Il nuovo corso della politica estera Usa

US Vice President Joseph Biden (l) and Czech Prime Minister Jan Fischer (unseen) review a guard of honor at the start of their meeting. The Czech Republic said it was ready to take part in a new US missile defence plan, after visiting US Vice President Joe Biden also won backing from fellow NATO allies Poland and Romania. (AFP/Michal Cizek)
US Vice President Joseph Biden (l) and Czech Prime Minister Jan Fischer (unseen) review a guard of honor at the start of their meeting. The Czech Republic said it was ready to take part in a new US missile defence plan, after visiting US Vice President Joe Biden also won backing from fellow NATO allies Poland and Romania. (AFP/Michal Cizek)

Anthony M. Quattrone

La politica estera americana, diretta dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, sta uscendo dal binomio Iraq-Afghanistan in cui il presidente George W. Bush la relegò durante gli otto anni del suo mandato, e riprende quota con una presenza attiva sull’intero scacchiere internazionale.  La politica dell’apertura e del dialogo, promesso da Barack Obama durante la campagna elettorale per le presidenziali USA del 2008, ha definitivamente preso il sopravvento sulla politica dell’intervento unilaterale, che ha caratterizzato gli anni post-11 settembre, in cui si è arrivati a teorizzare, dandone una parvenza di legalità, anche la possibilità di effettuare interventi di guerra preventiva, com’è effettivamente accaduto nel caso dell’invasione dell’Iraq nel marzo 2003.

Con l’approvazione da parte del Senato Usa il 20 ottobre 2009 di un provvedimento che consentirà l’ingresso sul suolo statunitense dei prigionieri attualmente detenuti a Guantanamo, Obama potrà attuare anche la promessa fatta durante la campagna elettorale di chiudere il carcere, migliorando l’immagine degli Stati Uniti all’estero, ed in particolare nel mondo islamico.  Il provvedimento, approvato con una larga maggioranza di 79 a 19, permetterà ai prigionieri islamici internati a Guantanamo di essere detenuti sul suolo americano, dove potranno essere processati davanti ai tribunali civili o militari, dando la possibilità ad Obama di svuotare “Camp X-Ray” a breve.

L’amministrazione americana sembra intenta ad ottenere un largo numero di piccoli successi, quasi per dimostrare che la via del dialogo può essere praticata, nell’attesa di poter completare operazioni strategiche in Iraq ed in Afghanistan, semmai con il ritiro delle truppe americane.  Alcune operazioni del dipartimento di Stato sembrano mirate ad un consumo interno, proprio per convincere gli americani che la via del dialogo in politica estera è fattibile, e non riduce per niente la sicurezza o la forza americana.

Nelle ultime settimane è salito vertiginosamente l’attività del dipartimento di Stato.  La Clinton era presente a Zurigo il 10 ottobre 2009 per la firma fra Turchia e Armenia per la riapertura del confine fra i due paesi, che era stato chiuso dal 1993, e per la ripresa dei rapporti diplomatici fra i due paesi. Leggi tutto l’articolo

Obama, il Nobel, e la visita del Dalai Lama

HH the Dalai Lama with President Barack Obama.  Meeting at the Senate, 2005 (Photo by Sonam Zoksang. High-quality, archival inkjet 8.5" x 11" print signed by the photographer: $15.00 ALL PROFITS from the sale of this photo will go to www.studentsforafreetibet.org)
HH the Dalai Lama with President Barack Obama. Meeting at the Senate, 2005. (Photo by Sonam Zoksang. High-quality, archival inkjet 8.5" x 11" print signed by the photographer: $15.00 all profits from the sale of this photo will go to www.studentsforafreetibet.org)

Anthony M. Quattrone

L’annuncio fatto lo scorso venerdì che il premio Nobel per la pace per il 2009 sarà assegnato a Barack Obama è sorprendente, perché il giovane presidente americano non ha ancora avuto il tempo necessario per portare a termine qualche importante iniziativa in politica estera, nel bene o nel male. Lo stesso Obama è apparso alquanto sorpreso dall’attribuzione del premio, e ha immediatamente dichiarato che lo considera più una “chiamata all’azione” per una politica di pace da parte sua, dell’America, e delle persone di buona volontà, piuttosto che un riconoscimento per qualcosa che avrebbe fatto.

