La sicurezza nazionale Usa e la tortura

Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press
Protestors simulate waterboarding at a demonstration against the act. Manuel Balce Ceneta/Associated Press

Pubblicata la corrispondenza segreta che autorizzava la tortura

Anthony M. Quattrone

L’American Civil Liberties Union aveva chiesto ufficialmente al governo americano di rendere pubblica la corrispondenza segreta dell’amministrazione del presidente George W. Bush riguardante l’uso di metodi di interrogazione particolarmente duri, che erano stati autorizzati a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.  Il presidente Barack Obama, ha dato l’autorizzazione, il 16 aprile 2009, per la pubblicazione della corrispondenza relativa alle opinioni legali espresse dal ministero della giustizia nel 2005.

Dopo la pubblicazione della corrispondenza, politici, giornalisti, funzionari governativi, militari, ex agenti della Cia, opinionisti, e semplici cittadini stanno partecipando in un ampio dibattito che si sta sviluppando attraverso tutti gli organi d’informazione, nelle università, e nelle istituzioni dello Stato, scatenando passioni estreme sia a destra, sia a sinistra.  A destra si accusa il presidente di aver danneggiato la sicurezza del paese attraverso quest’atto di trasparenza.  A sinistra, Obama è accusato di complicità con chi ha ordinato ed eseguito interrogatori che rasentano la tortura, perchè si rifiuta, per il momento, di prendere iniziative legali nei confronti di alcuni membri della precedente amministrazione di George W. Bush, e, in particolare, contro i più alti funzionari degli organismi della sicurezza.

La polemica sulla divulgazione della corrispondenza della Cia e sulla punibilità di chi ha ordinato ed eseguito gli interrogatori che oggi sono sotto accusa, non riesce però a mettere in secondo piano un dibattito ancora più importante sul rapporto fra valori e sicurezza.  Sono molti gli americani che si chiedono se la necessità di garantire la sicurezza nazionale può essere usata come motivo per violare alcuni valori basilari della cultura americana, come la ripugnanza per ogni forma di tortura e il rispetto per la dignità umana, anche per quella del peggiore nemico degli Usa.

L’apparente dicotomia fra sicurezza nazionale e il concetto di stato di diritto è evidenziato in tutti i dibattiti in corso.  Da un lato ci sono i rappresentanti dell’amministrazione Bush, come l’ex direttore della Cia, Michael Hayden, e l’ex ministro della giustizia, Michael B. Mukasey, i quali hanno sottolineato in un articolo scritto per il Wall Street Journal del 17 aprile 2009, intitolato “Il presidente si lega le mani sul terrore”, che i metodi adottati per gli interrogatori erano legittimi e hanno funzionato.  Il capogruppo repubblicano della Camera, John Boehner, ha dichiarato che la pubblicazione della corrispondenza sui sistemi d’interrogatorio è stata fatta senza prendere in considerazione quanto ha compiuto il governo Bush per rendere sicuro il paese, e che Obama farebbe bene a concentrarsi su come continuare a tenere l’America sicura.  L’ex vice presidente Dick Cheney, uno dei fautori dell’uso di metodi d’interrogatorio duri, afferma che proprio attraverso l’uso di questi interrogatori, l’America è riuscita ad ostacolare i piani dei terroristi di Al Qaeda per effettuare altri attacchi sul territorio Usa.

Dall’altro lato, ci sono i deputati e i senatori democratici che vogliono aprire inchieste proprio su come il governo Bush sia arrivato alla decisione di autorizzare metodi d’interrogatorio che rasentano, a loro dire, la tortura.  La senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha dichiarato che la sua commissione, quella dell’Intelligence, ha già iniziato un’indagine a tale proposito.  Alcuni membri del Congresso vorrebbero la creazione di una “Truth Commission” (una commissione verità), per portare alla luce sia la procedura decisionale, sia le fondamenta legali su cui si sono basate le autorizzazioni date alla Cia e ad altri organismi che hanno partecipato negli interrogatori di prigionieri sospettati di essere terroristi. Leggi tutto l’articolo

Stati Uniti e Messico contro i narcos

Obama sostiene la lotta di Calderón

President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)
President Obama talks with Mexican President Felipe Calderón during a banquet at the Anthropology Museum in Mexico City. April 16, 2009 (Ronaldo Schemidt / AFP/Getty Images)

Anthony M. Quattrone

Con la canzone “South of the Border” (A sud della frontiera) del 1939, resa famosa nella versione di Frank Sinatra nel 1953, e con cartoni animati come Speedy Gonzales (il “topo più veloce del Messico”), due o tre generazioni di americani sono cresciute con un’immagine molto romanzata, e poco veritiera del Messico.  La città di Tijuana, oltre il confine fra la California e il Messico, era famosa già negli anni venti, in pieno proibizionismo, ed erano tantissimi gli americani che passavano weekend edonistici “south of the border”, dove si poteva bere alcol e giocare nei famosi casinò come l’Agua Caliente.  Nell’immaginario collettivo americano, il Messico ha rappresentato, o forse rappresenta ancora per alcuni, una dimensione più umana e “lenta” del vivere quotidiano, dove pane, amore, e fantasia regnano, e la frenesia della vita moderna passa in secondo ordine.

