Sindaci USA: Obama, basta guerre all’estero – i soldi servono a casa

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama speaks about the war in Afghanistan during a televised address from the East Room of the White House, June 22, 2011. Credit: Reuters/Pablo Martinez Monsivais/Pool

L’annuncio che Barack Obama ha fatto il 22 giugno 2011 di voler ritirare 33 mila truppe dall’Afghanistan entro 18 mesi, cui 10 mila entro il 31 dicembre 2011, in netto anticipo rispetto alla programmazione fornita dal Pentagono, è il frutto della realizzazione che non è più possibile per Washington sostenere i costi della guerra e della ricostruzione afgana, mentre negli USA le infrastrutture sono fatiscenti, i servizi sociali sono ridotti all’osso, la disoccupazione è oltre 9 percento e il debito pubblico è in costante rialzo, superando la cifra di 14 mila miliardi di dollari quest’anno.  Con le presidenziali del prossimo anno, non è nemmeno possibile per Obama presentarsi dinanzi all’elettorato con l’accusa di spendere più per ricostruire, o, meglio costruire, l’Afghanistan con i soldi dei contribuenti americani, quando a casa, negli USA, c’è tanto da fare.

Il messaggio che è arrivato a Obama, chiaro e forte, dalla conferenza dei sindaci americani che si è tenuta dal 17 al 21 giugno 2011 a Baltimora, nel Maryland è che i soldi per fare le guerre e ricostruire paesi stranieri devono essere spesi a casa, in America, per gli americani.  Il 20 giugno 2011, nel suo discorso di inaugurazione come nuovo presidente dell’associazione che raggruppa i sindaci delle città americane che superano 30 mila abitanti, Antonio Villaraigosa, sindaco democratico di Los Angeles, ha chiesto al Presidente Obama di portare a casa i “nostri valorosi soldati” e “di onorarli indirizzando ora il nostro impegno verso i bisogni domestici, investendo fondi nella nostra economia per creare posti di lavoro”.  I sindaci lamentano che mentre miliardi di dollari sono spesi nelle missioni militari all’estero, loro hanno dovuto licenziare circa 446 mila dipendenti municipali dal 2008 ad oggi, e fra questi molti sono insegnanti, poliziotti e vigili del fuoco. Non è più possibile, secondo i sindaci, sostenere la costruzione di ponti e autostrade a Bagdad e Kandahar mentre quelle di Baltimora o di Kansas City sono a pezzi e in altre città americane sono del tutto inesistenti.

Il giorno seguente, il 21 giugno 2011, il Senatore democratico conservatore del West Virginia, Joe Manchin III, ha scritto al Presidente una lettera chiedendo di anticipare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan molto prima della data prefissata del 2014.  Per Manchin, “non possiamo più permetterci di tagliare servizi, innalzare le tasse e far decollare il debito per finanziare la ricostruzione in Afghanistan. La domanda a cui il Presidente deve rispondere è molto semplice: cosa vogliamo ricostruire l’America o l’Afghanistan? Allo stato attuale fare entrambe le cose è impossibile”.  La lettera di Manchin segue quella inviata il 15 giugno 2011 da 27 senatori di entrambi schieramenti, in cui i senatori chiedono un ritiro più rapido dall’Afghanistan dopo l’uccisione di Osama bin Landen.

Il presidente Obama, durante la campagna elettorale del 2008 aveva manifestato l’intenzione di spostare le risorse americane dalla guerra in Iraq a quella in Afganistan, ritenendo quest’ultimo paese il nodo centrale nella guerra globale contro il terrorismo di al Qaeda. La spesa della guerra in Afghanistan è salita da 14,7 miliardi di dollari spesi da George W. Bush nel 2003, ai 118,6 miliardi dollari spesi da Obama nel 2011. Con la morte di Osama bin Laden il primo maggio di quest’anno, è diventato difficile convincere gli americani sulla necessità di continuare a spendere miliardi di dollari in Afghanistan, e Obama sa che questo potrebbe essere usato contro di lui dai repubblicani durante la prossima campagna presidenziale del 2012.