Molti osservatori riconoscono che Obama ha portato nella politica estera americana una ventata d’aria fresca, o, addirittura, un piacevole ritorno al passato, dove la diplomazia torna di nuovo in primo piano, e dove l’azione multilaterale va a sostituire quella unilaterale da parte della superpotenza d’oltreoceano. Obama non fa alcun mistero della sua preferenza per una politica realista, abbandonando l’idealismo di George W. Bush, mettendo chiaramente in secondo piano l’esportazione della democrazia e dei principi occidentali di libertà, privilegiando la necessità di dialogare con tutti, su tutto. Obama, tuttavia, non considera il realismo nella politica estera come l’abbandono della lotta per la libertà in ogni angolo del mondo a favore di una cinica azione basata sugli interessi economici, politici, e militari americani, ma ritiene che attraverso il dialogo, utilizzando metodi di convincimento alternativi allo scontro diretto basato sulla chiusura e l’uso della forza, si può anche avanzare i diritti civili e la libertà.

Le critiche per l’assegnazione del Nobel per la pace ad Obama sono piovute da destra e da sinistra, sia negli Usa, sia nel resto del mondo. E’ difficile comprendere, per alcuni, perché Obama è già meritevole di un riconoscimento così alto, specialmente quando c’erano altri candidati che avevano già dimostrato di meritare il premio per il loro impegno non violento nella lotta per avanzare i diritti civili, o per l’avanzamento della pace nel mondo. In America, alcuni commentatori di destra considerano l’assegnazione del premio il riconoscimento che il presidente americano piace a quella parte del mondo che non vuole un’America capace di difendersi con la forza. Questi stessi commentatori di destra vedono il premio come un peso al collo del presidente, e come un tentativo da parte dei “pacifisti” di legare le mani al presidente nelle scelte che dovrà fare rispetto all’uso della forza in Afghanistan.

Le critiche ad Obama sono arrivate anche dai Taleban, da Hamas e da Gino Strada, il fondatore di Emergency, così come da personaggi della destra americana capeggiati da Rush Limbaugh, che conduce da diversi mesi, attraverso il suo programma radiofonico, un attacco costante contro il presidente. Anche il presidente del Comitato nazionale repubblicano, Micheal Steele, ha attaccato Obama pubblicamente, scrivendo, in un comunicato diffuso dal partito, che “La vera domanda che si pongono gli americani è: che cosa ha realizzato veramente il presidente Obama? E’ spiacevole che il potere di star del presidente abbia messo in ombra instancabili attivisti, che hanno raggiunto traguardi lavorando per la pace e i diritti umani. Una cosa è certa, il presidente Obama non riceverà nessun premio dagli americani per i posti di lavoro creati, responsabilità fiscale o per aver messo da parte la retorica per le azioni concrete”. Leggi tutto l’articolo

Da Kyoto a Copenhagen: nasce l’asse della “Green economy”.

Stretta di mano tra Obama e Hu Jintao al vertice promosso dalle Nazioni Unite il 22 Settembre 2009
Stretta di mano tra Obama e Hu Jintao al vertice promosso dalle Nazioni Unite il 22 Settembre 2009

Diana De Vivo

Il riscaldamento globale rappresenta una delle maggiori minacce per il nostro pianeta: mancano soltanto due mesi ad uno dei più grandi vertici promossi sinora su un tema profondamente sentito dai leader mondiali, il climate change, una questione al centro, ormai, dei numerosi dibattiti a livello europeo ed internazionale:

“La minaccia è urgente”, afferma il Presidente americano Barack Obama, nel corso del summit promosso dalle Nazioni Unite lo scorso 22 Settembre sul cambiamento climatico, “il tempo stringe se non vogliamo lasciare alle generazioni future una catastrofe irreversibile”.

I due paesi, Cina e Stati Uniti, che da soli producono circa il 40% delle emissioni carboniche sul pianeta, sembrano convergere nella direzione di elaborare un nuovo accordo sul clima che superi l’impasse del Protocollo di Kyoto.

