Riforma sanitaria Usa: i repubblicani provano ad abrogarla

Anthony M. Quattrone

Il 7 gennaio 2010, la nuova Camera dei Rappresentanti USA, ora a maggioranza repubblicana ha messo all’ordine del giorno per il prossimo 12 gennaio il voto per abrogare la storica riforma sanitaria fortemente voluta dal presidente Barack Obama.  Il partito repubblicano aveva promesso che se avesse raggiunto la maggioranza al Congresso avrebbe immediatamente cancellato la riforma  “socialista” che Obama avrebbe imposto, secondo la destra conservatrice, agli americani.  Il nuovo presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, deputato dal 1991 dell’ottavo distretto dell’Ohio, ha potuto contare 236 voti contro 181 per mettere all’ordine del giorno l’abrogazione della riforma.

I democratici accusano i repubblicani di fare gli interessi delle grandi compagnie assicurative, specialmente per quanto riguarda il divieto, previsto dall’attuale legge, di negare la copertura assicurativa a chi abbia patologie preesistenti.  I repubblicani controbattono che non sono contrari ad una riforma sanitaria condivisa, ma che non accettano quella “imposta” da Obama lo scorso marzo, quando alla Camera la legge passò con soli 5 voti di scarto, con 219 democratici che votarono a favore della riforma e una minoranza composta da 178 repubblicani e da 34 democratici di destra che votarono contro.

La revoca della riforma sanitaria, tuttavia, potrebbe non avere alcun successo se i democratici, che hanno la maggioranza al Senato, riescono a rimanere uniti.  Uno dei maggiori problemi del  partito di Obama rimane l’ingovernabile eterogeneità della sua composizione ideologica, con la forzata convivenza di liberal di sinistra del New England con conservatori dell’ultra destra sudista.  Attualmente, la maggioranza  democratica può contare sulla somma di 51 senatori democratici più due indipendenti, contro la minoranza fatta  da 47 repubblicani.   Al Senato, alcuni senatori democratici, come Ben Nelson del Nebraska, e l’indipendente Joe Lieberman, sono facilmente attratti dalle posizioni esposte dalla destra repubblicana, e Obama sarà costretto a fare un duro lavoro di compromesso se vorrà avere abbastanza forza per negoziare con i repubblicani l’attuazione, anche parziale, del suo programma di governo durante i prossimi due anni.  Tuttavia, il problema non è nuovo per Obama, perché prima delle elezioni dello scorso novembre, quando i democratici hanno perso la maggioranza alla Camera e hanno perso diversi seggi al Senato, il partito democratico era talmente diviso che spesso la destra democratica votava con i repubblicani apertamente contro le posizioni del presidente. Leggi tutto l’articolo

La sinistra democratica Usa: “Obama, ci manchi!”

Treasury Secretary Timothy Geithner (C) and Office of Management and Budget Director Jacob Lew (R) arrive Wednesday for a meeting with Congressional leaders to discuss the Bush-era tax cuts. Barack Obama's Republican foes laid out a year-end strategy on Wednesday that could doom efforts to approve a nuclear pact with Russia and lift a ban on gays serving openly in the military. (AFP/Getty Images/Chip Somodevilla)

Anthony M. Quattrone

La sinistra del partito democratico americano è in rivolta contro il presidente Barack Obama. Alcune decisioni che il Presidente ha preso dopo la sconfitta del suo partito nelle elezioni di un mese fa hanno messo in allarme i liberal, che oggi hanno dato inizio alla campagna “rivogliamo Obama”. La sinistra liberal accusa il presidente di essersi rimangiato alcune importanti promesse fatte in campagna elettorale.

La decisione di Obama, resa pubblica il 29 novembre 2010, di congelare gli stipendi dei dipendenti civili del governo federale, seguita dalla notizia del giorno dopo, secondo cui il presidente sembrerebbe intento a non abrogare le agevolazioni fiscali per i maxi redditi approvate dal suo predecessore, hanno provocato la dura reazione della sinistra del partito.