E così, pochi giorni dall’appello dei sindaci e dalla lettera del senatore Manchin, il presidente ha deciso di annunciare il 22 giugno 2011 in un messaggio alla nazione in diretta TV un drastico taglio alla spesa della guerra, portando subito a casa una parte dei 100 mila soldati oggi dispiegati in Afghanistan. Leggi tutto

Il governo federale Usa ha rischiato la chiusura

President Barack Obama greets crowds of tourists at the Lincoln Memorial a day after Congress came to agreement on funding the federal government, emphasizing that national parks, monuments and museums are open and filled with visitors, in Washington D.C., April 9, 2011. Reuteurs/Mike Theiler

Anthony M. Quattrone

I ruoli istituzionali e il gioco delle parti negli Stati Uniti possono addirittura portare allo “shutdown” del governo federale, in altre parole alla chiusura di quasi tutti i servizi governativi e alla sospensione degli stipendi dei dipendenti pubblici federali. Il Congresso americano, formato dalla Camera a maggioranza repubblicana, e dal Senato controllato dai democratici, è l’autorità che decide e approva la spesa del governo federale. Il presidente propone il bilancio al Congresso, e, alla fine dei lavori di quest’ultimo, può accettare o apporre il veto sulle decisioni del ramo legislativo.

Lo scorso venerdì 8 aprile, i dipendenti pubblici del governo federale degli Stati Uniti, civili e militari, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo alla notizia, giunta in extremis, poco prima della mezzanotte, che repubblicani e democratici avevano trovato un accordo per il prolungamento di una settimana del finanziamento delle spese federali. Quest’accordo darà tempo al Congresso di definire in dettaglio, entro il 15 aprile 2011, la finanziaria per coprire le spese federali previste per gli ultimi sei mesi dell’anno fiscale in corso che finisce il 30 settembre 2011.

Il presidente americano Barack Obama ha dato il drammatico annuncio dell’accordo fra repubblicani e democratici alle 23:08 di venerdì, aggiungendo un po’ di retorica patriottica, cercando anche di apparire come chi è stato capace di unire conservatori e progressisti nell’interesse supremo del Paese. Obama ha iniziato il suo discorso di quattro minuti con grande retorica. “Dietro di me” ha detto il presidente americano, “attraverso questa finestra, potete vedere il Monumento di Washington, che centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo visitano ogni anno. Le persone che vengono qua lo fanno per imparare la nostra storia e per essere ispirati dalla nostra democrazia – quella di un Paese dove cittadini di diverse culture e credenze possono ancora fondersi in un’unica nazione. Sono contento di poter annunciare che domani il Monumento di Washington e tutto il governo federale saranno normalmente al lavoro. Questo sarà possibile perché gli americani di diverse fedi si sono ancora una volta uniti.”

La Finanziaria è basata su un compromesso che prevede tagli alle spese per 38 miliardi di dollari. I repubblicani, capeggiati dallo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, avrebbero voluto ottenere tagli più sostanziosi, oltre all’abolizione dei finanziamenti federali per qualsiasi tipo di aborto e una notevole riduzione per gli interventi a favore dell’ambiente. Al contrario, il leader democratico al Congresso, il senatore Harry Reid, avrebbe voluto ridurre i tagli e, dove necessari, spalmarli su un periodo più lungo, onde evitare conseguenze sociali. Il compromesso è criticato sia dalla frangia ultra conservatrice del partito repubblicano, in testa i membri del Tea Party Movement, sia dalla sinistra liberal del partito democratico. Obama ha cercato di sfruttare anche l’insoddisfazione delle frange più estremiste per apparire come il mediatore e l’uomo di centro, che guarda verso gli interessi del Paese a lungo termine. Nel suo discorso al Paese, Obama ha spiegato che le scelte compiute sono “dolorose ma necessarie”, ponendo l’accento sulla necessità per gli americani “di vivere in base ai nostri mezzi, per proteggere il futuro dei nostri figli”, ricordando che “vivere secondo le nostre risorse è il solo modo in cui potremo proteggere gli investimenti che renderanno gli Stati Uniti competitivi”.

