Riforma sanitaria, Obama si gioca tutto

President Barack Obama speaks during the health care reform meeting at the Blair House in Washington, Thursday, Feb. 25, 2010. From left are, House Speaker Nancy Pelosi of Calif., Vice President Joe Biden, the president, Health and Human Services Secretary Kathleen Sebelius, Senate Minority Leader Mitch McConnell of Ky., and House Minority Leader John Boehner of Ohio. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

Anthony M. Quattrone

Questa settimana il presidente Usa, Barack Obama, è sceso in campo in prima persona per assicurare che la riforma del sistema sanitario americano vada finalmente in porto. Il 22 febbraio scorso, il presidente ha annunciato che la Casa Bianca aveva sviluppato una nuova proposta di riforma, per superare l’impasse creata dalla incapacità della Camera dei rappresentanti e del Senato americano, entrambe a maggioranza democratica, di arrivare ad un compromesso sulle due versioni licenziate rispettivamente il 7 novembre e il 24 dicembre dello scorso anno. Secondo il sito Internet della Casa Bianca, la nuova proposta di Obama sintetizza gli aspetti condivisi delle versioni delle due Camere, e aggiunge una decina di punti già proposti da legislatori repubblicani, ma non recepiti nei due testi del Congresso. Ieri, il presidente degli Stati Uniti ha ospitato un dibattito fra deputati e senatori democratici e repubblicani, dinnanzi alle telecamere, cercando di creare il consenso necessario per portare le due Camere ad una sollecita approvazione della riforma. Fra qualche giorno si saprà se l’intervento presidenziale ha avuto successo.

Obama vorrebbe sfruttare anche le notizie che arrivano dai sondaggi sulla frustrazione che i cittadini americani manifestano nei confronti del Congresso, per gli ostacoli interposti dai senatori e deputati nei confronti delle maggiori proposte del presidente. Secondo un sondaggio condotto per la Cnn/Opinion Research Corp fra il 12 e il 15 febbraio 2010, la maggioranza degli americani vorrebbe che i democratici facessero il primo passo per trovare un accordo con i repubblicani, cedendo su alcuni punti controversi. Lo stesso sondaggio rileva, tuttavia, che secondo il 67 per cento degli intervistati i repubblicani non fanno abbastanza per collaborare con la Casa Bianca di Obama. Durante la settimana che sta per finire, la Cnn ha messo in onda una trasmissione intitolata “Broken Government” (governo allo sbando), sottolineando la percezione da parte dell’americano comune che Washington, ed in particolare il Congresso, è incapace di risolvere i problemi reali del Paese.

Forse proprio per rispondere alle critiche che arrivano dagli elettori, il Senato ha approvato martedì scorso, a tempo di record, una misura per ridurre la pressione fiscale sulle piccole e medie imprese che assumono chi ha perso il lavoro da oltre sessanta giorni e per finanziare alcuni lavori pubblici per le infrastrutture. I democratici hanno potuto contare anche sul voto di tredici senatori repubblicani, dando alla “jobs bill” (misura per il lavoro) una maggioranza bipartisan di settanta senatori a ventotto. Ora la legge passa alla Camera per l’approvazione finale prima della firma di Obama. Leggi tutto

Sanità: Obama pronto al compromesso

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama walks to the gym at the Physical Fitness Center at Ft. McNair in Washington Sunday Feb. 14, 2010, to play basketball. (AP Photo/Susan Walsh)

“Mettiamo le migliori idee sul tavolo”, ha proposto il presidente americano Barack Obama ai leader democratici e repubblicani del Congresso durante un incontro tenuto lo scorso 9 febbraio. Il presidente è ormai consapevole che non ha i voti necessari nel Congresso per effettuare la massiccia riforma del sistema sanitario americano che avrebbe voluto portare a termine durante il suo primo anno di Presidenza.

