Hillary e Obama, una poltrona per due

Usa: La Clinton e il senatore nero dell’Illinois si contendono la nomination democratica

Anthony M. Quattrone

È ufficialmente iniziata la corsa per la candidatura democratica alle presidenziali Usa del 2008 con la creazione di diversi “exploratory committees”. Negli States, il primo atto formale che il candidato di un partito politico aspirante a partecipare alla campagna presidenziale deve affrontare è la costituzione di un comitato esploratore. Questo comitato ha il compito di assolvere alcune pratiche burocratiche, e di valutare se sussistono le condizioni finanziarie e il sostegno politico per condurre la campagna elettorale.

Due candidati democratici sono attualmente sotto i riflettori dei media americani: Hillary Rodham Clinton e Barack Hussein Obama, rispettivamente senatori dello Stato di New York e dell’Illinois. La Clinton ha annunciato che è intenzionata a ottenere la nomination democratica e si dichiara certa di vincere le elezioni presidenziali del 2008. Obama si è mostrato più prudente e ha semplicemente annunciato la formazione del comitato esploratore.

Gli osservatori d’oltreoceano concordano che Clinton e Obama sono probabilmente i due candidati più accreditati per la leadership democratica, ma non escludono la possibilità che altri, come il senatore John Edwards del Sud Carolina, possano aspirare seriamente all’investitura. Edwards, già candidato alla vice presidenza nella sfortunata campagna del senatore John Kerry nel 2004, è particolarmente popolare proprio fra gli elettori democratici degli Stati del Sud e fra l’elettorato nero: l’appoggio di entrambi i gruppi è necessario sia per la nomination democratica, sia per vincere le presidenziali del 2008.

I maggiori giornali americani hanno speso fiumi d’inchiostro negli ultimi giorni nel produrre raffronti fra Hillary Clinton e Barack Obama. Entrambi sono considerati parte dell’elite intellettuale liberal americana, hanno eccellenti capacità comunicative, e possono attrarre i voti sia dei moderati, sia degli elettori non legati a particolari posizioni ideologiche.

Pur ispirandosi alla politica centrista del presidente Bill Clinton, i due candidati mostrano delle differenze sostanziali. La loro storia politica ne è un esempio. La Clinton ha lavorato con il marito Bill nella trasformazione del Partito democratico negli anni Ottanta, quando alla Casa Bianca regnava il conservatore repubblicano Ronald Reagan, il quale era riuscito a conquistare i voti dei democratici del sud, conosciuti come i “Reagan democrats”. Nel ricostruire il Partito democratico attraverso una politica “top-down”, di vertice, i Clinton hanno lavorato sulla trasformazione delle idee guida del partito, rendendole più accettabili alla base conservatrice democratica, composta dal Sud “bianco” e dalle classi lavoratrici del Nord, riaffermando la centralità dei valori tradizionali nel campo sociale, e una politica liberista in quello economico. In breve, una sterzata al centro, se non addirittura verso destra, ha gettato le basi per la vittoria di Bill Clinton nelle elezioni del 1992.

Barack Obama è legato, invece, alla politica movimentista dei ghetti neri di Chicago, dove le popolazioni povere preferiscono il Partito democratico, il quale ha rappresentato storicamente gli interessi dei ceti più deboli e delle popolazioni marginalizzate. Obama è laureato in legge alla prestigiosa università di Harvard, ma ha sviluppato la sua iniziativa politica proprio a Chicago, lottando per i diritti dei più poveri. La sua politica di trasformazione del partito democratico è vista in termini di “bottom-up”, dal basso in alto.

È sulla guerra in Iraq che le posizioni dei due democratici si contrappongono nettamente. Hillary Clinton votò nell’ottobre 2002 a favore della risoluzione del Senato che dava al presidente Bush l’autorizzazione a intervenire in Iraq, mentre Obama, allora membro del Senato dello Stato dell’Illinois, si è espresse, e continua a farlo, contro l’intervento. Anche sulla continuazione della presenza americana in Iraq, e sulla politica estera in generale, gli orientamenti dei due candidati sono molto diversi: da una parte c’è Hillary, che vorrebbe convincere l’elettorato che, nel caso fosse eletta, sarebbe una “comandante-in-capo” forte e decisa; pronta a ricorrere all’uso della forza se necessario; dall’altra parte c’è Obama, che non nasconde le sue perplessità sull’uso della forza e sulla permanenza in Iraq.

