lamarque/Reuters)

Anthony M. Quattrone

“Non abbiamo nemmeno un minuto da perdere” ha dichiarato mercoledì il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, poco prima che la Camera approvasse una serie di misure miranti a stimolare l’economia americana. Obama ha evidenziato la gravità del momento, sostenendo la necessità di prendere iniziative rapide e decisive per rilanciare l’economia. L’urgenza dell’intervento legislativo è dettata anche dalla notizia che, secondo il dipartimento del lavoro, l’emorragia dei posti di lavoro ormai rasenta le 100 mila unità a settimana. Il neo presidente sperava che la maggioranza democratica riuscisse a raggiungere un accordo con la minoranza repubblicana nella Camera, ma ha dovuto rassegnarsi di fronte alla ferma opposizione di ampi settori della destra conservatrice. Alla fine, il pacchetto è stato approvato dalla maggioranza democratica, mentre tutti i deputati repubblicani, assieme ad undici democratici conservatori, hanno votato contro. Il piano approvato dalla Camera rispecchia quasi per intero le richieste fatte da Obama, e costerà al governo federale circa 819 miliardi di dollari, di cui quasi 544 di spese e 275 di riduzione delle tasse. Ora sarà la volta del Senato nel vagliare e approvare le misure passate alla Camera.

La minoranza repubblicana nella Camera ha chiaramente manifestato che alcuni provvedimenti approvati nella seduta di mercoledì non sembrano legati ad iniziative miranti a stimolare l’economia, ma sono finanziamenti per alcune clientele locali o sono a sostegno di interventi prettamente politici. I repubblicani avrebbero preferito avere più tempo per discutere le proposte, e assicurarsi un legame diretto fra le spese e i risultati sperati nell’economia. Per il deputato dell’Ohio, John Boehner, capogruppo repubblicano alla Camera, alcune voci della proposta, del valore di diversi miliardi di dollari, “non hanno nessuna relazione con la creazione o la conservazione di posti di lavoro”. Per il capogruppo repubblicano al Senato, il senatore del Kentucky, Mitch McConnell, “le proposte fatte dai democratici alla Camera non sembrano in linea né con le nostre priorità, né con quelle del Presidente”. In generale, i repubblicani lamentano che l’ammontare della riduzione delle tasse, specialmente per le piccole imprese, non è sufficiente per stimolare l’economia.

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Barack Hussein Obama Presidente!

small_obama_imageAnthony M. Quattrone

Oggi, 20 gennaio 2009, Barack Hussein Obama diventerà il 44mo presidente degli Stati Uniti d’America. Sono tantissime le persone in tutto il mondo che seguiranno la diretta TV della cerimonia d’insediamento, e saranno tanti quelli che, alle 18 italiane, si commuoveranno, mentre guardano e ascoltano Obama, giurare fedeltà alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, sulla bibbia appartenuta al presidente Abraham Lincoln. Anche la scelta della bibbia di Lincoln, un presidente repubblicano, che ha dato il via alla lunga strada dell’emancipazione dei neri, è parte di un’attenta coreografia politica che mira a creare unità fra tutti gli americani.

Nei primi cento giorni della sua presidenza, Obama potrà continuare a godere del forte consenso popolare in patria, e della simpatia di tante persone in ogni parte del globo. Ma, soprattutto, potrà contare su di un Congresso a maggioranza democratica, con un’opposizione leale da parte dei repubblicani, che, specialmente all’inizio del mandato del giovane presidente, gli daranno l’opportunità di mettere in atto quanto ha promesso, e quanto vorrà fare per tirare l’America fuori dalla crisi economica.

E’ stato scritto subito dopo la trionfale vittoria del 4 novembre 2008, che l’elezione di Obama andava incontro al desiderio espresso dall’opinione pubblica internazionale affinché l’America scegliesse la discontinuità nei confronti dell’interventismo unilaterale, della guerra preventiva, e dello stradominio delle corporazioni, indirizzando invece la sua politica verso la condivisione e il dialogo, in un contesto di una leadership morale ed etica, che mettesse l’uomo, e non gli interessi economici, al centro dell’azione politica. Dal 4 novembre ad oggi sono passati oltre due mesi, e il mondo è cambiato di nuovo, e rapidamente. La crisi economica ha distrutto centinaia di migliaia di posti di lavoro in America dall’elezione presidenziale ad oggi, portando il totale a oltre tre milioni in un solo anno. Israele ha invaso Gaza dopo aver subito attacchi giornalieri di missili Kassam lanciati da Hamas contro la sua popolazione civile per anni — ora il numero dei morti civili in Palestina, causati dall’azione militare israeliana, ha ormai superato il migliaio. In breve, in soli due mesi, la situazione Americana e mondiale si è complicata ulteriormente, e le sfide per il giovane presidente si sono notevolmente moltiplicate.