Con la perdita del seggio democratico nel Massachusetts nelle elezioni di gennaio per sostituire il senatore democratico Edward Kennedy, scomparso lo scorso agosto, il partito del presidente ha perso la maggioranza assoluta di 60 dei 100 seggi che compongono il Senato, che permette al partito di maggioranza di controllare completamente l’agenda dell’alta camera, e di bloccare qualsiasi tentativo di ostruzionismo parlamentare da parte della minoranza. Obama oggi si rende conto che, indipendentemente dal seggio perso a gennaio da parte dei democratici, non aveva a disposizione nemmeno la maggioranza di 51 senatori per portare avanti la riforma. La divisione nel Partito democratico è molto ideologica, con la componente conservatrice pronta a votare assieme ai repubblicani per bloccare le proposte dei progressisti. Se Obama avesse avuto un sostegno reale da parte di tutti i senatori democratici, la riforma sarebbe stata approvata durante l’autunno del 2009, immediatamente dopo la sosta estiva. Non è stato così, perché il presidente era ed è rimasto in minoranza sul tema della riforma sanitaria, fin dal suo insediamento un anno fa.

Obama ha proposto ai capigruppo dei due partiti di svolgere un summit il 25 febbraio prossimo, dinnanzi alle telecamere, per discutere su come portare avanti la riforma sanitaria. Alcuni leader repubblicani hanno espresso, tuttavia, delle perplessità sull’idea del summit televisivo, perché lo considerano una potenziale trappola politica, che permetterebbe ai democratici di svilire, dinnanzi all’opinione pubblica, le proposte repubblicane. I repubblicani sono giustamente preoccupati, perchè, secondo un sondaggio condotto pochi giorni fa per il “Washington Post”, la maggioranza degli americani vuole che il Congresso e il presidente continuino a lavorare per fare la riforma del sistema sanitario. Secondo il sondaggio, sei americani su dieci sono dell’opinione che i repubblicani non stanno facendo abbastanza per raggiungere un compromesso con Obama, e quattro su dieci credono che il presidente stia facendo troppo poco per ottenere l’appoggio degli avversari. Leggi tutto l’articolo

Obama tira dritto: “Io non mi arrendo”

President Barack Obama delivers his State of the Union address on Capitol Hill in Washington, Wednesday, Jan. 27, 2010. (AP Photo/Tim Sloan, Pool)

Discorso sullo stato dell’Unione

Anthony M. Quattrone

“Io non mi arrendo” è il messaggio principale che il presidente americano, Barack Obama, ha mandato al Paese durante il discorso sullo stato dell’Unione che ha tenuto il 27 gennaio 2010.  Il presidente, che ha completato il suo primo anno di governo pochi giorni fa, affronta una contingenza negativa per la sua presidenza, caratterizzata dal calo dei consensi da parte degli elettori, tre gravi sconfitte elettorali negli ultimi mesi in Virginia, nel New Jersey, ed in Massachusetts, lo stallo sulla riforma sanitaria, e nessuna notizia buona riguardante la crisi economica.  Una tempesta perfetta per qualsiasi politico.

Nel suo discorso dinnanzi al Congresso, Obama è stato determinato nel riaffermare il programma politico esposto durante la campagna elettorale del 2008, ma ha anche dimostrato di aver compreso che è molto più difficile far trovare un accordo fra democratici e repubblicani sui temi fondamentali per il paese di quanto lui si aspettasse.  Obama ha anche compreso quanto è difficile governare lo stesso partito democratico, fatto di tante anime, dalla conservatrice alla progressista.  Il controllo unilaterale del Senato, con 60 democratici contro i 40 dei repubblicani, che il partito di Obama aveva fino alla settimana scorsa, non è servito per far approvare la riforma sanitaria, perché alcuni senatori democratici sono effettivamente più a destra dei repubblicani.  La perdita del seggio di Ted Kennedy nel Massachusetts, dopo 47 anni di ininterrotto dominio democratico, ha riportato i democratici a 59 senatori, perdendo il diritto legale di bloccare qualsiasi tentativo di ostruzionismo parlamentare da parte dei repubblicani.