Ora lo scontro fra repubblicani e democratici si sposterà sul limite imposto dal Congresso sul debito pubblico nazionale, che in questo momento non può superare la cifra di 12.500 miliardi di dollari. Se gli americani non troveranno come fare altri tagli al bilancio federale, gli esperti prevedono che sarà necessario superare il limite già fra cinque settimane. In una lettera della settimana scorsa, il Segretario al Tesoro, Timothy F. Geithner, ha scritto ai leader del Congresso che il governo federale raggiungerà il limite il 16 maggio, e che attraverso alcuni spostamenti di fondi fra i diversi conti del governo, sarà possibile guadagnare tempo sino all’8 luglio. Se il Tesoro non potrà superare il limite imposto dal Congresso, non potrà far fronte al pagamento dei debiti maturati sugli interessi da pagare ai creditori del governo. In pratica, il governo americano rischierebbe l’inadempienza. Secondo Jamie Dimon dell’JP Morgan Chase, un’eventuale decisione di non alzare il limite legale del debito pubblico americano potrebbe portare a conseguenze catastrofiche e imprevedibili.

Ora tocca a Obama prepararsi per spegnere un fuoco ancora più intenso.

Obama il centrista

Anthony M. Quattrone

U.S. President Barack Obama views a turbine as he tours General Electric's birthplace in Schenectady, New York, January 21, 2011. With Obama is plant manager Kevin Sharkey. REUTERS/Kevin Lamarque

Molti osservatori americani si chiedono, a due anni dall’inaugurazione della presidenza Obama, quale sia il credo politico, o l’ideologia dell’attuale inquilino della Casa Bianca.  Barack Obama è stato eletto all’insegna del cambiamento, l’unità, la condivisione, la razionalità, la risoluzione, il pragmatismo.  Secondo Jacob Bronsther, in un articolo pubblicato nel Christian Science Monitor il 21 gennaio 2011, gli americani conoscono la differenza ideologica tra Franklin Delano Roosevelt e Ronald Reagan, ma non sono certi sui valori filosofici e politici di Obama.  Bronsther, il quale sostiene che Obama ha enunciato dei principi metodologici, come il pragmatismo e il cambiamento, piuttosto che dei principi ideologici, ricorda che nel 2009 il New York Times chiese al Presidente se ci fosse una parola che potesse definire la sua filosofia.  Il giornale gli chiese se fosse un socialista, o un progressista, o un “liberal”.  Obama rispose che non voleva lasciarsi coinvolgere in quel tipo di discussione, rilevando la sua avversione per le etichette.  Per Bronsther, la riluttanza di Obama di dichiarare quali sono i suoi principi guida, se è più vicino a Roosevelt o a Reagan, crea enormi problemi per tutti, e in primo luogo per il Paese che lui vorrebbe o dovrebbe unire attorno ad una visione.  Se Obama vuole creare a un movimento che duri nel tempo, dovrà, primo o poi, enunciare il suo credo.

Secondo quanto scrivono Jackie Calmes e Jeff Zeleny nel New York Times del 22 gennaio 2011, Obama cercherà di raccontare una visione “centrista” in occasione del discorso sullo stato dell’Unione del prossimo 25 gennaio 2011.  In un video che Obama ha inviato ai suoi sostenitori, emerge l’intenzione del Presidente di spostarsi verso il centro, appellandosi agli elettori indipendenti, ai manager e agli imprenditori che si sentono alienati dall’espansione del ruolo del governo federale nell’economia e dalla virulenta lotta fra democratici e repubblicani nel Congresso.  Secondo Jackie Calmes e Jeff Zeleny, Obama cercherà di focalizzare l’attenzione degli americani sulla necessità di costruire fondamenta solide su cui ergere l’America del futuro, basandosi sul concetto di unità nazionale e di rinascita, assieme alla necessità d’interventi mirati da parte del governo federale, cercando nel frattempo di ridurre il deficit di bilancio.

Nel video inviato ai sostenitori, Obama ricorda che la sua attenzione principale rimane quello di assicurare che l’America sia competitiva sul mercato globale, e che si creino posti di lavoro non solo oggi ma anche nel futuro. Per Obama, ci sono grandi sfide di fronte agli americani, ma “siamo capaci di affrontarle, se ci uniamo come popolo — repubblicani, democratici, e indipendenti – se siamo capaci di focalizzarci su quello che ci unisce, e se siamo disposti a trovare un terreno comune, anche quando siamo impegnati in ardenti discussioni”.  Secondo il New York Times, il tentativo di Obama di rinnovare la sua immagine dopo due anni d’iniziative percepite come progressiste da parte degli americani, sarà difficile, ma non impossibile, anche perché stanno arrivando, finalmente, alcuni segnali positivi dall’economia.