L’incontro promosso dai leader mondiali al fine di discutere su questioni globali che interessano i paesi industrializzati ed in via di industrializzazione ha manifestato l’urgenza di affrontare temi quali la riduzione delle emissioni di gas nocivi, i trasferimenti di tecnologie pulite ai paesi emergenti, gli aiuti verdi e la revisione della piattaforma di Kyoto.

Un margine di manovra negoziale verso un ambizioso accordo multilaterale globale sul climate change è emerso dai toni profondamente diversi con cui Obama ha espresso il forte sostegno degli Usa sul tema in vista della Conferenza di Copenhagen prevista per Dicembre 2009, un vertice ambizioso al fine di elaborare un nuovo accordo globale sul clima.

L’eco dei tempi in cui l’Amministrazione Bush negava persino la realtà del surriscaldamento globale, e la Cina addossava responsabilità ai paesi più ricchi è rimpiazzata dalla stretta di mano tra il Presidente Usa, Obama, ed il rispettivo collega cinese Hu Jintao al summit di New York, la quale dimostra inequivocabilmente il rinnovato impegno assunto dai leader dei due giganti che generano il 40% di tutte le emissioni di CO2 sul pianeta.

La scorsa settimana è stata indetta a Bankok, Tailandia, (28 Settembre 2009 – 9 Ottobre 2009) una nuova udienza preliminare in vista del vertice nella capitale danese, in cui saranno esaminate le proposte relative all’elaborazione di una convenzione vincolante sul clima, che imponga obblighi erga omnes; si procederà ugualmente in questa direzione i primi giorni di Novembre con le udienze di Barcellona al fine di giungere a Copenhagen con un preciso ventaglio di proposte. Leggi tutto l’articolo

Afghanistan: Le crudeli scelte di fronte ad Obama

Anthony M. Quattrone

U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)
U.S. soldiers on a 14-hour patrol in eastern Afghanistan (Eros Hoagland /Redux)

Il presidente Barack Obama dovrà scegliere fra due “crudeli opzioni” nella conduzione della guerra in Afghanistan, come scrive l’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, sull’International Herald Tribune del 5 ottobre 2009. Per il vecchio professore di diplomazia, la richiesta di ulteriori truppe, fatte in pubblico da parte del Comandante americano in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, mette Obama di fronte ad un terribile dilemma: “Se rifiuta le raccomandazioni e l’opinione del generale McChrystal, il quale asserisce che le sue forze sono inadeguate per svolgere la missione, il presidente Obama sarà ritenuto responsabile per le drammatiche conseguenze. Se accetta la raccomandazione, i suoi oppositori potrebbero iniziare a descrivere il conflitto afgano come la guerra di Obama, almeno in parte.” Secondo Kissinger, il presidente sarà obbligato a prendere una decisione senza avere alcuna certezza sulla validità delle valutazioni che gli saranno o sono state già sottoposte.

Obama ha subito pesanti critiche dalla destra repubblicana che lo accusa di tergiversare nel prendere una decisione in merito alla strategia da adottare nella guerra in Afghanistan. Mentre alcuni repubblicani hanno apertamente attaccato il presidente, Kissinger, che ha fatto parte del governo del presidente repubblicano Richard Nixon, ha invitato tutti alla moderazione. L’ex Segretario di stato è apertamente a favore di incrementare le truppe Usa in Afghanistan, ma, seguendo la scuola del realismo nella politica estera Usa, crede che sia necessario identificare, con precisione, gli interessi strategici americani. Kissinger fa notare che altri paesi, specialmente quelli che confinano con l’Afghanistan, avrebbero maggiore interesse a stabilizzare il paese, e a rendere inefficace qualsiasi tentativo di ritorno dei Taleban dei loro alleati di al Qaida. I paesi confinanti o vicini all’Afghanistan, come la Cina, la Russia, l’India, il Pakistan, e l’Iran, secondo Kissinger, hanno sostanziali capacità belliche a disposizione per difendere i propri interessi; ma, fino ad ora, si sono tenuti relativamente in disparte, lasciando all’America il compito di intervenire, assieme agli alleati, sobbarcandosi il costo della guerra, sia in termini di vite umane, sia in termini di risorse finanziarie. Il vecchio diplomatico americano, nella sua analisi della situazione che confronta Obama, fa notare che, a differenza della guerriglia in Vietnam o della resistenza in Iraq, i Taleban non godono di un importante sostegno popolare o internazionale.  Leggi tutto l’articolo