Secondo un sondaggio condotto per il Wall Street Journal/NBC, il 58 percento degli americani pensa che il paese stia andando nella direzione sbagliata, mentre solo il 28 percento crede che il governo federale funzioni bene.  Secondo lo stesso sondaggio, solo il 47 percento degli americani approva il lavoro che Obama sta facendo per risolvere la crisi economica.  La critica più ricorrente da parte dell’opinione pubblica è che il presidente spende troppe energie per portare avanti la riforma sanitaria a detrimento della creazione di posti di lavoro.  Ed è forse per questo che Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha detto agli americani che la sua preoccupazione principale è l’economia e la creazione di posti di lavoro, ma che non ha nessun’intenzione di abbandonare le iniziative che sono al centro della sua azione politica, come la riforma del sistema sanitario.

Gli altri obiettivi principali che il presidente aveva enunciato per il primo anno di presidenza, oltre alla riforma del sistema sanitario, non sono stati raggiunti.  Non è riuscito a chiudere la prigione di Guantanamo.  Non è riuscito ad imporre limiti sull’emissione di gas inquinanti.  Non ha riformato il sistema finanziario.  Non ha firmato un nuovo patto con la Russia per le riduzioni degli armamenti.  Queste sono iniziative politiche ancora vive, e forse a breve avranno un seguito, ma, per il momento, il presidente ha dovuto affrontare la cruda realtà che i tempi della politica americana richiedono costanti compromessi e attenzioni rivolte agli interessi di una miriade di gruppi di pressione rappresentati nel Congresso.  Obama voleva bloccare l’influenza delle lobby sulla politica, ma, anche in questo campo, non è riuscito ancora a registrare alcun passo in avanti.  Le lobby sono presenti a Washington, facendo il lavoro di sempre, pur adattandosi a nuove regole, ma rimanendo influenti come prima. Leggi tutto l’articolo

Obama e l’arte del compromesso

Primo anno di presidenza Obama

President Barack Obama visits a Boys and Girls Club in Washington, Monday, Dec. 21, 2009, to read a book and give out cookies to children. (AP Photo/Charles Dharapak)

Anthony M. Quattrone

L’azione politica di Barack Obama nel suo primo anno di presidenza è stata caratterizzata dal compromesso. Ironicamente, Obama può contare su di un’ampia maggioranza democratica sia alla Camera, sia al Senato, ma non può contare su di un partito democratico unito, pronto a sostenerlo al Congresso. L’anima progressista si è scontrata in diverse occasioni con quella conservatrice, e, solo grazie all’abilità di mediare da parte della dirigenza democratica, e da parte di Obama in prima persona, è stato possibile portare avanti parte del programma proposto durante la campagna elettorale. Forse è proprio l’abilità di Obama di trovare una via di mezzo, un compromesso, che ha sorpreso maggiormente gli osservatori politici americani. Obama è disposto a considerarsi soddisfatto e vincente anche quando una sua proposta è ridotta all’osso attraverso il dibattito parlamentare. La riforma sanitaria, tanto sostenuta da Obama in campagna elettorale, è un esempio della propensione del presidente di effettuare compromessi per salvare il salvabile, e per fare avanzare di qualche passo il suo programma politico.

L’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti il 20 gennaio dell’anno che sta per finire è stato sicuramente un evento storico perchè è il primo afro americano eletto alla massima carica dello Stato americano. Lo stesso evento è stato anche una fonte di preoccupazione per gli osservatori della politica americana, perchè il resoconto della carriera politica del giovane presidente includeva solo l’elezione a senatore per lo stato dell’Illinois. Con la fine dell’anno, si inizia a tirare le somme per valutare l’efficacia di Obama, se ha tenuto le promesse fatte, e se il Paese sta meglio o peggio di quando si è insediato alla presidenza. Quello che traspare è che Obama è veramente abile nell’avanzare il suo programma politico, cercando il compromesso dove si può, con grande senso pragmatico.