Il problema per il presidente americano sarà quello di conciliare il tentativo di apparire di centro, riducendo il deficit pubblico, senza perdere il sostegno della sinistra progressista del partito democratico, spendendo di più nei campi dell’istruzione pubblica, i trasporti, e l’innovazione tecnologica.  Se l’economia si riprendesse, e più americani tornassero al lavoro, il miracolo potrebbe avvenire, con introiti maggiori per l’erario, e una conseguente riduzione del deficit, senza sacrificare le iniziative care a Obama e alla sinistra liberal.
Nell’attesa per il discorso di martedì sullo stato dell’Unione, l’opposizione repubblicana ha già deciso di continuare sulla strada intrapresa due anni fa, cioè di attaccare Obama su tutto senza dare mai tregua.  Per il momento, la strategia repubblicana ha pagato con la riconquista della Camera nelle elezioni dello scorso novembre.  Se l’economia dovesse riprendersi, tuttavia, i repubblicani avranno bisogno di argomenti più convincenti per sconfiggere Obama nel 2012, e non vorranno, sicuramente, apparire agli americani come quelli che si augurino “il tanto peggio, tanto meglio” per scopi puramente politici.

Riforma sanitaria Usa: i repubblicani provano ad abrogarla

Anthony M. Quattrone

Il 7 gennaio 2010, la nuova Camera dei Rappresentanti USA, ora a maggioranza repubblicana ha messo all’ordine del giorno per il prossimo 12 gennaio il voto per abrogare la storica riforma sanitaria fortemente voluta dal presidente Barack Obama.  Il partito repubblicano aveva promesso che se avesse raggiunto la maggioranza al Congresso avrebbe immediatamente cancellato la riforma  “socialista” che Obama avrebbe imposto, secondo la destra conservatrice, agli americani.  Il nuovo presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, deputato dal 1991 dell’ottavo distretto dell’Ohio, ha potuto contare 236 voti contro 181 per mettere all’ordine del giorno l’abrogazione della riforma.

I democratici accusano i repubblicani di fare gli interessi delle grandi compagnie assicurative, specialmente per quanto riguarda il divieto, previsto dall’attuale legge, di negare la copertura assicurativa a chi abbia patologie preesistenti.  I repubblicani controbattono che non sono contrari ad una riforma sanitaria condivisa, ma che non accettano quella “imposta” da Obama lo scorso marzo, quando alla Camera la legge passò con soli 5 voti di scarto, con 219 democratici che votarono a favore della riforma e una minoranza composta da 178 repubblicani e da 34 democratici di destra che votarono contro.

La revoca della riforma sanitaria, tuttavia, potrebbe non avere alcun successo se i democratici, che hanno la maggioranza al Senato, riescono a rimanere uniti.  Uno dei maggiori problemi del  partito di Obama rimane l’ingovernabile eterogeneità della sua composizione ideologica, con la forzata convivenza di liberal di sinistra del New England con conservatori dell’ultra destra sudista.  Attualmente, la maggioranza  democratica può contare sulla somma di 51 senatori democratici più due indipendenti, contro la minoranza fatta  da 47 repubblicani.   Al Senato, alcuni senatori democratici, come Ben Nelson del Nebraska, e l’indipendente Joe Lieberman, sono facilmente attratti dalle posizioni esposte dalla destra repubblicana, e Obama sarà costretto a fare un duro lavoro di compromesso se vorrà avere abbastanza forza per negoziare con i repubblicani l’attuazione, anche parziale, del suo programma di governo durante i prossimi due anni.  Tuttavia, il problema non è nuovo per Obama, perché prima delle elezioni dello scorso novembre, quando i democratici hanno perso la maggioranza alla Camera e hanno perso diversi seggi al Senato, il partito democratico era talmente diviso che spesso la destra democratica votava con i repubblicani apertamente contro le posizioni del presidente. Leggi tutto l’articolo

La sinistra democratica Usa: “Obama, ci manchi!”

