La politica economica di Obama riporta GM in borsa

Anthony M. Quattrone

General Motors CEO Dan Akerson (L) smiles with others before ringing the opening bell of the New York Stock Exchange November 18, 2010. REUTERS/Shannon Stapleton

Il salvataggio della General Motors effettuato dal governo americano sedici mesi fa creò notevole preoccupazione fra gli elettori americani perché pochi credevano che il gigante dell’auto avrebbe mai potuto restituire al governo di Washington il mega prestito di 49,5 miliardi di dollari.  Invece, il 18 novembre 2010 il presidente della casa automobilistica di Detroit, Dan Akerson, ha potuto suonare la tradizionale campanella della borsa di Wall Street, dando inizio alle contrattazioni, collocando milioni di azioni della GM, per oltre 20 miliardi di dollari, a prezzi più alti di quanto previsto.  Il governo americano ha già recuperato, attraverso la vendita delle azioni GM in suo possesso, già undici miliardi di dollari, riducendo la sua quota azionaria da 61 a circa 30 percento.

Secondo Obama, “la quotazione a Wall Street è una pietra miliare non solo per quest’azienda, simbolo dell’industria americana, ma anche per l’intero settore dell’auto”.  Obama, riassumendo la politica economica del suo governo, ha dichiarato che “il sostegno a questa azienda ha permesso di salvare migliaia di posti di lavoro e di aiutare un’azienda a modernizzarsi per affrontare le sfide future”.

Non tutti sono felici per il successo della politica economica di Obama e dei democratici.  Paul Krugman, giornalista del New York Times, professore di economia a Princeton, e premio Nobel per l’economia nel 2008, ha scritto che alcuni deputati e senatori repubblicani non sono affatto contenti che l’America possa uscire dalla crisi economica, o almeno, non sono contenti che questo accada durante la presidenza Obama.

Il premio Nobel ha pubblicato un provocatorio articolo sul giornale newyorchese il 19 novembre 2010 intitolato “l’asse della depressione”, giocando sulla famosa frase “l’asse del male” coniata da George W. Bush, in occasione del suo discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002.  Mentre il presidente Bush si riferiva a Iraq, Iran e Corea del Nord, accusati di essere gli sponsor del terrorismo internazionale, il giornalista del Times fa riferimento all’asse insolita formata dalla Cina, dalla Germania e dal partito repubblicano americano, uniti nel tentativo di bloccare gli interventi monetari del presidente della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, atti a stimolare la crescita dell’economia americana.

Secondo Krugman è normale che Cina e Germania siano preoccupati per possibili interventi di Bernanke, perché, se avranno successo, indebolirebbero il dollaro, rendendo le esportazioni americane più competitive a spese dei concorrenti, e un dollaro debole potrebbe ridurre anche il deficit commerciale statunitense nei confronti di Pechino e Bonn.

Per il premio Nobel non è accettabile, invece, che alcuni parlamentari repubblicani americani siano intenti a stroncare gli interventi della Fed solo per motivi di puro calcolo politico.  Krugman accusa il deputato repubblicano Mike Pence e il senatore repubblicano Bob Corker di essere incoerenti negli attacchi che hanno fatto a Bernanke quando lo hanno invitato a sospendere qualsiasi iniziativa di espansione monetaria che potesse indebolire il dollaro e aumentare l’inflazione.  Krugman fa notare, nel suo articolo, che Bernanke sta seguendo le indicazioni che il paladino della politica della destra economica americana, il premio Nobel Milton Friedman, dette in una situazione di crisi analoga a quella attuale, quando raccomandò alla Banca del Giappone nel 1998 di acquistare sul mercato obbligazioni del governo nipponico.

La campagna elettorale presidenziale del 2012 è praticamente iniziata con il collocamento delle azioni GM e con le pressioni sulla Fed.

Mid-term: I conservatori più forti nel Congresso Usa

House Republican leader John Boehner of Ohio celebrates the GOP's victory that changes the balance of power in Congress and will likely elevate him to speaker of the House, during an election night gathering hosted by the National Republican Congressional Committee at the Grand Hyatt hotel in Washington, Tuesday, Nov. 2, 2010. (AP Photo/Cliff Owen)

L’alleanza conservatrice contro Obama, formata dalla destra democratica e dai repubblicani, avanza nel Congresso Usa

Anthony M. Quattrone

I risultati delle elezioni americane del 2 novembre 2010 sono in linea con le previsioni fatte dai sondaggi svolti poche settimane prime del voto. I repubblicani hanno conquistato la Camera con una schiacciante maggioranza di 240 a 189 (mancano ancora i risultati finali per sei seggi), portando via, per ora, 61 deputati ai democratici. Al Senato, dove i democratici e i loro alleati indipendenti hanno ancora la maggioranza con 53 seggi, i repubblicani sono riusciti a raggiungere 47, aumentando la rappresentanza di ben sei seggi. Fra i governatori, i repubblicani hanno strappato ai democratici sei stati. Oggi sono 29 i governatori repubblicani, contro 19 democratici e un indipendente (una carica non è stata ancora assegnata). In sintesi, i repubblicani possono dichiarare vittoria su tutti i fronti.

Il presidente Barack Obama, ad inizio del suo mandato nel gennaio 2009, poteva contare su una schiacciante maggioranza al Senato, formata da 55 senatori democratici e da 2 indipendenti, contro 41 per la minoranza repubblicana (due dei 100 seggi erano vacanti).  Oggi, la maggioranza formata dai senatori democratici e dagli alleati indipendenti è diminuita di sei seggi, cambiando leggermente il rapporto di forza fra maggioranza e minoranza nel Senato.  L’analisi dei risultati del voto per il Senato deve prendere in considerazione due importanti dati.  Il primo è il raffronto fra democratici e repubblicani.  Il secondo è quello fra progressisti e conservatori.  La presenza di una componente conservatrice all’interno del partito democratico rende più complessa l’analisi dei risultati del voto, specialmente per quanto concerne i programmi e gli obiettivi politici espressi dal presidente Obama.

Andiamo in ordine e partiamo con il confronto fra democratici e repubblicani al Senato. Leggi tutto l’articolo