Il sito Internet www.politifact.com, che appartiene al St. Petersburg Times, svolge un ruolo di costante monitoraggio rispetto all’azione politica di Obama, attraverso la compilazione di una lista di 513 promesse fatte dal presidente durante la campagna elettorale. Ad oggi, il presidente ha portato a compimento 102 azioni nella lista delle promesse, mantenendone 75, facendo compromessi riguardanti 18, e rompendone 9. Delle restanti 411 promesse, 202 riguardano azioni politiche attualmente in pieno svolgimento, 39 sono bloccate in una situazione di stallo, e per 170 non ci sono ancora abbastanza elementi da dare una valutazione definitiva.

I numeri delle promesse fatte rispetto a quelle mantenute e quelle rotte sono interessanti, e possono essere integrate dalle rilevazioni dei maggiori sondaggi sul gradimento nei confronti del presidente da parte degli americani. Secondo un sondaggio svolto dalla Gallup durante il periodo fra il 16 e il 18 dicembre, il 50 percento degli americani manifestano il gradimento nei confronti di Obama, e il 43 gli è contrario. I risultati più recenti non sono certamente comparabili al margine favorevole che la Gallup ha registrato durante la prima settimana della presidenza, quando Obama godeva di un livello di approvazione pari al 64 percento contro un’opinione sfavorevole contenuta al 17. Un sondaggio della Rasmussen, datato 17 dicembre 2009, è forse più preoccupante per il giovane presidente, perchè registra un divario abbastanza consistente fra il 26 percento degli elettori che danno ad Obama un altissimo gradimento, e il 41 che manifesta un alto livello di disapprovazione. Lo stesso tipo di sondaggio fatto dalla Rasmussen dieci mesi fa dava ad Obama una proporzione inversa, con coloro che mostravano un alto gradimento in netto vantaggio su quelli che manifestavano un’alta disapprovazione, per 40 a 20 percento. Sicuramente Obama non può aspettarsi grandi balzi in avanti nel gradimento nei suoi confrontri da parte degli elettori americani, se la crisi non rallenta in modo visibile, e migliaia di americani ritornano al lavoro. Leggi tutto l’articolo

Il dopo Cina di Obama: l’agenda è fittissima

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama greets Prime Minister Manmohan Singh of India during a State Arrival ceremony in the East Room of the White House, Tuesday, Nov. 24, 2009 in Washington. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

E’ risaputo che l’agenda di un qualsiasi presidente americano è sicuramente occupata da un accavallarsi di impegni, e, quando le traiettorie di alcuni eventi si intersecano inaspettatamente, può diventare difficile per l’osservatore politico tenere il passo dei lavori presidenziali.  Nel caso di Barack Obama, o sarà per la sua relativa gioventù, o per la particolare contingenza — dopo il suo ritorno dal viaggio ufficiale in Cina, si sono susseguiti una serie di eventi politici, di cui alcune di rilevanza storica, che fanno pensare ad un attivismo presidenziale, che non lascia tempo per respirare.  Le lunghe pause fra un evento e un altro, cui ci aveva abituato George W. Bush, fanno ormai parte di un passato remoto.  L’attivismo presidenziale esige che tutto sia fatto subito, perché non c’è tempo da perdere.

Sabato scorso, 21 novembre, Obama è riuscito a convincere i 58 senatori democratici e i due indipendenti alleati dei democratici, a votare a favore del dibattito sulla riforma sanitaria, impedendo ai senatori repubblicani di portare avanti un’eventuale azione di ostruzionismo parlamentare.  Il dibattito, che inizia al rientro della festività di ieri del Thanksgiving, si concluderà prima della fine dell’anno, e Obama ha già iniziato un formidabile lavoro di convincimento nei confronti di quei pochi senatori democratici che potrebbero votare contro la riforma.  Già tre settimane fa, Obama era riuscito ad ottenere, inaspettatamente, il voto favorevole della Camera a sostegno della riforma sanitaria, superando anche le divisioni interne al partito democratico, fra conservatori e progressisti. Anche al Senato, così come alla Camera, la destra democratica è preoccupata per la copertura economica della riforma sanitaria, e non vorrebbe che questa vada cercata attraverso l’incremento della tassazione sui redditi dei ceti medi.