Treasury Secretary Timothy Geithner (C) and Office of Management and Budget Director Jacob Lew (R) arrive Wednesday for a meeting with Congressional leaders to discuss the Bush-era tax cuts. Barack Obama's Republican foes laid out a year-end strategy on Wednesday that could doom efforts to approve a nuclear pact with Russia and lift a ban on gays serving openly in the military. (AFP/Getty Images/Chip Somodevilla)

Anthony M. Quattrone

La sinistra del partito democratico americano è in rivolta contro il presidente Barack Obama. Alcune decisioni che il Presidente ha preso dopo la sconfitta del suo partito nelle elezioni di un mese fa hanno messo in allarme i liberal, che oggi hanno dato inizio alla campagna “rivogliamo Obama”. La sinistra liberal accusa il presidente di essersi rimangiato alcune importanti promesse fatte in campagna elettorale.

La decisione di Obama, resa pubblica il 29 novembre 2010, di congelare gli stipendi dei dipendenti civili del governo federale, seguita dalla notizia del giorno dopo, secondo cui il presidente sembrerebbe intento a non abrogare le agevolazioni fiscali per i maxi redditi approvate dal suo predecessore, hanno provocato la dura reazione della sinistra del partito.

Secondo i liberal, il congelamento degli stipendi di tre milioni di civili del governo federale per il 2011 e il 2012 è un’operazione di facciata, atta solo a soddisfare la destra repubblicana, la quale è caratterizzata da posizioni liberiste e antistataliste. L’apparente obiettivo è quello di ridurre il debito pubblico attraverso un risparmio di circa due miliardi di dollari nel 2011, raggiungendo un risparmio di circa 28 miliardi nei prossimi cinque anni e di circa 60 miliardi nell’arco di dieci anni. La sinistra liberal accusa Obama di poca chiarezza perché il risparmio previsto non è altro che una goccia nel mare del disavanzo americano, e i due miliardi di dollari che si risparmierebbero nel 2011 sono nulla rispetto ad un bilancio federale stimato in circa 3.830 miliardi di dollari per il prossimo anno. Per la sinistra liberal, l’iniziativa di Obama punisce i lavoratori federali e renderà l’impiego pubblico americano ancora meno attraente. Secondo dati provenienti dallo stesso governo americano, gli stipendi dei dipendenti federali sono inferiori di circa 22 percento rispetto ai lavoratori che svolgono pari mansioni nel settore privato. Leggi tutto l’articolo

Usa: i repubblicani calvacano la depressione

U.S. President Barack Obama faces reporters during a news conference in the East Room of the White House in Washington, May 27, 2010. Obama promised on Thursday to hold BP accountable in the catastrophic Gulf of Mexico oil spill and said his administration would do everything necessary to protect and restore the coast. REUTERS/Jason Reed

Anthony M. Quattrone

Le elezioni americane del prossimo novembre saranno influenzate primariamente dall’andamento dell’economia, sia quella dell’intera Nazione, sia quella dei differenti Stati dell’Unione. La recessione ha eliminato in America circa otto milioni di posti di lavoro nel settore privato e la disoccupazione è ancora attorno al dieci percento.  Anche se ci sono modesti segnali di ripresa, e migliaia di nuovi posti di lavoro sono creati ogni mese, i segnali restano preoccupanti.

Secondo un sondaggio condotto dalla Rasmussen il 22 e 23 maggio 2010, usando un campione composto di persone che più probabilmente andranno a votare a novembre, 48 percento pensa che i problemi economici che il Paese sta affrontando siano stati causati dalla recessione iniziata durante l’amministrazione Bush.  Questa percentuale è scesa di cinque punti dal rilevamento effettuato lo scorso aprile e di ben quattordici punti dal maggio 2009.  La percentuale delle persone che attribuisce la colpa alle politiche adottate da Obama è salita di quattro punti percentuali, da trentanove percento dello scorso mese a quarantatré dell’attuale sondaggio, ma è più basso della rilevazione effettuata nell’ottobre 2009, quando raggiunse quarantacinque percento, il massimo della sua presidenza.

