Anthony M. Quattrone
La Casa Bianca si trova, ancora una volta, a dover scegliere fra idealismo e realismo nel rispondere a una crisi internazionale. E ancora una volta dovrà scegliere fra la relativa tranquillità che un regime repressivo e dittatoriale può garantire e l’inquietante incertezza del cambiamento, che nasce dalla richiesta di libertà e democrazia. L’America che ha eletto Barack Obama sull’onda del “yes we can”, del “change”, non è tradizionalmente propensa ad appoggiare movimenti di massa e rivoluzioni all’insegna dei medesimi slogan che hanno accompagnato il primo afro-americano alla Casa Bianca. Di solito, l’America “realista” sta dalla parte di chi garantisce lo status quo, il libero scambio, l’accesso alle risorse prime, mentre quella “idealista” sta dalla parte delle masse popolari in rivolta, che s’ispirano il più delle volte ai principi della Dichiarazione di Indipendenza Americana e ai dieci emendamenti alla Costituzione, la dichiarazione dei diritti. Quale scuola di pensiero influenza oggi la Casa Bianca? Obama è un realista o un’idealista? Con chi si sta schierando l’America oggi, con i regimi arabi repressivi, che fino ad oggi hanno garantito ordine e stabilità, o con le masse popolari in rivolta, che aspirano all’emancipazione, ma che producono nel frattempo instabilità e incertezza?
Il Dipartimento di Stato gestito da Hillary Clinton è stato attento, fin dall’inizio della crisi che ha colpito i diversi regimi arabi nel nord dell’Africa e in Medio Oriente, nell’incalzare le autorità costituite ad accettare le richieste di riforma che arrivavano dalle piazze in rivolta, senza mai sconfessare direttamente i governanti in carica. La prudenza adottata dalla Clinton ha permesso agli Stati Uniti di cavalcare da un lato l’idealismo della rivolta, rimanendo saldamente ancorati a una politica improntata al realismo, necessaria per proteggere gli interessi americani nella regione.
La rivoluzione in corso nei paesi arabi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente è partita il 17 dicembre 2010, quando Mohamed Bouazizi un ambulante tunisino si è dato alle fiamme per protestare contro un’ingiustizia subita. Gli eventi scaturiti dal sacrificio di Bouazizi hanno portato prima alle dimissioni a metà gennaio 2011 di Zine el-Abidine Ben Ali, al potere da ventiquattro anni, e, infine, a fine febbraio, alle manifestazioni giornaliere da parte di migliaia di tunisini che chiedono le dimissioni del governo provvisorio, guidato da Mohamed Ghannouchi. Le possenti proteste popolari in Egitto dal 25 gennaio 2011 hanno portato alle dimissioni di Hosni Mubarak due settimane più tardi, l’11 febbraio 2011. Cinque giorni dopo, il 16 febbraio 2011, le masse popolari in Libya chiedono la fine della dittatura di Muammar Gheddafi, che dura da oltre quaranta anni. Gheddafi in questi giorni è in seria difficoltà, e non è ancora certa quale piega prenderà la protesta della piazza. Le proteste in Giordania e in Bahrein hanno avuto, almeno per il momento, conseguenze meno drammatiche per il potere costituito, perché le autorità hanno immediatamente aperto canali per dialogare con la piazza, in parte seguendo i consigli della Casa Bianca.
La politica estera americana dovrà sviluppare una strategia capace di prendere in considerazione il rapido cambiamento degli scenari nella regione anche per quanto riguarda gli interessi strategici dei partner europei. Molti paesi del vecchio continente sono legati a doppio filo con i regimi arabi, sia per gli enormi investimenti finanziari arabi in Europa, sia per le commesse delle imprese europee nei paesi arabi. E’ di vitale importanza per l’Europa assicurarsi anche uno stabile approvvigionamento di petrolio e gas dai paesi oggi al centro delle rivolte popolari. Gli europei sono anche particolarmente preoccupati per gli eventuali arrivi in massa di tantissimi immigrati in fuga dai paesi in rivolta. Qualsiasi intervento americano a sostegno delle masse arabe in rivolta potrebbe suscitare un’irritazione molto forte da parte degli alleati europei.
Il direttore di Time e commentatore della Cnn, Fareed Zakaria avverte che Obama non potrà rimanere a lungo affacciato alla finestra, in attesa degli eventi. Per Zakaria, “l’amministrazione deve formulare una strategia che si adegui a questo storico change”, lo dovrà fare al più presto.