Lunedì 23, poi,Obama si è riunito con il “consiglio di guerra”, composto dai suoi più stretti collaboratori in materia di sicurezza nazionale, per arrivare ad una soluzione rispetto alla richiesta fatta dal generale Stanley McChrystal, il comandante americano delle forze NATO in Afghanistan, di aumentare il numero dei soldati americani dispiegati nel paese, ricalcando il successo della strategia del “surge”, elaborata e attuata dal generale David Petraeus in Iraq due anni fa.  Secondo alcune notizie trapelate il 24 novembre 2009 Obama sarebbe intenzionato ad accogliere, in larga parte, la richiesta fatta di inviare almeno 30 mila soldati per rafforzare la forza Usa sul campo di battaglia.  Attualmente, in Afghanistan ci sono 68 mila militari americani e 42 mila truppe di altri paesi. Leggi tutto l’articolo

Riforma sanitaria Usa: vittoria a metà per Obama

Anthony M. Quattrone

Pelosi Seattle
House Speaker Nancy Pelosi, right, gets a kiss on the cheek by Rep. Jim McDermott as Rep. Jay Inslee looks on during a news conference at Swedish Medical Center Monday, Nov. 9, 2009, in Seattle. Pelosi toured Swedish on her first public appearance after the House passed a health care bill over the weekend. (AP Photo/Elaine Thompson)

La Camera dei deputati degli Stati Uniti ha approvato il 7 novembre 2009 una proposta di riforma del sistema sanitario americano.  La proposta di legge approvata dalla Camera va ora al Senato per la conferma.  Il presidente Barack Obama vorrebbe convertire in legge la riforma del sistema sanitario Usa, apponendo la sua firma sul disegno di legge, prima della fine dell’anno.  Forse ci riuscirà, ma non è certo che la riforma sarà come l’aveva immaginata durante la campagna elettorale o durante i primi mesi della sua presidenza.

I giornali in tutto il mondo hanno descritto il voto di sabato scorso alla Camera dei deputati americana come un successo per il presidente Barack Obama.  Un’attenta analisi di come hanno votato i deputati indica che Obama non è riuscito a conquistare una maggioranza qualificata a sostegno della riforma, ottenendo solo 220 voti a favore contro 215 contrari.  Ben 39 democratici hanno votato con i repubblicani contro la proposta di riforma, e un solo deputato repubblicano ha votato a favore.  In pratica, Obama non è riuscito né ad unire il partito democratico attorno ad uno dei progetti più importanti della sua strategia politica, né a creare un’unità nazionale attorno allo stesso tema.

Al Senato, Obama può contare su di una maggioranza democratica che dovrebbe riuscire a bloccare tattiche ostruzionistiche che i repubblicani potrebbero tentare di attuare, per bloccare il voto.  I democratici hanno 58 senatori democratici che possono allearsi con due indipendenti vicini ai democratici, contro la minoranza di 40 senatori repubblicani, per bloccare tentativi di “filibuster” (ostruzionismo parlamentare).  Obama, tuttavia, deve affrontare l’incognita di come voteranno quei senatori iscritti al partito democratico, ma di fede politica conservatrice, conosciuti come “blue dog democrats”.  Secondo alcuni osservatori, nove dei 58 senatori democratici sono blue dog, mentre per altri, i conservatori del partito di Obama presenti nell’alta Camera americana sono almeno tredici.  Il potente presidente del Comitato finanze del Senato, il senatore del Montana, Max Baucus, è il relatore di una delle proposte di riforma sanitaria dibattute al Senato, ed è anche uno dei maggiori esponenti dei democratici “blue dog” che potrebbe far saltare il quorum che serve ai democratici del partito di Obama per bloccare un’eventuale tentativo di filibuster da parte dei repubblicani. Baucus ha ricevuto l’anno scorso quasi otto milioni di dollari per la sua campagna elettorale dall’industria delle assicurazioni mediche. Leggi tutto l’articolo