Secondo un’analisi dei dati ufficiali pubblicati da un’agenzia del governo federale Usa, il Bureau of Economic Analysis, per il primo trimestre del 2010, condotta dalla testata USA Today, la percentuale del reddito personale degli americani proveniente da fonti pubbliche ha toccato il massimo storico, mentre quella da fonti private ha toccato il minimo.  Il reddito proveniente da fonti pubbliche, che include oltre alle pensioni, alle indennità di disoccupazione, ai buoni pasto per i meno abbienti, e gli altri programmi di sostentamento del reddito per i più deboli, anche gli stipendi dei dipendenti pubblici, è salito da 12,1 percento del primo trimestre 2000, a 14,2 percento nel dicembre 2007, quando iniziò la recessione, a 17,9 del primo trimestre di quest’anno.  Durante lo stesso periodo, il reddito proveniente dal settore privato è sceso da 47,6 percento registrato nel primo trimestre del 2000, a 44,6 percento nel dicembre 2007, all’attuale 41,9. Leggi tutto l’articolo

Usa, soffia il vento “anti-incumbent”

Anthony M. Quattrone

U.S. Senate candidate Rand Paul talks with his wife Kelley as he waits to be introduced at a Republican party unity rally in Frankfort, Kentucky, Saturday, May 22, 2010. (AP Photo/Ed Reinke)

Negli Stati Uniti spira un vento contrario ai quei senatori, deputati, e governatori attualmente in carica che dovranno competere nelle prossime elezioni di novembre per ottenere il rinnovo del loro mandato. In questi giorni si stanno svolgendo alcune delle primarie democratiche e repubblicane per scegliere i candidati che gareggeranno per il rinnovo della Camera, un terzo del Senato, e per l’elezione di 36 dei 50 governatori dei differenti Stati americani per le elezioni di novembre, le cosiddette mid-term, cioè quelle che si svolgono a metà del mandato presidenziale di Barack Obama.

Secondo tutti i maggiori sondaggi svolti nelle ultime settimane, circa 70 percento degli americani giudica sfavorevolmente il lavoro svolto dai membri del Congresso, indipendentemente dal partito di appartenenza. Secondo un sondaggio svolto per l’Associated Press, solo 36 percento voterebbe per un candidato attualmente in carica. E’ particolarmente significativo che un sondaggio condotto per ABC/Washington Post abbia rilevato che la maggioranza degli americani ha più fiducia in Barack Obama, di quanto ne abbia nei deputati e senatori dell’opposizione repubblicana per quanto riguarda l’economia, la riforma sanitaria, la riforma finanziaria, e la gestione del deficit federale. Questo dato, tuttavia, non garantisce i deputati e i senatori democratici dall’irritazione popolare nei confronti del Congresso, e qualche pezzo grosso dell’establishment del partito di Obama inizia a traballare.

Già cadono le prime teste famose nella guerra “anti-incumbent” (contro il candidato in carica). L’ottantenne Alan Specter, il senatore della Pennsylvania, eletto cinque volte come repubblicano, passato ai democratici undici mesi fa, ha perso le primarie democratiche del 18 maggio 2010 contro il deputato Joe Sestak, per 47 a 53 percento. Specter aveva il sostegno dell’establishment del partito democratico, fra cui Barack Obama e Edward Rendell, il governatore della Pennsylvania. Il coraggio del vincitore, Ed Sestak, un ammiraglio in pensione al suo secondo mandato come deputato, è stato premiato da un elettorato non convinto della bontà della “conversione” di Specter da repubblicano a democratico. Lo stesso Sestak aveva attaccato Specter accusandolo di aver cambiato casacca solo per opportunismo, perché non fosse più convinto di poter vincere le primarie repubblicane. Solo qualche settimana fa, Sestak era in svantaggio per 2 a 1 nei sondaggi fra gli elettori democratici, ma il vento “anti-incumbent” lo ha sicuramente aiutato nella battaglia tutta in salita. A novembre Sestak sfiderà l’ex deputato repubblicano Pat Toomey, in quello che sarà, probabilmente, una sfida dal risultato incerto fino all’ultimo voto in Pennsylvania. Leggi tutto l’articolo

Arizona: Grana immigrazione per i repubblicani

La nuova legge in materia varata dallo Stato dell’Arizona fa perdere ai repubblicani i consensi degli ispanici