Hillary Clinton e Barack Obama si differenziano anche nella concezione della campagna elettorale. La Clinton può contare su un’organizzazione a livello nazionale ben finanziata, disciplinata ed efficiente. Obama considera la sua organizzazione elettorale come un “movimento” nazionale, basato sulla passione dei sostenitori. Tuttavia, entrambi hanno già dimostrato di saper utilizzare Internet e i nuovi media in modo efficace. Obama si avvale normalmente del sistema podcast per mettere in rete i suoi discorsi e gli interventi al Senato.

Anche sulla necessità di unire un Paese che è uscito molto diviso dalle elezioni presidenziali del 2004, i candidati hanno diversità di vedute. Obama non è stato coinvolto nella lunga battaglia “partigiana” fra democratici e repubblicani degli ultimi quindici anni, e può proporsi come un candidato bipartisan; la candidatura Clinton, invece, è fortemente di parte, come confermato dalla stessa candidata, la quale afferma che è già pronta allo scontro frontale con i repubblicani. Obama, invece, sembrerebbe capace di trascendere le differenze fra destra e sinistra, quelle razziali e generazionali. Il “New York Times” ha scritto che per alcuni sostenitori Obama sembrerebbe un politico di una nuova specie “post-partisan, post-razziale, e post-baby boom”.

Nel rapporto con gli elettori neri, il pendolo sembrerebbe oscillare verso la Clinton. Obama è nero, ma forse non lo è “abbastanza” per essere considerato il candidato di fiducia dell’elettorato nero, specialmente nel Sud degli Stati Uniti. Obama è figlio di un immigrato keniota nero e di una donna bianca del Kansas. È nato nelle Hawaii ed è cresciuto in Indonesia. Ha frequentato le migliori università americane del Nord-Est. Non è un figlio della diaspora africana in America e non proviene dalla storia della schiavitù. Non ha particolari legami con il mondo della lotta per i diritti civili in America e non è mai stato povero. In breve, anche se lui si considera un “African-American”, non è certo che la popolazione nera americana si possa identificare con lui. Un sondaggio pubblicato dal “Washington Post” il 25 gennaio 2007, riporta che fra gli elettori democratici neri, tre su quattro preferiscono Hillary a Barack. Nei sondaggi sul gradimento dei diversi candidati, gli elettori democratici neri si sono espressi con un 84% a favore di Hillary Clinton, contro un debole 54% per Barack Obama. D’altro canto, la Clinton può contare sulle vaste alleanze create dal marito Bill con i maggiori leader della comunità nera in tutto il Paese, sia religiosi, che politici.

Obama ha dichiarato che entro il 10 febbraio annuncerà le conclusioni del suo comitato esploratore e deciderà se gareggiare per la nomination. Non ci sarebbe da sorprendersi se Obama decidesse di non candidarsi per le elezioni del 2008, lasciando il campo libero alla Clinton. Obama ha soli 45 anni, e può sicuramente partecipare a molte altre elezioni presidenziali. Potrebbe anche aspirare a un riconoscimento significativo in un governo Clinton, se non addirittura alla vice presidenza.

Pubblicato sull’Avanti! il 30 gennaio 2007.

La buona lezione di Robert McNamara

Anthony M. Quattrone

L’esecuzione di Saddam Hussein, i dubbi sulla legittimità e l’opportunità dell’intervento in Iraq, l’apparente trattamento irregolare di prigionieri da parte delle forze militari statunitensi, e la generale confusione dell’amministrazione Bush su come uscire dal pantano iracheno, rendono attuali gli insegnamenti di Robert McNamara, catturati nel documentario, premiato con l’Oscar nel 2004, The Fog of War (Quella nebbia di guerra).

Robert McNamara è stato fra i più brillanti assistenti del presidente John Fitzgerald Kennedy, per il quale lavorò come ministro della difesa dal 1961 fino all’assassinio di quest’ultimo nel 1963.  Dopo la morte di Kennedy, McNamara servì il presidente Lyndon B. Johnson, fino al 1968, quando si dimise dinnanzi al fallimento della guerra in Vietnam, di cui era stato uno dei maggiori pianificatori.  Dopo l’esperienza governativa, McNamara diventò il presidente della Banca Mondiale dal 1968 fino al 1981.