Secondo i liberal, il congelamento degli stipendi di tre milioni di civili del governo federale per il 2011 e il 2012 è un’operazione di facciata, atta solo a soddisfare la destra repubblicana, la quale è caratterizzata da posizioni liberiste e antistataliste. L’apparente obiettivo è quello di ridurre il debito pubblico attraverso un risparmio di circa due miliardi di dollari nel 2011, raggiungendo un risparmio di circa 28 miliardi nei prossimi cinque anni e di circa 60 miliardi nell’arco di dieci anni. La sinistra liberal accusa Obama di poca chiarezza perché il risparmio previsto non è altro che una goccia nel mare del disavanzo americano, e i due miliardi di dollari che si risparmierebbero nel 2011 sono nulla rispetto ad un bilancio federale stimato in circa 3.830 miliardi di dollari per il prossimo anno. Per la sinistra liberal, l’iniziativa di Obama punisce i lavoratori federali e renderà l’impiego pubblico americano ancora meno attraente. Secondo dati provenienti dallo stesso governo americano, gli stipendi dei dipendenti federali sono inferiori di circa 22 percento rispetto ai lavoratori che svolgono pari mansioni nel settore privato. Leggi tutto l’articolo

La politica economica di Obama riporta GM in borsa

Anthony M. Quattrone

General Motors CEO Dan Akerson (L) smiles with others before ringing the opening bell of the New York Stock Exchange November 18, 2010. REUTERS/Shannon Stapleton

Il salvataggio della General Motors effettuato dal governo americano sedici mesi fa creò notevole preoccupazione fra gli elettori americani perché pochi credevano che il gigante dell’auto avrebbe mai potuto restituire al governo di Washington il mega prestito di 49,5 miliardi di dollari.  Invece, il 18 novembre 2010 il presidente della casa automobilistica di Detroit, Dan Akerson, ha potuto suonare la tradizionale campanella della borsa di Wall Street, dando inizio alle contrattazioni, collocando milioni di azioni della GM, per oltre 20 miliardi di dollari, a prezzi più alti di quanto previsto.  Il governo americano ha già recuperato, attraverso la vendita delle azioni GM in suo possesso, già undici miliardi di dollari, riducendo la sua quota azionaria da 61 a circa 30 percento.

Secondo Obama, “la quotazione a Wall Street è una pietra miliare non solo per quest’azienda, simbolo dell’industria americana, ma anche per l’intero settore dell’auto”.  Obama, riassumendo la politica economica del suo governo, ha dichiarato che “il sostegno a questa azienda ha permesso di salvare migliaia di posti di lavoro e di aiutare un’azienda a modernizzarsi per affrontare le sfide future”.

Non tutti sono felici per il successo della politica economica di Obama e dei democratici.  Paul Krugman, giornalista del New York Times, professore di economia a Princeton, e premio Nobel per l’economia nel 2008, ha scritto che alcuni deputati e senatori repubblicani non sono affatto contenti che l’America possa uscire dalla crisi economica, o almeno, non sono contenti che questo accada durante la presidenza Obama.

Il premio Nobel ha pubblicato un provocatorio articolo sul giornale newyorchese il 19 novembre 2010 intitolato “l’asse della depressione”, giocando sulla famosa frase “l’asse del male” coniata da George W. Bush, in occasione del suo discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002.  Mentre il presidente Bush si riferiva a Iraq, Iran e Corea del Nord, accusati di essere gli sponsor del terrorismo internazionale, il giornalista del Times fa riferimento all’asse insolita formata dalla Cina, dalla Germania e dal partito repubblicano americano, uniti nel tentativo di bloccare gli interventi monetari del presidente della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, atti a stimolare la crescita dell’economia americana.

Secondo Krugman è normale che Cina e Germania siano preoccupati per possibili interventi di Bernanke, perché, se avranno successo, indebolirebbero il dollaro, rendendo le esportazioni americane più competitive a spese dei concorrenti, e un dollaro debole potrebbe ridurre anche il deficit commerciale statunitense nei confronti di Pechino e Bonn.