In questi due mesi, Obama ha messo assieme una squadra di governo che, secondo gli osservatori americani di tutte le parti politiche, è composta da persone di altissimo calibro. Obama ha scelto il meglio fra democratici, indipendenti, e repubblicani, e ha privilegiato la capacità professionale e la dimostrata competenza, piuttosto che la fedeltà di partito, o nei suoi stessi confronti. Vuole un rapporto leale con dei collaboratori capaci di dire “no sir, lei si sta sbagliando”, con il massimo rispetto dei ruoli e delle persone. Obama sa che alla fine, dopo aver ascoltato i consiglieri, i ministri, gli esperti, sarà solo nel prendere decisioni che potrebbero danneggiare alcuni e favorire altri. Così sarà per la politica economica, quella fiscale, le tasse, la riforma sanitaria, l’ambiente, la sicurezza nazionale, la politica estera, e così via.

Il rischio di deludere tutti c’è ed è grande. Chi vuole chiudere Guantanamo subito sarà deluso dai problemi tecnici che questo comporta. Chi vuole vedere le truppe Usa lasciare l’Iraq subito scoprirà che questo non è possibile, se si vuole garantire la sicurezza delle truppe stesse. Chi vuole la riforma sanitaria dovrà capire che, nel bel mezzo di una crisi economica di portata storica, con milioni di posti di lavoro già persi e altri che sono a rischio, non ci sono i fondi necessari per fare l’agognata riforma. E così chi vuole vedere Obama togliere immediatamente gli impedimenti federali alla ricerca sulle cellule staminali dovrà fare i conti con le priorità che il nuovo presidente vorrà dare ad ognuno dei temi su cui ha basato la sua vittoriosa campagna elettorale.

Gli americani residenti in diverse città italiane hanno organizzato oggi degli incontri per vedere assieme ai loro amici italiani il giuramento di Obama. In alcune città ci sono manifestazioni formali, mentre in altre le celebrazioni sono a carattere informale. Quello che gli italiani potranno notare da queste celebrazioni è che non ci sono differenze di partito, ideologiche, religiose, o etniche. Tutti gli americani in questo momento sperano nel successo del giovane presidente, e si sentono uniti dietro di lui.

Obama ha dimostrato in brevissimo tempo di avere la stoffa per essere un grande presidente americano. Ha lo stile giusto. E’ determinato. Ha il carisma necessario. Ha l’umiltà di circondarsi di persone forti e competenti. Già da domani Obama dovrà rimboccarsi le maniche e lavorare sodo. E, mentre aspettiamo di sapere come vuole andare avanti, non ci resta che fargli l’augurio che è stato rivolto subito dopo la vittoria del 4 novembre: “Buon lavoro, Mr. President!”

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La crisi dei mutui, Obama e le buone intenzioni di Bush

La casa, il giardino, la macchina, la bandiera - il sogno americano sotto stress a causa della crisi economica (photo by Anthony M. Quattrone)
La casa, il giardino, la macchina, la bandiera - il sogno americano sotto stress a causa della crisi economica (photo by Anthony M. Quattrone)

Anthony M. Quattrone

 

La crisi dei mutui, con il conseguente pignoramento delle proprietà, sarà uno dei primi temi che il nuovo presidente americano dovrà affrontare appena metterà piede nella Casa Bianca il prossimo 20 gennaio. Barack Obama sa che, per la stragrande maggioranza degli americani, il possesso della casa in cui si vive è forse l’unico elemento fondamentale del sogno americano che non è cambiato nel corso degli ultimi sessanta anni. I membri delle quattro generazioni d’americani che si sono succedute dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, la “silent generation” (i nati fra il 1925 e il 1945), i “baby boomers” (i nati fra il 1946 e il 1964), la “generation x” (i nati fra il 1965 e il 1979), e la parte ormai adulta della “generation y” (i nati fra il 1980 e il 2000) considerano, in larga parte, il possesso della casa in cui si vive un obiettivo principale da raggiungere nel corso della propria vita lavorativa.

Secondo i dati pubblicati il 28 ottobre 2008 dall’ufficio del censimento Usa, quasi il 68 percento dei 111 milioni d’immobili abitativi in America è attualmente occupato dai proprietari, mentre il rimanente 32 percento è dato in affitto. Durante l’attuale crisi economica, l’obiettivo dell’acquisto della prima casa è passato in second’ordine per chi non possiede una casa, mentre sono migliaia gli americani che addirittura rischiano il pignoramento della proprietà, perchè non riescono a tenere il passo con le rate del mutuo da pagare.

Il sogno americano della casa di proprietà è sotto stress, e le notizie di pignoramenti creano pericolose traiettorie negative sia economiche, sia psicologiche, difficili da ribaltare. Tuttavia, Barack Obama dovrà stare attento a non cadere nella trappola in cui è caduto George W. Bush nel 2002, quando, motivato da buone intenzioni, ha finito per gettare i semi che hanno probabilmente contribuito, in seguito, all’attuale crisi dei mutui e dei pignoramenti.