Obama tra deficit federale e riforma sanitaria

Anthony M. Quattrone

U.S. President Barack Obama and Health & Human Services Secretary Kathleen Sebelius (R) listen to Dr. Marston Linehan (L) and Dr. Francis Collins (2nd L) during a tour of an oncology laboratory at the National Institutes of Health in Bethesda, Maryland September 30, 2009. REUTERS/Kevin Lamarque (United States)
U.S. President Barack Obama and Health & Human Services Secretary Kathleen Sebelius (R) listen to Dr. Marston Linehan (L) and Dr. Francis Collins (2nd L) during a tour of an oncology laboratory at the National Institutes of Health in Bethesda, Maryland September 30, 2009. REUTERS/Kevin Lamarque (United States)

Lo scontro in corso fra democratici e repubblicani americani sta diventando più aspro su tutti i temi della politica interna, e non mancano frecciate pesanti contro Barack Obama anche per la politica estera. L’ultimo attacco al presidente proviene dal vice capo gruppo dei repubblicani alla Camera, il deputato della Virgina, Eric Cantor, il quale ha accusato Obama, in una dichiarazione fatta al Washington Times il 30 settembre 2009, di mettere a repentaglio la vita dei soldati americani tentennando sulle proposte fatte dal Gen. Stanley McChrystal, comandante delle forze Usa e alleate in Afghanistan. Anche da parte democratica la veemenza degli attacchi contro i repubblicani sta raggiungendo toni normalmente presenti solo durante le campagne elettorali. Il deputato democratico della Florida, Alan Grayson ha descritto le proposte repubblicane per la riforma sanitaria con uno slogan, “se ti ammali, cerca di morire subito!”, causando un tumulto fra i repubblicani, che gli hanno chiesto di scusarsi formalmente.

Nel trambusto quasi elettorale, tuttavia, si comincia ad intravedere uno spiraglio per quanto riguarda un possibile compromesso sulla riforma sanitaria, che è manifestatamene al centro della politica sociale di Barack Obama.

Il presidente non perde l’occasione, durante i numerosi interventi pubblici che sta tenendo in questi giorni, di spiegare come vorrebbe riformare il sistema sanitario, e quali sono i maggiori ostacoli. La bravura di Obama nel proporre agli americani come vuole cambiare il sistema sanitario è controbilanciata dalla forte campagna che le lobby dell’industria medica portano avanti da anni. Secondo alcune stime, le assicurazioni sanitarie americane, per esempio, hanno speso non meno di 600 milioni di dollari, negli ultimi due anni, e già 130 milioni quest’anno, pari a circa 700 mila dollari al giorno, per influenzare il processo decisionale federale, ed in particolare le proposte di legge discusse dalle diverse commissioni del Congresso, cercando di apporre emendamenti favorevoli alle assicurazioni.

La commissione finanza del Senato è l’ultimo ostacolo che deve essere superato prima che la proposta di riforma voluta da Obama possa essere discussa dall’intero Senato, dove i democratici hanno una maggioranza netta. Il lavoro per trovare un compromesso fra la sinistra liberal del partito democratico, i moderati di entrambi gli schieramenti, e la destra conservatrice del partito repubblicano si svolge nel retroscena. La commissione finanza, nel frattempo, ha bocciato il 29 settembre 2009 due proposte della sinistra del partito democratico per la creazione di un’assicurazione sanitaria pubblica che avrebbe dovuto competere con quelle private, garantendo una reale concorrenza, e permettendo anche alle famiglie con meno risorse finanziarie di poter acquistare una copertura sanitaria. La stessa commissione è al lavoro per studiare alcuni emendamenti proposti dalla destra repubblicana che dovrebbero impedire agli immigrati clandestini l’accesso a qualsiasi assistenza sanitaria finanziata dal governo federale, ed eliminare il finanziamento pubblico per l’aborto. Leggi tutto l’articolo