Per il premio Nobel non è accettabile, invece, che alcuni parlamentari repubblicani americani siano intenti a stroncare gli interventi della Fed solo per motivi di puro calcolo politico.  Krugman accusa il deputato repubblicano Mike Pence e il senatore repubblicano Bob Corker di essere incoerenti negli attacchi che hanno fatto a Bernanke quando lo hanno invitato a sospendere qualsiasi iniziativa di espansione monetaria che potesse indebolire il dollaro e aumentare l’inflazione.  Krugman fa notare, nel suo articolo, che Bernanke sta seguendo le indicazioni che il paladino della politica della destra economica americana, il premio Nobel Milton Friedman, dette in una situazione di crisi analoga a quella attuale, quando raccomandò alla Banca del Giappone nel 1998 di acquistare sul mercato obbligazioni del governo nipponico.

La campagna elettorale presidenziale del 2012 è praticamente iniziata con il collocamento delle azioni GM e con le pressioni sulla Fed.

Mid-term: I conservatori più forti nel Congresso Usa

House Republican leader John Boehner of Ohio celebrates the GOP's victory that changes the balance of power in Congress and will likely elevate him to speaker of the House, during an election night gathering hosted by the National Republican Congressional Committee at the Grand Hyatt hotel in Washington, Tuesday, Nov. 2, 2010. (AP Photo/Cliff Owen)

L’alleanza conservatrice contro Obama, formata dalla destra democratica e dai repubblicani, avanza nel Congresso Usa

Anthony M. Quattrone

I risultati delle elezioni americane del 2 novembre 2010 sono in linea con le previsioni fatte dai sondaggi svolti poche settimane prime del voto. I repubblicani hanno conquistato la Camera con una schiacciante maggioranza di 240 a 189 (mancano ancora i risultati finali per sei seggi), portando via, per ora, 61 deputati ai democratici. Al Senato, dove i democratici e i loro alleati indipendenti hanno ancora la maggioranza con 53 seggi, i repubblicani sono riusciti a raggiungere 47, aumentando la rappresentanza di ben sei seggi. Fra i governatori, i repubblicani hanno strappato ai democratici sei stati. Oggi sono 29 i governatori repubblicani, contro 19 democratici e un indipendente (una carica non è stata ancora assegnata). In sintesi, i repubblicani possono dichiarare vittoria su tutti i fronti.

Il presidente Barack Obama, ad inizio del suo mandato nel gennaio 2009, poteva contare su una schiacciante maggioranza al Senato, formata da 55 senatori democratici e da 2 indipendenti, contro 41 per la minoranza repubblicana (due dei 100 seggi erano vacanti).  Oggi, la maggioranza formata dai senatori democratici e dagli alleati indipendenti è diminuita di sei seggi, cambiando leggermente il rapporto di forza fra maggioranza e minoranza nel Senato.  L’analisi dei risultati del voto per il Senato deve prendere in considerazione due importanti dati.  Il primo è il raffronto fra democratici e repubblicani.  Il secondo è quello fra progressisti e conservatori.  La presenza di una componente conservatrice all’interno del partito democratico rende più complessa l’analisi dei risultati del voto, specialmente per quanto concerne i programmi e gli obiettivi politici espressi dal presidente Obama.

