Faccio parte di quella generazione di americani che ricorda bene lo scandalo Watergate, quando nel 1973 il presidente Richard Nixon dovette dimettersi per evitare di essere incriminato. Molti tra i più anziani della mia generazione furono inviati a combattere e morire in Vietnam. Noi, un pochino più giovani, lo abbiamo evitato perché nati nel 1955 e non nel 1952, nel 1953 o nel 1954. Riuscimmo a vedere il disimpegno americano in Vietnam (o meglio, la nostra sconfitta) proprio nel 1973, quando compivamo i nostri 18 anni di età. Oggi, i ricordi della guerra in Vietnam e del Watergate sono vivissimi e interconnessi nella nostra memoria generazionale.
E ora, con l’incriminazione di Donald Trump da parte di due tribunali statali, uno di New York e l’altro della Georgia, e di due tribunali federali, sembra un déjà vu. Con una grande differenza. Nel 1973, il Partito Repubblicano, che si definiva il partito della legge, il partito dell’ordine, decise di spingere Nixon verso le dimissioni prima di una formale incriminazione. Oggi, lo stesso partito, che dice di essere per la legge e per l’ordine, trova difficile convincere Trump a farsi da parte, a rinunciare a diventare il candidato presidenziale repubblicano nel novembre 2024.
E così, Trump, a differenza di Nixon, è stato formalmente incriminato, arrestato, schedato e poi rilasciato, addirittura quattro volte negli ultimi mesi. Nel caso del suo ultimo arresto, quello del 24 agosto 2023, la prigione della Contea di Fulton, in Georgia, ha distribuito anche la sua foto segnaletica dopo aver rilasciato il detenuto che ha dovuto versare una cauzione di 200 mila dollari. La campagna elettorale dell’ex presidente ha suggerito al detenuto Trump di fare una espressione truce e minacciosa per la foto segnaletica, e così ha fatto. E ora, Trump vende tazze da caffè per $25 e magliette per $35, sempre con la sua foto segnaletica.
Una settimana fa, il conduttore radiofonico Glenn Beck ha chiesto a Trump se si sarebbe vendicato una volta ritornato alla Casa Bianca, semmai incarcerando i suoi oppositori politici, come aveva promesso di fare nel 2016 con Hillary Clinton: “Nel 2016 hai detto, ‘rinchiudila’ (riferendosi a Hillary Clinton). E poi quando sei diventato presidente, hai detto: ‘Non lo facciamo in America’…Ti penti di non averla rinchiusa? E se fossi di nuovo presidente, rinchiuderesti le persone?” Trump ha risposto: “Certo, non abbiamo altra scelta perché è quello che stanno facendo ora a noi”.
Per chi ricorda il vecchio partito repubblicano, quello del motto “Law and Order” (Legge e Ordine), le recenti dichiarazioni di Trump sull’idea di imprigionare i suoi nemici e i continui accenni alla violenza politica che potrebbe scatenarsi in seguito ad una sua eventuale condanna risultante dai diversi procedimenti in corso, sono un abominio, un qualcosa contro la natura stessa del partito.
Invece, la retorica di Trump è più marcata che mai, così come il suo dominio nelle primarie presidenziali repubblicane. Attualmente, la media dei sondaggi lo piazza oltre il 50% delle preferenze tra gli elettori conservatori, contro poco meno del 15% per il governatore della Florida, Ron DeSantis. Il resto dei candidati alla nomination repubblicana si trova ben al di sotto del 10%.
I prossimi mesi saranno critici sia per il futuro del Partito Repubblicano sia per la tenuta democratica degli Stati Uniti. La crisi Watergate nel 1973 ha insegnato che è necessario che la maggioranza degli americani comprenda bene il pericolo posto da presidenti o ex presidenti che pensano di essere al di sopra della legge. Oggi non è certo che la maggioranza degli americani abbia compreso fino in fondo, almeno per ora, il pericolo posto dal comportamento di Donald Trump.