La notizia, riportata con grande risalto dalla stampa Usa, che circa 11 mila persone sono state uccise in Messico dal dicembre 2006 ad oggi a causa della guerra fra bande di trafficanti di droga per il controllo del mercato Usa, e fra queste bande e le forze di sicurezza messicane, sta portando alla luce la dura realtà a sud della frontiera.  Il presidente Barack Obama si è fermato ieri a Mexico City, in occasione del viaggio verso Trinidad e Tobago, dove si svolgerà oggi il quinto Summit delle Americhe, per incontrare il presidente messicano Calderón, e manifestargli il suo appoggio nella lotta contro i cartelli della droga.  Prima di partire, Obama ha preso diverse iniziative per mostrare il suo sostegno a Calderón.  Il presidente ha nominato Alan Bersin, un ex procuratore federale, al ruolo di “zar” della frontiera, dove avrà il compito di lavorare con le autorità messicane per controllare meglio la lunga e porosa frontiera fra i due paesi.  L’amministrazione Obama ha aggiunto i cartelli di Sinaloa, Los Zetas, e La Famiglia Michoacana, alla lista di pericolose organizzazioni criminali internazionali coinvolte nel traffico di narcotici.  Con quest’atto formale, il governo americano potrà sequestrare conti bancari e proprietà di questi cartelli negli Usa, o delle persone a loro legati.

E’ interessante notare che, mentre fino a qualche tempo fa, erano gli americani che chiedevano di rendere la frontiera meno permeabile, cercando di impedire l’arrivo di milioni di immigranti illegali dal Messico e fiumi di droga provenienti dall’America Latina, ora sono le autorità messicane che chiedono più controlli per impedire l’afflusso di armi americane, che finiscono per rinforzare gli apparati paramilitari dei cartelli della droga.

Secondo un articolo dell’International Herald Tribune del 15 aprile, che cita fonti del ministero della giustizia Usa, novanta percento delle 10 mila armi che sono state sequestrate in Messico l’anno scorso, proviene dagli Stati Uniti, particolarmente dall’Arizona, dal Texas, e dalla California.  In molti casi, le armi sequestrate sono di qualità superiore a quelle in dotazione alle stesse forze armate messicane, e sono, ovviamente, impiegate dai cartelli della droga. Leggi tutto l’articolo

Per Obama (e Gates) la sfida più insidiosa

Il presidente contro la lobby militare Usa

Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)
Il segretario della Difesa Usa, Robert Gates (DoD photo by Cherie Cullen - defenselink.mil)

Anthony M. Quattrone

La razionalizzazione del bilancio di previsione per il Dipartimento della difesa americano per il prossimo anno fiscale, che negli Usa inizia il primo ottobre, sarà una nuova ardua sfida per il presidente Barack Obama.  E’ in corso un durissimo braccio di ferro fra il Segretario della difesa, Robert Gates, e le potenti lobby che rappresentano gli interessi dell’immenso apparato industriale – militare, le quali, in America, hanno la capacità di influenzare, attraverso vari meccanismi, trasparenti e non, l’intera procedura decisionale concernente la sicurezza nazionale.

Se da un lato, Gates cerca di creare una concordanza fra le reali necessità del Dipartimento della difesa e le voci di spesa, dall’altro, le lobby cercano di influenzare le decisioni attraverso una campagna d’informazione nei confronti dell’opinione pubblica utilizzando due temi particolarmente sensibili e correnti in questo momento: la sicurezza nazionale e la difesa dei posti di lavoro.  Il Segretario Gates parte in svantaggio nel portare avanti la razionalizzazione, perché, da un punto di vista istituzionale, non è l’esecutivo, di cui fa parte, bensì il legislativo che controlla le stringhe della borsa della spesa.  Pertanto, negli Usa, quando le lobby trovano ostacoli nel convincere i militari a fare alcune spese, come l’acquisizione di sistemi d’arma totalmente inutili, cercano di influenzare i membri del Congresso che alla fine dovranno approvare il bilancio.  E così, anche un progetto molto analitico e razionale, proposto dai vertici delle forze armate, potrebbe essere svilito attraverso delle “earmarks” (“segnalibri”), apposti da deputati e senatori, direttamente influenzati dalle lobby.