Andiamo in ordine e partiamo con il confronto fra democratici e repubblicani al Senato. Leggi tutto l’articolo

Elezioni Usa: la base democratica ritorna in vita

Vice President Joe Biden at a rally in Tacoma, Wash., on the campus of the University of Washington - Tacoma on Friday, Oct. 8, 2010. (AP Photo/Ted S. Warren)

Anthony M. Quattrone

A tre settimane dalle elezioni di mid-term del 2 novembre 2010, repubblicani e democratici americani si danno battaglia per conquistare il voto degli indecisi.  Secondo il più recente sondaggio nazionale eseguito per ABC/Washington Post, i repubblicani hanno un vantaggio di circa sei punti percentuali sui democratici.  Questo vantaggio si è dimezzato rispetto a un mese fa, quando i repubblicani erano avanti di circa tredici punti percentuali.  Nelle elezioni di mid-term sono in palio tutti i 435 seggi per la Camera, trentasette dei 100 seggi del Senato, e trentanove delle cinquantaquattro cariche di governatore.  I repubblicani sono in testa alla Camera e per le cariche di governatore, mentre al Senato sembra che i democratici riusciranno a contenere i danni senza perdere la maggioranza.

Secondo i sondaggi locali, condotti in tutti i distretti elettorali, e in base alle tradizioni di voto, alla Camera i repubblicani possono contare di ottenere, con “certezza” 204 seggi, mentre 184 sono quelli “certi” per i democratici.  Trentanove seggi sono “in bilico”, dove i sondaggi rilevano che non è ancora possibile indicare una previsione di voto.  Su questi seggi si convoglierà l’interesse degli apparati dirigenti dei due partiti, incanalando enormi risorse finanziarie per conquistare sia gli elettori indecisi, sia per convincere la tradizionale base elettorale a rivotare per i candidati del proprio partito.

I democratici sono preoccupati di perdere il controllo della Camera, dove servono 218 deputati per raggiungere la maggioranza.  Per raggiungere quota 218, i democratici devono assolutamente conquistare ventiquattro dei trentanove seggi ancora “in bilico”. La direzione del partito sembrerebbe proiettata verso una strategia che tende a sostenere in modo massiccio tutti quei candidati adesso in carica e alcuni di quei esordienti che hanno ragionevoli possibilità di vincere contro candidati repubblicani in carica o esordienti.  Il deputato del Maryland, Chris Van Hollen, capo del Comitato elettorale democratico, è fiducioso che il sostegno che il partito nazionale darà ai candidati democratici sarà sufficiente per impedire che i repubblicani si addentrino troppo all’interno dei “territori” democratici.  Il comitato elettorale ha impegnato almeno 52 milioni di dollari (pari a circa 40 milioni di Euro) per pubblicità televisiva per sostenere direttamente i candidati democratici durante gli ultimi giorni di campagna elettorale.  La direzione democratica è al lavoro per sostenere in particolare alcuni dei veterani del partito che in questo momento sono in difficoltà, come il deputato del Colorado, John Salazar, quello della Georgia, Sanford Bishop, Phil Hare dell’Illinois, Joe Donnelly dell’Indiana, e in particolare il presidente della commissione forze armate della Camera, il deputato del Missouri, Ike Skelton.  Leggi tutto l’articolo

Il Tea Party: la stella marina contro il ragno

Anthony M. Quattrone

Delaware Republican Senate candidate Christine O'Donnell addresses supporters during a Tea Party Express news conference in support of her election bid, in Wilmington, Del., in this photo taken Tuesday, Sept. 7, 2010. A week later, she won against the full force of the Republican establishment, seizing the nomination from Rep. Mike Castle, R-Del. (AP Photo/Rob Carr)

Il movimento “Tea Party” ha ottenuto diverse vittorie nelle primarie del partito repubblicano che si sono svolte negli ultimi mesi per scegliere i candidati da contrapporre ai democratici per le elezioni del prossimo novembre per il rinnovo del Congresso . Il movimento, che si colloca nella generale area conservatrice, è ancora un “lavoro in corso”, che, anche per merito della sua struttura completamente decentralizzata, senza gerarchie e senza leader nazionali, è diventato una vera spina nel fianco dell’establishment del partito repubblicano.  Per le personalità repubblicane che attualmente occupano posizioni di potere nel partito è difficile co-optare le istanze del movimento perché nel Tea Party non esistono leader, nel senso tradizionale, con cui discutere e negoziare.  I successi dei candidati del Tea Party nelle primarie preoccupano la leadership repubblicana in primo luogo perché le proposte e il linguaggio del movimento potrebbero spaventare la base elettorale tradizionale del partito e i moderati non schierati, favorendo così i candidati democratici, e perché, anche se i repubblicani riuscissero ad ottenere la maggioranza al Congresso, si troverebbero divisi in correnti in forte contrapposizione fra loro.

