Le sfide di Obama: riforme e ripresa senza creare illusioni

Anthony M. Quattrone

President Barack Obama arrives at a town hall meeting on health care in a Kroger supermarket in Bristol, Va., Wednesday, July 29, 2009.  (AP Photo/Steve Helber)
President Barack Obama arrives at a town hall meeting on health care in a Kroger supermarket in Bristol, Va., Wednesday, July 29, 2009. (AP Photo/Steve Helber)

Il presidente americano, Barack Obama, come altri leader delle nazioni maggiormente sviluppate, è alla caccia di qualsiasi segnale che possa indicare che l’economia del proprio paese sta uscendo dalla recessione e creare, in tal modo, un’atmosfera, anche psicologica, per favorire la ripresa economica.

Un buon leader stabilisce gli obiettivi da raggiungere, indica una politica da seguire e cerca di creare le condizioni per portare avanti la propria politica. I libri sulla leadership propongono alcuni concetti base, come la necessità che il leader crei una visione credibile esercitando, allo stesso momento, il ruolo di agente catalitico di tutti gli eventi che possono portare alla materializzazione della visione. La grandezza di un leader, tuttavia, si misura anche dalla capacità che questi ha nel trovare un giusto equilibrio fra la visione prospettata e quanto la popolazione vive nella realtà quotidiana.

È difficile, per Obama, parlare in modo credibile di ripresa se milioni di americani hanno perso il lavoro e la casa e non hanno più l’assicurazione sanitaria collegata al lavoro. È ancora più difficile avere una prospettiva basata sulla fiducia, quando sono pochissimi i segnali che indicano una reale inversione di tendenza dell’economia americana. È anche pericoloso, politicamente, parlare di ripresa se i segnali che arrivano dall’economia non sono comprensibili per la maggioranza degli elettori. Inoltre, alcuni indicatori economici, già difficili da comprendere per il cittadino comune, con proiezioni delle tendenze a medio termine, non sono sempre interpretati nello stesso modo dagli esperti, specialmente se questi sono consulenti di una parte politica. Leggi tutto l’articolo

La riforma sanitaria Usa – Obama in difficoltà

Anthony M. Quattrone

La presidenza di Barack Obama potrebbe essere definita dalla sua abilità di convincere il Congresso a riformare il sistema sanitario americano, entro la fine di quest’anno. Se Obama riuscirà a far approvare dal Congresso un pacchetto legislativo, condiviso da repubblicani e democratici, garantendo sia l’ampliamento della copertura sanitaria, sia una drastica riduzione dei costi causati da sprechi ed inefficienze, sarà ricordato come un grande presidente. Se Obama fallirà, la sua proposta di riforma del sistema sanitario potrebbe diventare la sua “Waterloo”, come auspica il senatore repubblicano della Carolina del sud, Jim DeMint, che augura, cinicamente, al presidente di non riuscire nel suo progetto di riforma.

Obama vorrebbe estendere la copertura sanitaria a circa 47 milioni di americani che attualmente non sono coperti né da programmi pubblici, né da quelli privati. Il presidente vorrebbe anche ridurre il costo della spesa sanitaria degli americani attraverso una serie di misure nei confronti delle assicurazioni sanitarie private, degli ospedali, le case farmaceutiche, e dei medici. La riforma proposta dai deputati democratici va nella direzione suggerita dal presidente, e offre la possibilità agli americani di scegliere fra assicurazioni sanitarie private e una nuova assicurazione pubblica.

Un sondaggio, condotto la settimana scorsa dalla GfK Roper Public Affairs & Media, rileva che il 56 percento degli americani è fiducioso che Obama riuscirà a riformare il sistema sanitario durante il suo mandato presidenziale. Tuttavia, secondo lo stesso sondaggio, solo il 50 percento degli americani approva come Obama sta portando avanti la politica per la riforma, mentre il 43 percento è contrario, indicando che il presidente sta perdendo l’appoggio degli elettori “indipendenti”.