In this Monday, April 10, 2006 picture, immigration rights supporters hold a rally in downtown Los Angeles. (AP Photo/Kevork Djansezian)

Anthony M. Quattrone

Il tema immigrazione è scoppiato fra le mani dei leader repubblicani americani nel momento meno opportuno, a sei mesi dalle elezioni di mid-term del prossimo novembre, quando saranno rinnovate un terzo dei seggi del Senato, l’intera Camera dei Deputati, e andranno in gara 36 cariche di governatore dei 50 Stati dell’unione. Le proteste in America stanno montando contro una legge sull’immigrazione clandestina approvata il 23 aprile 2010 dal governatore dell’Arizona, la repubblicana Jan Brewer. Diversi consigli comunali in varie parti degli Stati Uniti, molte organizzazioni culturali e sportive, e rappresentanti delle associazioni che tutelano i diritti delle minoranze chiedono il formale boicottaggio dello Stato dell’Arizona, fino a quando rimarrà in vigore la nuova legge. Le organizzazioni che rappresentano la comunità ispano-americana sono fra le più attive nel protestare contro la nuova legge, creando notevoli difficoltà per i dirigenti politici repubblicani, compagni di partito della governatrice Brewer e della maggioranza che controlla il ramo legislativo dello Stato dell’Arizona..

Secondo il New York Times, la legge approvata dallo Stato dell’Arizona “trasforma in sospetti criminali tutti gli abitanti di origine ispanica dell’Arizona, anche se sono immigrati con regolare permesso di soggiorno, o cittadini americani”. Secondo la versione finale della legge, sarà possibile per la polizia chiedere alle persone fermate perchè sospettate di aver violato una legge, i documenti relativi all’immigrazione. Secondo alcuni osservatori, diventerebbe buona prassi per un cittadino americano che viaggia in Arizona, di avere con se il passaporto perché, da come è stata emanata la legge, l’onere della prova di cittadinanza o di presenza legale nello Stato è totalmente a carico del fermato, e in mancanza di documenti, si va in prigione. Mentre da un punto di vista formale, la legge approvata in Arizona potrebbe anche reggere nelle corti federali contro eventuali eccezioni legali, la protesta delle organizzazioni ispaniche verte sulla questione del “racial profiling”, ovvero del “puntamento” razziale nei confronti delle persone che hanno un aspetto ispanico, nelle zone a ridosso del confine con il Messico. In breve, la preoccupazione degli oppositori della nuova legge dell’Arizona è che sarebbe troppo facile per la polizia trovare mille scuse per fermare delle persone “sospette”, finendo per puntare illegalmente gli ispanici. Secondo alcune stime ufficiali, tre quarti dei quasi 12 milioni di immigrati clandestini in America sono ispanici. Il racial profiling è già stato considerato una violazione dei diritti costituzionali di coloro che ne sono vittime, e le corti hanno condannato, in diverse occasioni, i dipartimenti di polizia e le agenzie governative che lo praticavano. Leggi tutto l’articolo

Obama e la riforma del sistema finanziario Usa

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama talks with New York City firefighters from Rescue 1, Engine 260 and Engine 228, after posing for a photo at the Wall Street Heliport in New York Thursday, April 22, 2010. President Obama spoke about financial reform at the Great Hall at Cooper Union. (AP Photo/Alex Brandon)

Già nel marzo 2007 il giovane senatore dell’Illinois, Barack Obama, chiedeva a Ben S. Bernanke, presidente della Federal Reserve americana, e a Henry M. Paulson, segretario del tesoro del presidente George W. Bush, di convocare una conferenza di esperti per discutere i primi segnali di turbolenza nei mercati finanziari e immobiliari. Durante la campagna elettorale per la presidenza, ed in particolare durante la crisi finanziaria del settembre 2008, Obama ha reclamato a gran voce la necessità di colmare i vuoti legislativi nelle regole che disciplinano il sistema finanziario Usa. La filosofia che guida l’iniziativa politica di Obama nel campo finanziario è la necessità da parte del governo di usare tutta la sua forza per dare regole sicure, efficienti, e trasparenti per evitare che comportamenti spregiudicati e di dubbia correttezza possano danneggiare sia le imprese, sia gli investitori.