Nel documentario girato da Errol Morris, McNamara commenta e criticamente valuta alcune decisioni prese, con il suo aiuto, dal Generale Curtis LeMay nella seconda guerra mondiale, e dai presidenti Kennedy e Johnson negli anni sessanta, soffermandosi sulla moralità e l’efficienza di tali decisioni. McNamara nota con freddezza che se gli Stati Uniti avessero perso la seconda guerra mondiale, lui sarebbe stato incriminato assieme al generale LeMay per crimini di guerra contro le popolazioni giapponesi.  LeMay ordinò il bombardamento incendiario di diverse città giapponesi nel marzo del 1945.  In una sola notte, furono uccisi 100 mila civili.  Nel documentario McNamara racconta: “Perché era così necessario lanciare una bomba nucleare se LeMay stava bruciando tutto il Giappone? E da Tokyo proseguì a lanciare bombe incendiare su altre città. Il 58% di Yokohama. Yokohama è pressappoco come Cleveland. Il 58% di Cleveland distrutto. Tokyo ha più o meno le dimensioni di New York. Il 51% di New York distrutto. Il 99% di Chatanooga, che era Toyama. Il 40% di Los Angeles, che era Nagoya. Tutto questo ancor prima di lanciare la bomba nucleare, che, a proposito, è stata lanciata su ordine di LeMay.”  McNamara prosegue: “LeMay disse, ‘Se avessimo perso la guerra, saremmo stati tutti penalmente perseguibili per crimini di guerra ’. E penso che abbia ragione. Lui, e direi anch’io, ci comportavamo da criminali di guerra. LeMay si rendeva conto che ciò che stava facendo sarebbe stato considerato immorale se avesse perso. Ma che cos’è che rende una cosa immorale se perdi e non immorale se vinci?”

L’esecuzione di Saddam è avvenuta a seguito di una condanna formulata da un legittimo tribunale di uno Stato sovrano, in conformità a prove inconfutabili sui crimini commessi contro l’umanità, in occasione del massacro di 148 sciiti nel 1982.  Saddam ha commesso altri crimini contro l’umanità, come il massacro di 182 mila curdi fra il 1987 e il 1988 usando armi di distruzione di massa, e crimini di guerra contro gli iraniani durante il conflitto fra Iraq e Iran dal 1980 al 1988, con un milione di morti.  Non c’è dubbio che Saddam era meritevole di essere condannato alla massima pena vigente nel suo paese, anche se, per quest’autore, così come per milioni di occidentali, la moralità e la legittimità della pena di morte non sono mai, in nessun caso, giustificabili.

Tuttavia, la costanza della formulazione vae victis (guai ai vinti) non sembrerebbe trovare contrasto nella politica internazionale.  La giustizia dei vincitori porta alle impiccagioni dei tedeschi a Norimberga e dei giapponesi a Tokyo, alle esposizioni dei cadaveri appesi a Piazzale Loreto, e, qualche volta, di recente, anche alla condanna all’ergastolo per crimini di guerra o contro l’umanità all’Aja.

Affinché la morte di Saddam non sia percepita come una mera vendetta di parte, sarà necessario affrontare tutte le violazioni del diritto internazionale nella conduzione della guerra irachena, senza esclusioni alcune, prendendo spunto proprio dagli insegnamenti di McNamara.

Pubblicato sull’Avanti! il 3 gennaio 2007.

New York più forte di prima

Anthony M. Quattrone
Nella strategia dei terroristi, l’attacco dell’11 settembre doveva sortire un effetto devastante sugli Stati Uniti e sul mondo occidentale nel suo complesso. Doveva creare un effetto a catena mirante a destabilizzare il modo di vivere in occidente, le alleanze internazionali, l’economia, in breve, doveva fungere da principale tassello in una guerra non lineare e asimmetrica contro il mondo occidentale.  La reazione a catena non c’è stata.  Il mondo occidentale, 5 anni dopo gli attacchi, è vivo ed è forse più forte di prima nell’affrontare il buio del fondamentalismo islamico.

E’ la mia città, New York, non Washington, la capitale della riscossa occidentale all’attacco di 5 anni fa.  New York è rimasta multietnica, multinazionale, multireligiosa, e multilinguistica, come prima del settembre 2001, e forse ancora più di prima. E’ la città dove, passeggiando per pochi isolati si incontrano tutte le razze, tutte le nazionalità, tutte le lingue, e si sentono gli odori delle cucine etniche di tutto il mondo.  E’ la città dove portare un turbante, o un fez, o un semplice cappello da baseball è la normalità più assoluta.  E’ la città dove oltre il 36% degli abitanti sono nati all’estero.  Così come 26% dei 2.752 morti nell’attacco al World Trade Center erano nati all’estero, provenendo da 91 paesi.  New York era e rimane la città più cosmopolita, internazionale, tollerante ed aperta alla diversità.  Questa è la migliore risposta al terrorismo islamico.