Obama e la presidentessa della Camera, Nancy Pelosi, vorrebbero che il Congresso approvasse una serie di misure per riformare il sistema sanitario, prima dell’intervallo estivo della Camera, che quest’anno inizia il 9 agosto 2009. La presenza della maggioranza democratica sia alla Camera, sia al Senato, permetterebbe al partito di Obama di far approvare le riforme in brevissimo tempo, ma l’eterogeneità della composizione del partito democratico, dove convivono conservatori puri e progressisti liberal, non permette alla direzione democratica di poter contare su una maggioranza strettamente numerica. Nel partito democratico, un partito generalmente collocato nel centro-sinistra americano, esiste una componente di conservatori, chiamata “Blue Dog” (cane blu), che spesso, vota assieme ai conservatori repubblicani sui temi di economia, e, spesso, anche sui temi sociali. leggi tutto l’articolo

Corte Suprema Usa e paura dell’attivismo giudiziario

Anthony M. Quattrone

U.S. Supreme Court nominee Judge Sonia Sotomayor smiles while answering questions during her fourth and final day of testimony at her U.S. Senate Judiciary Committee confirmation hearings as her mother Celina Sotomayor (L) listens on Capitol Hill in Washington July 16, 2009.   REUTERS/Jason Reed
U.S. Supreme Court nominee Judge Sonia Sotomayor smiles while answering questions during her fourth and final day of testimony at her U.S. Senate Judiciary Committee confirmation hearings as her mother Celina Sotomayor (L) listens on Capitol Hill in Washington July 16, 2009. REUTERS/Jason Reed

Sono in pieno svolgimento le audizioni della commissione giustizia del Senato americano per discutere la nomina della giudice Sonia Sotomayor alla Corte suprema degli Stati Uniti, fatta dal presidente Barack Obama il 26 maggio 2009.  Il dibattito nella commissione precede la conferma ufficiale della giudice da parte del Senato durante la votazione che avverrà molto probabilmente durante la prima settimana di agosto.  La Sotomayor, se sarà confermata, andrà a sostituire il giudice progressista David Souter, che ha lasciato la Corte il 30 giugno 2009, lasciando inalterata la composizione a maggioranza conservatrice dell’attuale Corte, che vede, di solito, cinque giudici conservatori votare compatti contro quattro progressisti, solo su quelle questioni legali che si prestano a divisioni ideologiche.

E’ sicuramente particolare per uno straniero osservare come la nomina di un giudice alla massima corte può suscitare passioni politiche ad altissima tensione, con lunghe dirette che inchiodano alla televisione milioni di americani.  Ogni domanda fatta dai senatori, così come ogni risposta data dal giudice divengono oggetto di studio minuzioso e di commento da parte degli analisti politici e giudiziari.  L’attuale audizione della giudice Sotomayor è seguita dalla diretta televisiva delle reti via cavo, ed è oggetto di lunghi resoconti nei telegiornali via etere, seguendo la consolidata tradizione stabilita con le audizioni di Robert Bork, nominato nel 1987 da Ronald Reagan alla Corte Suprema, e Clarence Thomas, nominato da George  H. W. Bush nel 1991

La nomina di Bork scatenò la passione politica di milioni di liberal americani, convinti che Bork avrebbe abolito sia le leggi contro la discriminazione razziale, sia il diritto delle donne di abortire.  La campagna portata avanti dai liberal attraverso gli organi di informazione per “uccidere” politicamente Bork fu così convincente, che il Senato decise di bocciare il 23 ottobre 1987 la sua candidatura con un voto di 58 contrari e 42 favorevoli.  Le tattiche usate contro Bork da parte dei democratici hanno dato vita ad un nuovo verbo,“to bork”, ripreso dalla Oxford English Dictionary nel 2002, per definire l’attacco sistematico e brutale contro un candidato per impedire la sua elezione o nomina ad una carica pubblica. Leggi tutto l’articolo

America-Russia, disgelo a metà

Anthony M. Quattrone

US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)
US President Barack Obama (R) shakes hands with Russian President Dmitry Medvedev (L) at the Kremlin in Moscow. Obama later met Russia's powerful Prime Minister Vladimir Putin, a man who he described in the run-up to the summit as having "one foot" in the past of the Cold War. (AFP/RIA/Vladimir Rodionov)

La visita di Barack Obama a Mosca il 6 e 7 luglio 2009 aveva lo scopo di far ripartire i rapporti fra Stati Uniti e Russia con il piede giusto, dopo un lungo periodo d’incomprensioni. Alcune decisioni delle precedenti amministrazioni americane avevano fatto scattare reazioni basate sull’orgoglio ed il nazionalismo russo. La politica americana a favore dell’ampliamento dell’Alleanza Atlantica verso est, e l’invasione russa in Georgia, lo scorso agosto, hanno portato allo stallo la cooperazione fra i due paesi. In campagna elettorale, Obama aveva promesso di fare un “reset” del rapporto con la Russia, per rimettere in piedi una più fattiva collaborazione, mirando anche ad una drastica riduzione degli arsenali nucleari.