La struttura del Tea Party è quella di un movimento aperto, tenuto assieme da pochi punti fondamentali che ruotano attorno a due pilastri: la necessità di limitare il peso della tassazione, e quella di imporre severi limiti al potere del governo federale.  Il Tea Party usa l’Internet come primario mezzo di comunicazione, dove il dibattito interno del movimento, così come le comunicazioni di servizio, avvengono in tempo reale, a costi irrilevanti, con larga partecipazione, e con la capacità di raggiungere ogni angolo del Paese.  Il decalogo dei principi fondamentali del Tea Party è stato formulato, recentemente, attraverso la Rete, permettendo a coloro che s’identificano nel movimento, di esprimere un parere, metterlo a confronto con quello degli altri, e poi votare le priorità.  Fra i dieci punti più votati in Rete, spicca la necessità di controllare la legittimità del Congresso in ogni suo atto legislativo, seguito da una serie di proposte atte a ridurre gli sprechi federali, controllare le spese governative, e, di conseguenza, ridurre le tasse.  Quasi tutti i punti sono collegati alle questioni economiche, evitando accenni a questioni prettamente sociali o squisitamente politiche, spostando la visione del conservatorismo economico molto più verso il liberismo estremo, rispetto a quella abbracciata dai repubblicani tradizionali. Leggi tutto l’articolo

Due mesi dalle elezioni americane di mid-term: il punto

U.S. President Barack Obama (C) walks backs to the Oval Office after delivering remarks about the economy in the Rose Garden at the White House in Washington, September 3, 2010. With Obama are (L-R) Labor Secretary Hilda Solis, Commerce Secretary Gary Locke, Council of Economic Advisers Chairman Christina Romer, Treasury Secretary Timothy Geithner, Larry Summers, head of President Barack Obama's National Economic Council and Small Business Administrator Karen Mills. REUTERS/Jim Young

Anthony M. Quattrone

Mentre la caduta dei consensi nei confronti di Barack Obama indica che un americano su quattro ha cambiato opinione sul presidente, dal giorno del suo insediamento nel gennaio 2009 fino alla fine dell’agosto 2010, i risultati dei sondaggi danno ai repubblicani anche il più alto vantaggio sui democratici per le elezioni per il Congresso mai registrato dalla Gallup.  Nel frattempo, sembra che il partito democratico americano non riesca a prendere l’iniziativa per contrastare l’avanzata repubblicana, anche se i democratici possono contare su di un notevole vantaggio nella raccolta di fondi per finanziare la campagna elettorale.

Le elezioni del prossimo 2 novembre, chiamate di “mid-term”, di metà-termine, perché avvengono quasi a metà del mandato presidenziale, che dura quattro anni, sono considerate dagli osservatori politici americani come un referendum popolare che giudica la performance del presidente in carica.  A novembre, gli americani voteranno per rinnovare un terzo del Senato e l’intera Camera dei rappresentanti. In 37 dei 50 Stati dell’Unione, gli elettori saranno chiamati a scegliere anche il governatore.

Durante le ultime 17 elezioni di mid-term, il partito del presidente in carica ha perso, in media, 17 seggi alla Camera e 4 al Senato.