Il voto americano del 3 novembre 2009

Governor Christie
Governor-elect Chris Christie gives a thumbs up sign as he sits with Lt. governor elect Kim Guadagno at the Robert Treat Academy charter school Wednesday, Nov. 4, 2009, in Newark, N.J., the day after he won over incumbent Jon S. Corzine. Christie said with the visit to the highly successful school, he wanted to highlight his plans to improve education. (AP Photo/Mel Evans)

Anthony M. Quattrone

L’analisi del risultato complessivo del turno elettorale americano del 3 novembre 2009 permette alcune riflessioni sulla natura della democrazia americana, e le possibili traiettorie che si stanno delineando rispetto alla competizione del mid-term che si svolgerà fra un anno.  Dai risultati si evince che la democrazia americana è particolarmente vibrante, non legata a preconcetti ideologici, e fortemente concentrata sull’operato dei candidati in carica, specialmente nel caso delle elezioni locali.

La democrazia americana è vibrante perchè, a solo un anno dalla travolgente vittoria democratica per la presidenza, gli elettori non hanno esitato a mandare a casa chi ha dimostrato di non essere all’altezza del compito affidato, e di premiare chi lo è, specialmente nelle elezioni locali.

Nel New Jersey, la sconfitta del governatore in carica, il democratico John Corzine, da parte del candidato repubblicano, l’ex procuratore Chris Christie, è particolarmente indicativa perchè il presidente Barack Obama era sceso in campo appoggiando, senza alcun’esitazione, il compagno di partito, visitando il New Jersey per tre volte durante la campagna elettorale.  Christie ha battuto Corzine, un ex banchiere della Goldman Sachs, per 51 a 41 percento, con il 6 che è andato ad un candidato indipendente.  Corzine, che ha speso due volte quanto Christie per finanziare la campagna elettorale, contava anche sulla popolarità di Obama nel New Jersey, per sconfiggere l’avversario.  La popolarità del presidente, che nel New Jersey continua ad essere forte, non è stata sufficiente per superare l’impopolarità di Corzine.

In Virginia, dove lo scorso anno Obama è stato il primo candidato presidenziale democratico a vincere le elezioni dal 1964, la vittoria repubblicana è stata schiacciante. L’ex ministro della giustizia della Virginia, Robert F. McDonnell, ha avuto una maggioranza del 59 contro il 41 percento del democratico Creigh Deeds, un attempato senatore dello stato.  McDonnell andrà a rimpiazzare il democratico Timothy Kaine, che fu eletto governatore della Virginia nel 2005, e che oggi copre l’incarico di presidente del partito di Obama. Leggi tutto l’articolo

Elezioni Usa del 2010: Repubblicani alla riscossa

Cheney
La vecchia guardia repubblicana: l'ex ministro della difesa Donald Rumsfeld al podio mentre l'ex vice presidente Dick Cheney lo ascolta durante la cena della Center for Security Policy alla Union Station a Washington, il 21 ottobre 2009. (AP Photo/Harry Hamburg)

Anthony M. Quattrone

Il partito repubblicano americano è già proiettato verso le elezioni di mid-term che si terranno fra un anno.  Nella prassi elettorale americana, ogni due anni la Camera va completamente rinnovata, così come un terzo dei seggi del Senato.  Le votazioni che si svolgono esattamente a due anni dalle presidenziali, indicano all’inquilino della Casa Bianca come il paese giudica il suo lavoro fino a quel punto, permettendogli di riaggiustare il tiro, prima delle prossime presidenziali.  I repubblicani dovranno obbligatoriamente cercare di registrare un successo nelle elezioni del novembre 2010, se vogliono conquistare la presidenza nel 2012.