Il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, pochi giorni dopo l’attacco, rispondendo alle domande di cosa si poteva fare per New York, rispose “venite a spendere i vostri soldi qui, venite come turisti”, e la gente è venuta, rispondendo in massa all’appello, da tutti gli Stati Uniti e da tutto il mondo.  L’attuale sindaco, Michael Bloomberg, nel comunicato stampa per le celebrazioni del quinto anniversario, riassume magistralmente che “cinque anni fa, la parte migliore dell’umanità, alimentata dalla nostra riverenza per la libertà e in difesa dell’umanità, la civiltà, e la libertà, si erse contro la parte peggiore.  Ricorderemo, ricostruiremo, e andremo avanti con la fiducia di un popolo libero”.  Questa è New York.

Pubblicato sull’Avanti! del 10 settembre 2006

Gli Stati Uniti si preparano alle elezioni di mezzo termine

Anthony M. Quattrone
Le elezioni americane di mezzo termine, che si terranno il 7 novembre di quest’anno, vengono definite così perché si svolgono a metà del mandato presidenziale, ovvero, a due anni dalla sua naturale scadenza, e coinvolgono l’intera Camera dei Rappresentanti (435 seggi), parte del Senato (34 seggi su 100), e moltissime cariche statali e locali (fra cui 36 governatori su 50).  In breve, queste elezioni potranno divenire un referendum popolare sull’operato del presidente Bush e finiranno per influenzare significativamente la campagna presidenziale del 2008.  I democratici mirano a guadagnare 15 seggi in più alla Camera e 6 al Senato per poter riconquistare la maggioranza in entrambe le camere del Congresso, e secondo gli strateghi Repubblicani e Democratici, questo risultato non è fuori dalla loro portata. La festività del Labor Day, che si celebra il primo lunedì di settembre, è la tradizionale apertura della campagna elettorale che durerà circa 10 settimane.
Quattro temi predominanti marcano la contesa fra candidati: la guerra contro il terrorismo, le tasse, i valori tradizionali, e l’andamento dell’economia.  La peculiarità dei quattro temi è la loro trasversalità, caratterizzata da una generale concordanza sui principi fondamentali nei due schieramenti politici, Repubblicano e Democratico, dove la differenza fra le posizioni si manifesta più nell’attuazione dei programmi, in termini di efficienza ed etica, che nei contenuti dei programmi stessi.  Negli ultimi anni gli strateghi conservatori, raggruppati principalmente nel partito Repubblicano, ma non completamente assenti in quello Democratico, sono riusciti a creare una serie di parametri e criteri che vengono adottati dai gruppi di pressione e dai media nel valutare le posizioni e i comportamenti dei candidati.  In generale, tutti i candidati si cimentano nel dimostrare che appoggiano la guerra al terrorismo, la difesa dei valori tradizionali americani di “dio, patria e famiglia”, la riduzione delle tasse, e l’impresa privata come colonna fondamentale dell’economia americana.  Sono pochissimi i candidati che offrono una reale alternativa politica di fondo o di contenuto.
La trasversalità di alcuni temi rende difficile una chiara demarcazione fra Democratici e Repubblicani, come anche quella fra conservatori e progressisti all’interno dei due partiti.  Nella guerra al terrorismo, l’elettorato sembra preferire i Repubblicani ai Democratici, i quali vengono puntualmente definiti “mollicci” nell’affrontare tutti i temi relativi alla difesa del paese.  Ai Democratici viene anche attribuita una loro apparente incoerenza, puntualmente sollevata dai commentatori conservatori, per l’appoggio che hanno dato all’inizio delle operazioni in Iraq al “comandante in capo”, come viene definito il presidente in tempo di guerra, quando non volevano sembrare “mollicci”, mentre ora, cavalcando il risentimento popolare per la lunghezza della guerra e per la mancata “vittoria”, fanno a gara nel dimostrarsi oppositori della strategia di Bush.  La stragrande maggioranza dei candidati democratici che si ripresentano davanti agli elettori questo novembre non solo hanno votato a favore dei poteri di guerra del presidente, ma hanno anche votato per il Patriot Act che limita in modo non del tutto trascurabile i diritti degli americani, dando al governo molti più poteri di quelli che i padri fondatori degli States avrebbero mai potuto immaginare.
Sul tema della guerra al terrorismo la battaglia elettorale fra Democratici e Repubblicani si svolge senza mai discutere la strategia generale contro il terrore o se la guerra a Saddam fosse giusta o almeno utile, bensì si discute sull’efficienza della transizione dei poteri alle autorità irachene, come uscire dal pantano iracheno, e, nel campo etico, si critica i presunti legami fra dirigenti di mega imprese committenti del Dipartimento della Difesa con alcuni membri dell’amministrazione Bush.  Discorsi alternativi sulla necessità di rimettere in piedi strategie di alleanze globali, dare impulso alle organizzazioni internazionali, con l’ONU al primo posto, e mettere al lavoro “the best and the brightest” (i migliori e i più brillanti) delle università per tentare di capire il nuovo mondo globalizzato, non fa parte del programma politico dei Democratici.  La dottrina della guerra preventiva e la definizione del mondo in termini di buoni e cattivi, portata avanti in modo relativamente semplicistico dall’amministrazione Bush, come nel definire alcuni paesi, non necessariamente assimilabili fra di loro, “asse del male”, non trova nei Democratici una visione alternativa.