Obama e il presidente russo Dmitry Medvedev hanno raggiunto un accordo preliminare che dovrebbe prendere il posto del trattato sulla riduzione delle armi strategiche (START), che scade il prossimo 5 dicembre. Americani e russi possiedono oltre il 90 percento di tutte le armi nucleari, e ora mirano a diminuire i loro arsenali di almeno un terzo, riducendo il tetto attuale delle 2.200 testate strategiche a circa 1.500, entro sette anni. Il nuovo accordo prevede anche una drastica riduzione dei vettori strategici, comprendenti missili balistici, e quelli montati su sottomarini e caccia bombardieri, lasciando in piedi l’attuale sistema di verifica.

Obama è riuscito ad ottenere il transito in Russia di truppe americane dirette in Afghanistan, e la Russia ha anche ripreso il dialogo e la collaborazione militare con l’Alleanza Atlantica, sospesa dopo l’invasione della Georgia. La questione dei sistemi radar e di difesa missilistica che gli americani vorrebbero installare nella Repubblica Ceca e in Polonia, rimane ancora aperta, ma Medvedev ha indicato che il dialogo prosegue.

Obama può sicuramente registrare un passo in avanti nei rapporti con Mosca, ma rimane una generale diffidenza da parte dei russi nei confronti degli americani. A differenza di quanto è successo nelle altre capitali, visitate negli scorsi mesi dal presidente americano, non si è registrato alcuna manifestazione di “obamamania”. Secondo alcuni sondaggi, la maggioranza dei russi è sospettosa degli americani, e considerano gli Stati Uniti colpevoli di flagranti atti di abuso di potere nelle questioni di politica internazionale. Leggi tutto l’articolo

Petraeus, l’Iraq, e la democrazia

Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command
Official photo of General David Howell Petraeus, USA Commander, U.S. Central Command

Anthony M. Quattrone

La nuova strategia militare sviluppata alla fine del 2006 e attuata nel 2007 dal generale americano David Petraeus, chiamata “surge” (ondata o impennata), che prevedeva un grosso aumento della presenza delle truppe a stelle e strisce in Iraq per un limitato periodo di tempo, ha avuto successo.  Il 30 giugno 2009, i militari americani si sono ritirati da tutte le grandi città irachene, consegnando il controllo del territorio alle forze armate irachene.  Dopo due anni e mezzo dall’inizio del “surge”, la strategia del generale Petraeus ha raggiunto gli obiettivi preposti, ed è diventato il modello per la nuova strategia del presidente Barack Obama in Afghanistan.

La storia del “surge” è forse un esempio della dinamicità della democrazia americana, dove, fra tesi e antitesi, si arriva finalmente alla sintesi, bipartisan, nell’interesse del Paese.  Nel novembre 2006, quando il Congresso americano, appena passato dalla maggioranza repubblicana a quella democratica, era diviso sulla strategia che l’America doveva adottare per uscire dal pantano della guerra in Iraq, nessuno avrebbe scommesso che una strategia di incremento piuttosto che di riduzione delle forze armate Usa in Iraq, avrebbe avuto successo.

La vittoria democratica nelle elezioni del “mid-term” era considerata un mandato per bocciare, nel suo insieme, la politica del presidente repubblicano George W. Bush in Iraq.  Poco dopo le elezioni, il 6 dicembre 2006, un gruppo di studio bipartisan, l’Iraq Study Group, diretto dal repubblicano James Baker e dal democratico Lee Hamilton, aveva chiaramente indicato che c’era bisogno di idee fresche e coraggiose per permettere alle forze armate americane di lasciare l’Iraq, garantendo, allo stesso tempo, la stabilità e la pace nel paese.  Nel frattempo, anche fra i militari, le migliori menti erano al lavoro per cercare come rendere l’Iraq più sicuro, creare un quadro di riferimento in cui potesse svilupparsi la democrazia e le sue istituzioni, e stabilire un piano per il ripiegamento delle truppe Usa nel paese. Leggi tutto l’articolo