Sin dall’inizio del suo mandato, Bush voleva favorire l’acquisto della prima casa per tutti gli americani, asserendo che la migliore garanzia per la sicurezza economica dei cittadini era il possesso della propria abitazione. Bush spinse i suoi collaboratori a creare strumenti per favorire l’acceso ai mutui per coloro che avevano difficoltà anche nel racimolare i fondi necessari per pagare l’acconto per l’acquisto della casa, che in America si aggirava, in media, fra il cinque e il dieci percento del valore dell’immobile. Il 17 giugno 2002, Bush annunciò, in un discorso presso una chiesa della comunità nera di Atlanta, in Georgia, che voleva incrementare, entro il 2010, di almeno 5,5 milioni il numero dei neri e degli ispano americani che possedevano la casa in cui abitavano, perché, fino a quel momento, meno del 50% dei membri di entrambe comunità erano proprietari di un immobile abitativo. Bush annunciò la disponibilità di fondi federali per finanziare l’acconto, la semplificazione degli atti burocratici per accedere ad un mutuo, l’impegno di due organizzazioni a partecipazione pubblica, responsabili per rendere i mutui più accessibili agli americani, la Freddie Mac e la Fannie Mae, di assistere le minoranze e i più deboli nell’acquisto della casa, ed una serie d’incentivi fiscali per quanto riguardava la tassazione sui redditi. Buonissime intenzioni. Leggi tutto l’articolo

Iraq: La guerra di Bush

Anthony M. Quattrone

In this image from APTN video, a man, centre throws a shoe at US President George W. Bush, background left, during a news conference with Iraq Prime Minister Nouri al-Maliki, Sunday, Dec. 14, 2008, in Baghdad, Iraq. On an Iraq trip shrouded in secrecy and marred by dissent, President George W. Bush on Sunday hailed progress in the war that defines his presidency and got a size-10 reminder of his unpopularity when a man hurled two shoes at him during a news conference. (AP Photo)
In this image from APTN video, a man, centre throws a shoe at US President George W. Bush, background left, during a news conference with Iraq Prime Minister Nouri al-Maliki, Sunday, Dec. 14, 2008, in Baghdad, Iraq. On an Iraq trip shrouded in secrecy and marred by dissent, President George W. Bush on Sunday hailed progress in the war that defines his presidency and got a size-10 reminder of his unpopularity when a man hurled two shoes at him during a news conference. (AP Photo)

La presidenza di George W. Bush sarà sicuramente ricordata come quella che è iniziata con l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, è continuata con la guerra in Iraq, e si è conclusa con la più grande crisi economica registrata in America dal 1929. E’ difficile attribuire a Bush responsabilità di causa ed effetto per i due eventi che hanno marcato l’inizio e la fine della sua presidenza, mentre la guerra in Iraq è sicuramente imputabile direttamente a lui. Ha voluto la guerra, ha cercato i motivi per farla, la ha condotta come voleva, e, infine, la lascerà in eredità al nuovo presidente il 20 gennaio 2009, quando passerà le consegne a Barack Obama.

Gli attacchi terroristici contro New York e Washington nel settembre 2001 sono stati degli atti di guerra da parte di forze irregolari, non appartenenti ad alcuna nazione, ma ospitati presso uno stato sovrano, l’Afghanistan. La guerra che gli Stati Uniti hanno fatto contro questo paese, l’occupazione che è seguita, e la campagna armata ancora in corso contro Al Qaeda e i suoi alleati Taliban hanno trovato un largo consenso sia nell’opinione pubblica mondiale, sia fra i giuristi internazionali.

Quanto Bush ha fatto dopo l’occupazione dell’Afghanistan ha trovato poco consenso nel mondo. La creazione del carcere di Guantanamo, non soggetta alle leggi civili degli Stati Uniti o alle diverse Convenzioni di Ginevra, dove sono ancora ospitati circa 250 “combattenti illegali”, o persone sospettate di essere tali, ha marcato in modo indelebile la nobile tradizione della “due process” legale americana. Solo in poche altre occasioni, sempre caratterizzate dalla paura di un nemico esterno, l’America ha messo da parte il “due process”, come quando durante la Seconda guerra mondiale migliaia di americani di origine giapponese e italiana furono internati in campi di concentramento.

Durante un’intervista con l’ABC News il primo dicembre, Bush si è rammaricato sia d’essere stato colto di sorpresa dall’atto di guerra contro gli Stati Uniti, sia perché le informazioni sulle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein erano errate. Bush, tuttavia, non riesce ad ammettere che, secondo le informazioni disponibili fino ad ora, non c’era alcun collegamento fra il dittatore iracheno e gli attacchi terroristici del 2001, e che mancava una relazione di causa ed effetto. Leggi tutto l’articolo