Gates vorrebbe ridurre la spesa per quegli armamenti che sono necessari per combattere guerre di tipo convenzionale, e aumentare, invece, la capacità dei militari americani nell’affrontare le forze e le tattiche di combattimento non convenzionali, come quelle utilizzate in Afghanistan ed in Iraq.  Nel tentativo di razionalizzare la spesa, Gates ha proposto, per esempio, di ridurre la commessa per il caccia F-22, dall’attuale previsione di 381 esemplari a 187, che costano circa 80 milioni di euro cadauno, non solo per rendere disponibili più risorse per acquistare armamenti necessari per la guerra non convenzionale, ma anche perché è già in corso la produzione del caccia F-35, più moderno ed economico dell’F-22.  La decisione di Gates è stata immediatamente contrastata dai membri del Congresso eletti in Georgia, dove la produzione dell’F-22 crea occupazione per due mila lavoratori.  Il deputato repubblicano della Georgia, Tom Price, ha dichiarato che “questa decisione causerà non solo la perdita di migliaia di posti di lavoro durante un periodo critico, ma danneggia anche le risorse a disposizione per la difesa nazionale”. Il senatore repubblicano della Georgia, Saxby Chambliss è dell’opinione che “l’amministrazione Obama è disposta a sacrificare le vite dei militari americani pur di finanziare programmi domestici sostenuti dal presidente”.  Il deputato democratico della Georgia, Ike Skelton, presidente della Commissione difesa della Camera, fa quadrato con i colleghi repubblicani del suo stato, indicando che in ultima analisi sarà il Congresso, e non il Dipartimento della difesa, che dovrà decidere sulla spesa.  In breve, la riforma del bilancio della Difesa è una strada tutta in salita per l’amministrazione Obama. Leggi tutto l’articolo

Af-Pak, nuova strategia americana

Obama non esclude l’uso della forza in Asia centrale

U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs
U.S. President Barack Obama laughs during a news conference after the G20 summit at the ExCel centre in east London April 2, 2009. Where President George W. Bush was known for his "cowboy diplomacy," his successor, Obama wants to be known as a listener and a builder of bridges. Reuters/Kevin Coombs

Anthony M. Quattrone

E’ noto che gli americani adorano creare acronimi ogni volta che possono abbreviare un titolo troppo lungo, o anche quando hanno difficoltà nel pronunciare qualche parola con troppe sillabe. Qualche volta un acronimo serve anche per creare nuovi slogan, parole d’ordine, o per ripresentare qualcosa di vecchio con un nome diverso.

Il presidente americano Barack Obama usa l’acronimo Af-Pak per designare la zona geografica che comprende l’Afghanistan ed il Pakistan, e ha designato il diplomatico di carriera, l’ambasciatore Richard Holbrooke, come suo speciale rappresentante per quella zona. Nel creare l’acronimo Af-Pak, la nuova amministrazione Usa focalizza la sua politica contro il terrorismo internazionale proprio sul rapporto stretto che c’è fra i due paesi che condividono una frontiera tanto lunga, quanto permeabile, creando una visione d’indivisibilità dei loro destini.

E così, i cittadini americani sentiranno sempre di più i commentatori televisivi e radiofonici parlare di Af-Pak, e leggeranno sui giornali quest’acronimo, perché è l’intenzione di Obama portare la guerra contro il terrorismo proprio nell’Af-Pak, con molta più forza di quanto abbia fatto il suo predecessore. La novità della strategia di Obama è che il presidente sembrerebbe non escludere la possibilità che le forze Usa dislocate in Afghanistan potrebbero, se necessario, sconfinare all’interno del Pakistan per dare la caccia ad al Qaeda, e che, nel frattempo vanno moltiplicati tutti gli interventi per catturare la simpatia degli afgani e dei pakistani attraverso iniziative che mirano direttamente a migliorare le condizioni di vita di entrambi i popoli. Secondo il piano del presidente, un primo intervento prevede che centinaia di consiglieri civili (esperti in agricoltura, didattica, legge, ecc.) partiranno per l’Afghanistan proprio per lavorare sul miglioramento delle condizioni di vita del popolo.

L’amministrazione Obama accusa il precedente governo del presidente George W. Bush, di essersi fatto distrarre dalla questione irachena, completamente sottovalutando la situazione nell’Af-Pak. Per molti osservatori Usa, la decisione di trasferire il grosso delle truppe e delle risorse americane dall’Afghanistan all’Iraq, dal 2003 in poi, ha permesso ai Taleban di riconquistare territori lungo il confine Af-Pak, causando il graduale, ma costante deterioramento della situazione nell’Afghanistan, ricreando una condizione favorevole alla guerriglia contro il governo del paese, e permettendo anche il rafforzamento della presenza di al Qaeda oltre il confine.

L’amministrazione Obama vorrebbe affrontare in modo decisivo la questione Af-Pak, con un approccio che abbini l’uso della forza militare in combinazione con massicci interventi nel campo civile. Il 27 marzo 2009, Obama ha annunciato l’invio d’altri 4.000 militari in Afghanistan, in aggiunta ai 17 mila già pianificati a febbraio, per “sconvolgere, smantellare, e sconfiggere” la rete di al Qaeda in Afghanistan ed in Pakistan e per “prevenire il ritorno dei terroristi in entrambi i paesi nel futuro”. Le nuove truppe dovrebbero addestrare la polizia e le forze armate afgane, con l’intento di creare le condizioni per aumentare il numero dei militari afgani dalle 83.000 unità di oggi, a 134.000 entro la fine del 2011. Leggi tutto l’articolo