Il commentatore conservatore, Pat Buchanan, già consigliere politico di tre presidenti repubblicani, e candidato, lui stesso, per due volte alle presidenziali Usa, sprona i repubblicani a formulare proposte politiche che non si limitano all’opposizione a quanto proposto dai democratici.  Secondo Buchanan, gli elettori sanno a cosa i repubblicani si oppongono, ma non riescono a capire cosa propongono.  Per Buchanan, è necessario che i repubblicani sviluppino una linea politica propositiva sui maggiori temi, partendo dall’Afghanistan, per arrivare alla riforma del sistema sanitario americano.

Buchanan scrive in un recente articolo pubblicato sul suo sito ufficiale che, secondo un recente sondaggio della Gallup, il 40 percento degli americani si considera conservatore, mentre solo il 20 percento si definisce repubblicano.  I repubblicani non possono aspirare ad essere il partito di maggioranza, se non riescono a catturare il voto conservatore.  Buchanan, tuttavia, manifesta qualche perplessità sulla capacità dei repubblicani di mettere assieme un programma credibile e alternativo a quello dei democratici, prima delle prossime scadenze elettorali. Leggi tutto l’articolo

Obama, il Nobel, e la visita del Dalai Lama

HH the Dalai Lama with President Barack Obama.  Meeting at the Senate, 2005 (Photo by Sonam Zoksang. High-quality, archival inkjet 8.5" x 11" print signed by the photographer: $15.00 ALL PROFITS from the sale of this photo will go to www.studentsforafreetibet.org)
HH the Dalai Lama with President Barack Obama. Meeting at the Senate, 2005. (Photo by Sonam Zoksang. High-quality, archival inkjet 8.5" x 11" print signed by the photographer: $15.00 all profits from the sale of this photo will go to www.studentsforafreetibet.org)

Anthony M. Quattrone

L’annuncio fatto lo scorso venerdì che il premio Nobel per la pace per il 2009 sarà assegnato a Barack Obama è sorprendente, perché il giovane presidente americano non ha ancora avuto il tempo necessario per portare a termine qualche importante iniziativa in politica estera, nel bene o nel male. Lo stesso Obama è apparso alquanto sorpreso dall’attribuzione del premio, e ha immediatamente dichiarato che lo considera più una “chiamata all’azione” per una politica di pace da parte sua, dell’America, e delle persone di buona volontà, piuttosto che un riconoscimento per qualcosa che avrebbe fatto.

Molti osservatori riconoscono che Obama ha portato nella politica estera americana una ventata d’aria fresca, o, addirittura, un piacevole ritorno al passato, dove la diplomazia torna di nuovo in primo piano, e dove l’azione multilaterale va a sostituire quella unilaterale da parte della superpotenza d’oltreoceano. Obama non fa alcun mistero della sua preferenza per una politica realista, abbandonando l’idealismo di George W. Bush, mettendo chiaramente in secondo piano l’esportazione della democrazia e dei principi occidentali di libertà, privilegiando la necessità di dialogare con tutti, su tutto. Obama, tuttavia, non considera il realismo nella politica estera come l’abbandono della lotta per la libertà in ogni angolo del mondo a favore di una cinica azione basata sugli interessi economici, politici, e militari americani, ma ritiene che attraverso il dialogo, utilizzando metodi di convincimento alternativi allo scontro diretto basato sulla chiusura e l’uso della forza, si può anche avanzare i diritti civili e la libertà.

Le critiche per l’assegnazione del Nobel per la pace ad Obama sono piovute da destra e da sinistra, sia negli Usa, sia nel resto del mondo. E’ difficile comprendere, per alcuni, perché Obama è già meritevole di un riconoscimento così alto, specialmente quando c’erano altri candidati che avevano già dimostrato di meritare il premio per il loro impegno non violento nella lotta per avanzare i diritti civili, o per l’avanzamento della pace nel mondo. In America, alcuni commentatori di destra considerano l’assegnazione del premio il riconoscimento che il presidente americano piace a quella parte del mondo che non vuole un’America capace di difendersi con la forza. Questi stessi commentatori di destra vedono il premio come un peso al collo del presidente, e come un tentativo da parte dei “pacifisti” di legare le mani al presidente nelle scelte che dovrà fare rispetto all’uso della forza in Afghanistan.