Il presidente Obama ha subito uno scivolone nei sondaggi svolti dal gennaio 2009, quando si è insediato alla Casa Bianca, fino a pochi giorni fa.  La popolarità del presidente aveva raggiunto 65,5 percento il 17 febbraio 2009, nel primo mese di presidenza, mentre il 29 agosto 2010 è 46 percento.  Le opinioni sfavorevoli al presidente erano 25 percento il 17 febbraio del 2009, e hanno raggiunto 48 percento il 29 agosto 2010.  In breve, Obama e i democratici dovranno affrontare le elezioni di mid-term totalmente in salita, sia per quanto riguarda la tradizionale perdita di seggi per il partito del presidente in carica, sia per l’effettivo momento di difficoltà che il presidente sta affrontando nei sondaggi. Leggi tutto l’articolo

Obama va a picco nei sondaggi

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama walks toward Marine One on the South Lawn of the White House in Washington, Thursday, July 15, 2010. REUTERS/Larry Downing

I sostenitori di Barack Obama sono sbigottiti dalla lenta ma inesorabile erosione della credibilità e della popolarità del presidente americano nei sondaggi svolti negli ultimi mesi.  Obama sembra intrappolato in una ragnatela di eventi negativi, incapace di riprendere l’iniziativa politica.  La crisi economica, il disastro ecologico nel Golfo del Messico, e il perdurare di una guerra senza fine e senza vittoria in Afghanistan formano una miscela esplosiva per gli indici che misurano la fiducia e il gradimento del popolo americano nei confronti del presidente, a meno di quattro mesi dalle elezioni di novembre, quando sarà rinnovata l’intera Camera e un terzo del Senato.

La crisi economica ereditata dall’amministrazione Bush non sembra dare ancora segnali tangibili di inversione di marcia. Sono ancora milioni gli americani disoccupati e che non hanno la benché minima idea di quando e dove torneranno nella forza lavoro.  Il tasso di disoccupazione è ancora vicino al dieci percento, e, secondo i verbali di una riunione tenuta dai i vertici della Federal Reserve Bank, la banca centrale americana, il 22 giugno 2010, gli uomini di Ben Bernanke hanno alzato le forchette per la disoccupazione del 2011 a 8,3-8,7 percento, dal precedente 8,1-8,5, e per quella 2012 al 7,1-7,5 percento, dal precedente 6,6-7,5.

Secondo i dati pubblicati a fine giugno dal governo Usa, a maggio è aumentato il numero delle nuove richieste di sussidi di disoccupazione, in contrasto con le previsioni degli analisti che prevedevano un leggero calo. A maggio sono anche aumentate le richieste di sussidi pre-esistenti, le cui proroghe richiederanno l’approvazione del Congresso per fornire la copertura finanziaria.

La vendita al dettaglio è calato di 1,1 percento a maggio e di un ulteriore mezzo punto a giugno, secondo i dati pubblicati dal governo Usa il 14 luglio 2010.  Le proiezioni negative sull’occupazione hanno anche costretto la banca centrale a rivedere le stime del prodotto interno lordo (Pil) per i prossimi anni, perché l’alto tasso di disoccupazione influenzerà, ovviamente, la spesa delle famiglie, riducendo i consumi, che rappresentano circa settanta percento del Pil.  La massima crescita del Pil americano, prevista dai banchieri centrali, è stata ridotta di 0,2 punti percentuali per il 2010, dal 3,7 a 3,5 percento, e di 0,3 punti dal 4,5 a 4,2 percento per il 2011. Leggi tutto

Obama licenzia McChrystal e chiama Petraeus

Anthony M. Quattrone

President Obama, with Vice President Joseph R. Biden Jr., Gen. David H. Petraeus and Secretary of Defense Robert M. Gates, announced his removal of Gen. Stanley A. McChrystal as the top commander in Afghanistan on Wednesday and his appointment of Gen. Petraeus to lead the war effort there. Doug Mills/The New York Times

Il presidente Barack Obama ha licenziato il 23 giugno 2010 il generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe Usa e alleate in Afghanistan, e l’ha rimpiazzato con il suo diretto superiore, il generale David H. Petraeus, per condurre una guerra che ormai va avanti da ben nove anni.  Obama ha punito McChrystal per le spregiudicate dichiarazioni che il generale e il suo staff hanno rilasciato alla rivista americana Rolling Stone, normalmente specializzata in fatti musicali, in cui hanno criticato, senza mezzi termini, membri dell’amministrazione Obama, alcuni senatori, e anche qualche governante di paesi alleati, suscitando irritazione ai massimi livelli sia negli Usa, sia fra gli alleati.

