Anthony M. Quattrone
L’annuncio fatto dal presidente americano, Barack Obama, venerdì 21 ottobre 2011, che gli Stati Uniti ritireranno tutte le truppe dall’Iraq entro il 31 dicembre 2011 ha colto di sorpresa analisti e osservatori. E’ vero che la data del ritiro era già stata concordata nell’agosto del 2008 fra il predecessore di Obama, il presidente George W. Bush, e il primo ministro Nuri al-Maliki, ma è anche vero che iracheni e americani stavano trattando da diversi mesi sulla possibilità di lasciare in Iraq un contingente di circa cinque mila soldati americani come consiglieri o con compiti di addestramento delle forze di sicurezza irachene. Lo scoglio maggiore, almeno ufficialmente, rimaneva il trattato sullo stato legale delle forze americane in Iraq, con la richiesta del Pentagono di garantire la loro immunità dinanzi alla legge irachena. Dovunque, attraverso trattati internazionali o accordi bilaterali, sono presenti le forze americane, il Pentagono è stato sempre molto fermo per quanto riguarda la giurisdizione sui propri militari da parte delle corti marziali Usa e non dei tribunali locali o internazionali, anche nel caso di accuse di violazione della legge locale o internazionale.
Il rimpatrio di circa 40 mila soldati americani avviene dopo quasi nove anni dall’invasione dell’Iraq avvenuta nel marzo 2003. Da allora, sono morti 4.481 soldati americani, 316 soldati di paesi alleati, oltre 55 mila insorti iracheni, e oltre centomila civili iracheni. L’America conta anche 32 mila feriti fra i suoi militari, di cui il 20 percento soffre di gravi danni celebrali o spinali.
La tempistica dell’annuncio di Obama sembrerebbe conciliare due esigenze del Presidente, una politica e l’altra tecnica. La prima, quella politica, era di sfruttare la notizia della morte di Gheddafi in Libia, dove gli americani hanno speso pochissimo, senza inviare nessun soldato e senza vittime fra i militari Usa, legandola alla promessa elettorale di ritirare tutte le truppe americane dall’Iraq. Il presidente ha potuto, così, inviare ai suoi oppositori, sia nel partito democratico sia in quello repubblicano, un doppio messaggio: è un presidente affidabile in politica estera e mantiene le promesse fatte. Aveva promesso di ridurre le truppe in Iraq per mandarle in Afghanistan per condurre la caccia ai terroristi di al-Qaeda, e l’ha fatto nel 2010. Aveva promesso di catturare o eliminare Osama bin Laden anche fosse stato necessario sconfinare in Pakistan, è l’ha fatto. Aveva promesso di usare alleanze internazionali per nuove missioni, e l’ha fatto nel caso della Libia, partecipando alle operazioni affidate a un comandante canadese, con grande partecipazione europea, con inglesi e francesi in primo piano. Aveva promesso di ritirare completamente le truppe Usa dall’Iraq, e lo sta facendo. Da quel che si vede e si ascolta durante i dibattiti che si stanno svolgendo in questi giorni fra i candidati repubblicani per le primarie presidenziali, le critiche a Obama per la politica estera sono tiepide o inesistenti.
La seconda esigenza del Presidente è di carattere tecnico. E’ necessario dare il tempo utile ai 40 mila militari americani per lasciare l’Iraq nel modo più efficiente possibile e in piena sicurezza. Il nuovo ministro della Difesa, Leon Panetta, dopo aver diretto come capo della CIA la brillante operazione che ha portato all’eliminazione di Osama bin Laden, ora dovrà dirigere l’uscita dall’Iraq in modo organizzato, risparmiando critiche al Presidente che sicuramente arriverebbero se dovessero esserci attacchi mortali contro i soldati Usa mentre vanno via o se si lasciassero agli iracheni troppi materiali, armi e attrezzature pagate con le tasse dei contribuenti americani.
In un articolo pubblicato sul New York Times del 22 ottobre 2011, Mark Landler fa notare, tuttavia, che la forza che Obama sta dimostrando come “presidente di guerra” e il grosso successo che ha ottenuto con le operazioni anti-terrorismo potrebbero non servire per la sua rielezione il prossimo novembre. Le uccisioni di Osama bin Laden il 2 maggio 2011, del suo probabile successore Anwar al-Awlaki il 30 settembre 2011, la morte di Gheddafi il 20 ottobre 2011, e il ritiro delle truppe americane dall’Iraq entro la fine dell’anno, sono importanti, ma in America è sempre stata la condizione dell’economia a determinare l’elezione o la rielezione di un presidente. Se la debole ripresa economica non si trasformasse in un aumento dell’occupazione prima del prossimo autunno, Obama potrebbe contare soltanto sul poco entusiasmo che gli americani stanno dimostrando nei confronti dei repubblicani sia al Congresso sia nelle primarie per la scelta dello sfidante per le presidenziali del 2012. Nessun candidato repubblicano, per il momento e per la gioia di Obama, riesce a creare emozioni forti fra gli americani.