Le critiche ad Obama sono arrivate anche dai Taleban, da Hamas e da Gino Strada, il fondatore di Emergency, così come da personaggi della destra americana capeggiati da Rush Limbaugh, che conduce da diversi mesi, attraverso il suo programma radiofonico, un attacco costante contro il presidente. Anche il presidente del Comitato nazionale repubblicano, Micheal Steele, ha attaccato Obama pubblicamente, scrivendo, in un comunicato diffuso dal partito, che “La vera domanda che si pongono gli americani è: che cosa ha realizzato veramente il presidente Obama? E’ spiacevole che il potere di star del presidente abbia messo in ombra instancabili attivisti, che hanno raggiunto traguardi lavorando per la pace e i diritti umani. Una cosa è certa, il presidente Obama non riceverà nessun premio dagli americani per i posti di lavoro creati, responsabilità fiscale o per aver messo da parte la retorica per le azioni concrete”. Leggi tutto l’articolo

Afghanistan: Le crudeli scelte di fronte ad Obama

Anthony M. Quattrone

U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)
U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)

Il presidente Barack Obama dovrà scegliere fra due “crudeli opzioni” nella conduzione della guerra in Afghanistan, come scrive l’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, sull’International Herald Tribune del 5 ottobre 2009. Per il vecchio professore di diplomazia, la richiesta di ulteriori truppe, fatte in pubblico da parte del Comandante americano in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, mette Obama di fronte ad un terribile dilemma: “Se rifiuta le raccomandazioni e l’opinione del generale McChrystal, il quale asserisce che le sue forze sono inadeguate per svolgere la missione, il presidente Obama sarà ritenuto responsabile per le drammatiche conseguenze. Se accetta la raccomandazione, i suoi oppositori potrebbero iniziare a descrivere il conflitto afgano come la guerra di Obama, almeno in parte.” Secondo Kissinger, il presidente sarà obbligato a prendere una decisione senza avere alcuna certezza sulla validità delle valutazioni che gli saranno o sono state già sottoposte.

Obama ha subito pesanti critiche dalla destra repubblicana che lo accusa di tergiversare nel prendere una decisione in merito alla strategia da adottare nella guerra in Afghanistan. Mentre alcuni repubblicani hanno apertamente attaccato il presidente, Kissinger, che ha fatto parte del governo del presidente repubblicano Richard Nixon, ha invitato tutti alla moderazione. L’ex Segretario di stato è apertamente a favore di incrementare le truppe Usa in Afghanistan, ma, seguendo la scuola del realismo nella politica estera Usa, crede che sia necessario identificare, con precisione, gli interessi strategici americani. Kissinger fa notare che altri paesi, specialmente quelli che confinano con l’Afghanistan, avrebbero maggiore interesse a stabilizzare il paese, e a rendere inefficace qualsiasi tentativo di ritorno dei Taleban dei loro alleati di al Qaida. I paesi confinanti o vicini all’Afghanistan, come la Cina, la Russia, l’India, il Pakistan, e l’Iran, secondo Kissinger, hanno sostanziali capacità belliche a disposizione per difendere i propri interessi; ma, fino ad ora, si sono tenuti relativamente in disparte, lasciando all’America il compito di intervenire, assieme agli alleati, sobbarcandosi il costo della guerra, sia in termini di vite umane, sia in termini di risorse finanziarie. Il vecchio diplomatico americano, nella sua analisi della situazione che confronta Obama, fa notare che, a differenza della guerriglia in Vietnam o della resistenza in Iraq, i Taleban non godono di un importante sostegno popolare o internazionale.  Leggi tutto l’articolo