Il 21 aprile 2010, Obama ha dichiarato in un’intervista con l’emittente televisiva CNBC e con il New York Times che “durante la nostra storia, ci sono stati dei momenti in cui il settore finanziario è andato fuori orbita” come nel caso della Grande Depressione del 1929. Per Obama “siamo arrivati ad uno di quei momenti, dove è necessario aggiornare le regole del gioco” per ricostruire un sentimento di fiducia da parte del Paese nei confronti del settore finanziario. La riforma di Wall Street è necessaria perché non si può permettere che comportamenti scorretti e spregiudicati da parte d’alcuni operatori possano creare una situazione come quell’attuale, dove, secondo il presidente, “la crisi economica ha distrutto otto milioni di posti di lavoro e ha bruciato migliaia di miliardi di risparmi delle famiglie.” leggi tutto l’articolo

La riforma sanitaria è fatta. Obama ringrazia Nancy Pelosi.

Anthony M. Quattrone

House Speaker Nancy Pelosi of Calif. acknowledges applause from House members after signing the Senate Health Reform Bill, Monday, March 22, 2010, on Capitol Hill in Washington. From left are, House Majority Leader Steny Hoyer of Md., Rep. George Miller, D-Calif., Rep. Louise Slaughter, D-N.Y., Rep. Chris Van Hollen, D-Md., Rep. Henry Waxman, D-Calif., Pelosi, Rep. John Dingell, D-Mich., Rep. Sander Levin, D-Mich.,, and Rep. John Larson, D-Conn. (AP Photo/Manuel Balce Ceneta) (Manuel Balce Ceneta, AP / March 22, 2010)

E’ indubbiamente vero che Barack Obama è il primo presidente americano che è riuscito a portare a compimento una riforma del sistema sanitario di ampio respiro.  E’ riuscito dove Bill Clinton non è riuscito.  Ed è stato capace di non mollare, dinnanzi a tutti gli ostacoli che si sono interposti fra lo stato delle cose e la sua visione di emancipare 32 milioni di americani, non coperti da alcuna assicurazione sanitaria.

Obama ha vinto, di nuovo, e ora lo slogan è ancora una volta passato da “yes, we can” a “yes, we did it”, così come accadde nel novembre 2008, quando ha vinto le elezioni presidenziali.

Obama ha incontrato degli ostacoli veramente enormi nel condurre la lotta per la riforma.  Primo fra tutti, era il calo di attenzione nei confronti del tema della riforma sanitaria, quando l’attenzione del Paese era ed è quasi totalmente focalizzata sulla crisi economica e la perdita dei posti di lavoro.  Ottenere il consenso degli americani per riformare il sistema sanitario quando il problema primario è la disoccupazione, la perdita della casa, l’incertezza del futuro, e la dissoluzione del sogno americano è stata, e forse è ancora, una missione impossibile.  I sondaggi non sostengono il presidente nel suo impegno per la riforma, anche ora che ha vinto, perché le preoccupazioni dell’americano medio sono concentrate altrove.  Obama, tuttavia, promettendo di essere un leader che avrebbe rifiutato di governare in base ai sondaggi, sapeva che era necessario intaccare i meccanismi perversi del sistema sanitario, responsabile di una grossa fetta della spesa globale degli americani, per assicurare ai cittadini un sacrosanto diritto, innegabile in qualsiasi paese occidentale nel ventunesimo secolo, quello di potersi curare senza dover necessariamente indebitarsi a vita.  Obama sapeva che la maggioranza di cui gode oggi nel Congresso sarebbe potuta svanire già nelle prossime elezioni di novembre, e non sarebbe stato più possibile riformare in modo drastico il sistema sanitario.  Ora o mai più.

Gli ostacoli sulla strada di Obama includevano anche una forte opposizione interna al suo partito, dove differenze etniche, regionali, politiche, e ideologiche facevano a turno nell’impedire ai massimi leader democratici di tessere una piattaforma unitaria.  L’anima liberal si scontrava in modo brutale con gli anti abortisti, mentre l’opposizione repubblicana poteva rimanere tranquillamente alla finestra, osservando una guerra fratricida. Leggi tutto l’articolo