Nelle elezioni presidenziali del 2004, gli strateghi repubblicani. facendo leva sulla difesa delle “traditional values”, riuscirono a conquistare il voto di alcune grosse comunità cristiane protestanti in quegli stati dove queste comunità avevano storicamente appoggiato candidati democratici.  Nel 2004, Carl Rove, l’ormai famoso stratega elettorale di Bush, ha saputo far leva, per esempio, sull’opposizione manifestata dalle comunità cristiane più conservatrici alla liberalizzazione del matrimonio fra partner dello stesso sesso, associando una vittoria Democratica a questa “aberrazione”.  Nella campagna elettorale di quest’anno, sono pochissimi i candidati che si presentano con un programma che contraddice, anche in modo marginale, le “traditional values” americane.  Quei candidati che sono apertamente a favore dei matrimoni gay, della ricerca scientifica sulle cellule staminali, dell’aborto, e di altri temi che caratterizzano l’area liberal americana rischiano sonore bocciature.
Anche sul tema della tassazione, non ci sono grosse differenze fra candidati Democratici e Repubblicani.  I Repubblicani accusano i Democratici di voler alzare le tasse, e i Democratici rispondono ribadendo di volerle abbassare per tutti e non solo per i ricchi.  Nessuno spiega come e dove trovare i soldi per finanziare la macchina statale, gli impegni militari a livello globale, la previdenza sociale, e gli investimenti infrastrutturali del paese.  Nei dibattiti politici in televisione raramente si sentono candidati che propongono di aumentare le tasse, ridurre le spese per la difesa, ridurre gli investimenti infrastrutturali, o il tagliare la previdenza sociale, ognuno di questi temi è sotto la particolare osservazione di gruppi di pressione alquanto potenti.
Infine, nel campo economico la distinzione fra Democratici e Repubblicani tende a scomparire del tutto.  I candidati dei due partiti si pronunciano contro l’inflazione, contro l’aumento del salario minimo, a favore dell’incentivazione degli investimenti attraverso la riduzione delle tasse, e per la liberalizzazione del commercio mondiale.  I candidati di entrambi schieramenti, con rarissime eccezioni, sono favorevoli alla libertà d’impresa, aderendo alla vecchia massima “what’s good for business, is good for America” (quello che è buono per le imprese, è buono per l’America), e preferiscono non confrontarsi su temi impegnativi come il ruolo dello stato nella gestione dell’economia, ma scontrarsi su questioni contingenti come i motivi dell’aumento del prezzo del prezzo del carburante.  Alcuni commentatori politici di entrambi gli schieramenti hanno ipotizzato che il risultato delle elezioni di novembre potrebbe essere significativamente influenzato proprio dal prezzo del carburante alla pompa nei giorni precedenti l’elezioni, accoppiato a qualsiasi avvenimento di rilievo riguardante la guerra al terrorismo (per esempio la cattura di Bin Landen, o altri eventi collegati al terrorismo).
Le elezioni americane di mezzo termine dovrebbero far riflettere coloro che in Italia spingono per un bipolarismo all’americana.  La mancanza di alternativa di programma negli Stati Uniti, la generale omogenizzazione degli schieramenti politici sui temi della sicurezza, i valori tradizionali, le tasse, e l’economia penalizzano il dibattito politico americano creando una “mainstream” che ingloba e reprime il nuovo a scapito della diversità che tradizionalmente caratterizza la ricchezza politica dei paesi occidentali.

Pubblicato il 7 settembre 2006 sull’Avanti!

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