Il generale Petraeus, per contro, è considerato l’artefice della strategia militare americana, denominata “surge” (ondata o rinforzi) che ha stabilizzato l’Iraq nel 2008, permettendo il successivo ritiro del grosso delle forze americane dal Paese.  Petreaus è stimato per il suo approccio razionale e metodico nella conduzione di operazioni militari, e per la capacità di rimanere calmo e rispettoso delle autorità civili, anche dinanzi ad attacchi pubblici, che rasentano la diffamazione, come quando nel settembre del 2007 testimoniò dinanzi al Congresso per spiegare la sua strategia militare in Iraq, e alcuni gruppi della sinistra democratica giocarono sul suo nome, trasformando la fonetica in “Betray us”, overro, “tradiscici”. Leggi tutto

Obama si impantana nel greggio della Louisiana

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama speaks after meeting with Coast Guard Admiral Thad Allen and local officials on efforts to fight the BP oil spill at Coast Guard Station Gulfport in Gulfport, Mississippi. Obama labeled the Gulf oil spill an environmental 9/11 and made a fourth disaster zone trip Monday while aides strong-armed BP to set up a multi-billion dollar victim fund. (AFP/Mandel Ngan)

Secondo un sondaggio condotto dalla Gallup, settantuno percento degli americani pensa che il presidente Barack Obama non abbia reagito con la giusta forza nei confronti della British Petroleum (BP), responsabile della più grossa crisi ambientale nella storia degli Stati Uniti.  Gli americani sono convinti che il disastro petrolifero nel Golfo del Messico, dove una piattaforma per l’estrazione del petrolio è esplosa e in seguito è affondata, causando la morte di undici lavoratori, il ferimento di altri diciassette, e disperdendo nel mare un flusso continuo di petrolio grezzo da quasi due mesi, avrà un impatto ecologico ed economico che durerà oltre un decennio.

Il pessimismo degli americani in questa circostanza sembrerebbe contrastare, almeno per il momento, con lo stereotipo a stelle e strisce del “si può fare”.  Il sondaggio, condotto pochi giorni prima del discorso alla Nazione che Obama ha tenuto la sera del 15 giugno 2010, e trasmesso dalle maggiori reti americane, indica che la maggioranza degli americani non ha nessuna fiducia nel lavoro che la BP sta facendo, mentre un quarto boccia completamente l’intervento presidenziale e federale.  Tuttavia, il sondaggio rivela anche che sono di più gli americani che preferiscono lasciare che la BP risolva il problema, piuttosto che spostare la direzione delle operazioni al governo federale, il quale è considerato meno competente del gigante petrolifero nell’affrontare il tipo di problema posto dalla fuoriuscita di greggio dal pozzo petrolifero.

Il disastro ambientale è iniziato il 20 aprile 2010, quando esplode un pozzo di petrolio a 1.500 metri di profondità sotto piattaforma Deepwater Horizon, la quale s’incendia e affonda dopo due giorni.  La fuoriuscita di greggio da quel che rimane del pozzo sul fondo marino ha contaminato vaste aree di mare, rendendo necessario alla Guardia Costiera americana di ordinare il 2 giugno 2010 l’interdizione della pesca per un totale di 228 mila chilometri quadrati, pari a trentasette percento delle coste Usa del Golfo del Messico.  La fuoriuscita di greggio ha ormai superato l’ammontare che ha inquinato le limpide acque dell’Alaska nel 1989, quando la nave Exxon Valdez riversò 262 mila barili di greggio, pari a circa quarantadue milioni di litri, rendendo l’attuale “il peggior disastro ambientale della storia degli Stati Uniti come ha dichiarato la Casa Bianca lo scorso 30 maggio. Leggi tutto